Siria non uccidono solo le armi chimiche
Lorenzo Trombetta, Middle East Eye, Regno Unito
La diplomazia è di nuovo in fermento per via di un probabile intervento
militare degli Stati Uniti e di alcuni paesi europei in Siria.
L’obiettivo dell’azione, però, non sarebbe quello di proteggere i
civili nella Ghuta orientale – la regione ribelle alla periferia di
Damasco sotto assedio da anni, dove dall’inizio del 2018 sono morte un
migliaio di persone per i bombardamenti del regime di Bashar al Assad e
da dove sono arrivate in queste ultime settimane immagini terrificanti,
diffuse dai principali mezzi di comunicazione.
Al contrario, l’intervento sarebbe una risposta alle ripetute accuse di
uso di armi chimiche nella Ghuta, l’ultima delle quali proprio il 7
aprile nella città di Duma, che ha provocato varie decine di vittime
civili. Questa distinzione solleva diversi interrogativi sull’uso
strumentale fatto da politici e diplomatici della questione delle armi
chimiche in Siria.
Anche se il loro impatto non è determinante in termini militari e
strategici né nell’equilibrio tra le diverse forze in campo, l’uso di
questo tipo di armi fa scalpore in tutto il mondo e crea una frattura
profonda tra gli Stati Uniti, la Russia e il resto della comunità
internazionale.
Strumentalizzazioni
Tutti i governi stranieri coinvolti nella guerra siriana cercano di
strumentalizzare la vicenda delle armi chimiche per difendere i propri
interessi. Diverse volte all’anno, la commissione d’inchiesta
indipendente internazionale sulla Repubblica araba siriana, creata
nell’agosto del 2011 dal Consiglio delle Nazioni Unite per i diritti
umani, presenta ai rappresentanti della comunità internazionale
numerosi rapporti sulle gravi violazioni commesse in Siria.
In questi rapporti, la Commissione ha documentato l’uso di armi
chimiche, formalmente vietato dalla legge internazionale, riprendendo
decine di accuse rivolte non solo contro il governo siriano ma anche
contro i gruppi jihadisti, i gruppi dell’opposizione armata e il gruppo
Stato islamico (Is).
Nell’agosto 2013 l’attacco chimico nella Ghuta, che ha causato la morte
di più di 1.300 persone, ha segnato un punto di svolta. In quel momento
la Russia aveva cominciato a fare una serie di manovre – ben prima
dell’intervento militare vero e proprio di Mosca di due anni dopo – che
hanno modificato i rapporti di forza a favore del governo siriano, e
questo nonostante Assad avesse chiaramente varcato la “linea rossa”
indicata l’anno prima dal presidente statunitense Barack Obama.
Evitando di mettere in atto la minaccia di un’azione militare contro
Assad, Obama ha ceduto a Mosca la responsabilità diplomatica di trovare
una soluzione alla crisi.
Dopo gli attacchi chimici dell’agosto 2013, il ministro degli esteri
russo Sergej Lavrov ha presentato un’offerta al suo collega
statunitense, il segretario di stato John Kerry: il governo siriano
avrebbe smantellato il proprio arsenale chimico sotto la supervisione
dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (Opac), a
condizione di potersi presentare come interlocutore legittimo nel
negoziato di pace.
Il ruolo della Russia
L’accordo ha dato il via a una serie di discussioni all’interno delle
Nazioni Unite sulle armi chimiche. Dopo la firma e la conseguente
ratifica della Convenzione sulle armi chimiche da parte di Damasco, il
Consiglio di sicurezza ha adottato il meccanismo investigativo
congiunto di Onu e Opac sulla Siria (Jim) nell’agosto 2015.
Il rapporto finale di questo organismo internazionale – che conteneva
la condanna del regime, respinta dalla Siria – è stato pubblicato
nell’estate del 2017, e ha messo fine a una serie di manovre che sono
servite solo a diluire il tema della protezione dei civili siriani in
un cinico dibattito tecnocratico.
Da allora la Russia, sostenuta dai suoi alleati, ha dominato il
negoziato, usando più volte il diritto di veto al Consiglio di
sicurezza dell’Onu per proteggere il regime di Assad e dichiarandosi
allo stesso tempo favorevole al divieto dell’uso di armi chimiche nei
conflitti armati.
Questa strategia è stata molto efficace nel costringere le forze
internazionali presenti in Siria a concentrare gli sforzi per
dimostrare l’utilizzo di armi chimiche.
Il governo di Assad, la Russia e l’Iran sono riusciti a spingere i
paesi occidentali ad accettare l’uso prolungato di armi e tattiche
considerate “convenzionali”, che tra l’altro causano molte più vittime
e sono altrettanto illegali secondo il diritto internazionale.
Problemi in secondo piano
Di conseguenza i problemi umanitari sono stati relegati in secondo
piano, mentre le violazioni del diritto internazionale umanitario sono
diventate sempre più spietate e frequenti, come i barbari assedi della
popolazione civile e la distruzione di ospedali e scuole in territori
controllati dai ribelli antigovernativi: a Homs nel 2014, a Daraya e ad
Aleppo nel 2016 e ora nella Ghuta.
Una sorta di amnesia collettiva e un’insostenibile sensazione di
impotenza sembrano aver gradualmente colpito i governi di tutto il
mondo davanti all’aumento delle sofferenze dei siriani.
Dal punto di vista politico e diplomatico, questi attacchi non
convenzionali hanno garantito un vantaggio al regime e ai suoi alleati
a Mosca e a Teheran. E hanno sottolineato l’inefficacia della retorica
statunitense ed europea della “linea rossa”, che ha monopolizzato gli
sforzi diplomatici delle potenze contro Assad – in particolare quelli
di Stati Uniti, Francia, Regno Unito e Turchia. Tutto questo ha fatto
passare in secondo piano gli altri problemi.
Solo il regime deciderà il destino politico del paese. Nessuno verrà a salvare la popolazione
La questione delle armi chimiche viene usata in modo strumentale e
manipolatorio anche per screditare gli avversari. Per esempio, Iran,
Russia e Siria hanno recentemente accusato la Turchia di averle
utilizzate nell’offensiva militare ad Afrin. L’ambasciatore siriano a
New York accusa regolarmente l’opposizione armata di denunciare i
presunti attacchi per provocare un intervento esterno.
Le potenze straniere che si oppongono ad Assad sembrano invece (almeno
finora) accontentarsi di semplici raccomandazioni condite da
rappresaglie occasionali per mettere pressione al governo siriano, alla
Russia e all’Iran, come l’attacco missilistico fatto dagli Stati Uniti
nell’aprile 2017 dopo l’attacco chimico a Khan Sheikhun, nella
provincia di Idlib. Ma non c’è stato alcun impegno politico reale per
mettere fine alla guerra in Siria.
I gruppi di opposizione in esilio stanno cercando di sfruttare la
questione delle armi chimiche per forzare un cambiamento di regime.
Concentrandosi unicamente su questo tema, il Comitato per i negoziati
siriano, che gestisce la trattativa con il governo siriano a Ginevra,
ha finito con il mettere da parte tutta una serie di temi politici
cruciali per ottenere una “transizione” in Siria.
Il futuro del paese
Per quale motivo la questione delle armi chimiche nel paese ha
eclissato totalmente l’utilizzo di tutte le altre forme di armi
cosiddette convenzionali, tra cui gli attacchi aerei contro le
popolazioni civili, che fanno spesso molte più vittime?
Una risposta potrebbe essere che il regime di Assad utilizza le armi
convenzionali quando vuole mostrare la sua forza militare e la sua
determinazione a vincere la guerra, mentre l’utilizzo di quelle
chimiche serve a far capire alla popolazione e alla comunità
internazionale che il regime è altrettanto determinato a vincere la
pace.
E a dimostrare che solo il regime deciderà il destino politico del
paese e nessuno verrà a salvare la popolazione da quello che il
ricercatore Michel Seurat ha definito profeticamente come “stato di
barbarie”.
Le discussioni diplomatiche sull’utilizzo di armi chimiche
indeboliscono il diritto internazionale e in definitiva vanno oltre la
crisi siriana.
Il tema delle armi chimiche non solo evidenzia il costante superamento
della “linea rossa”, ma è anche il simbolo del crescente relativismo
con cui vengono considerati i diritti umani e il diritto internazionale
umanitario, concedendo allo “stato di barbarie” un ruolo legittimo
nella scena internazionale.
Il diritto internazionale umanitario, costantemente e apertamente
violato, è ulteriormente indebolito dalla distanza crescente tra le
regole della guerra convenzionali e quelle applicate a conflitti come
quello siriano. Questa realtà lascia presagire sofferenze senza
precedenti in Siria, oltre a nuove e più sanguinarie guerre in futuro.
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Che
cavolo ci facessero tutti quei politici al Vinitaly non è mistero: come
fosse il Transatlantico di Montecitorio. C’erano la nuova presidente
del Senato Maria Elisabetta Alberti Casellati e il reggente del Pd
Maurizio Martina, il vecchio e nuovo presidente dei deputati di Forza
Italia, Renato Brunetta e Mariastella Gelmini, la leader dei Fratelli
d’Italia Giorgia Meloni, il governatore del Veneto Luca Zaia e il
segretario della Liga Veneta Gianantonio Dal Re, che hanno fatto gli
onori di casa, il vicesegretario del Carroccio Lorenzo Fontana. Nessuno
che abbia il coraggio di azzardare una previsione, di rilasciare una
dichiarazione che oltrepassi di un millimetro il confine dell’ovvio.
Tutti in attesa silenziosa degli esiti di un dialogo, di una
trattativa, che evidentemente corre attraverso altri canali e non
prevede, alla vigilia delle prime decisioni del Capo dello Stato, la
plasticità dell’evidenza pubblica. In effetti più che al Parlamento
sembra di stare al Palio di Siena, quando i cavalli debbono allinearsi
ai canapi. Stavolta senza ordine, rispetto a Siena. C’è sempre di mezzo
una fiasca la quale, mentre a Siena serve a decidere l’ordine
d’ingresso dei cavalli davanti ai canapi, qui l’hanno svuotata i
nostri, aggratis nonostante di diecimila euro di stipendio mensili.
Durante questa fase, è comune tra i fantini adottare strategie, porre
veti incrociati, tentare di raggiungere accordi. I momenti prima della
partenza sono infatti quelli in cui i fantini possono chiedere e
cercare collaborazioni o aiuti ad altri fantini. Tutta questa attività
è detta "fare i partiti".Ogni fantino sa che deve cercare non solo le
migliori condizioni per una buona partenza del proprio cavallo, ma
anche cercare le condizioni sfavorevoli per le contrade rivali. Non
sono mancati i selfies, che nel caso sono offerti gratuitamente pure
quelli dai giornalisti presenti. Bellissimo quello di Corona (67 anni)
che pareva mettesse il suo nasone tra le poppe stagionate della
Casellati (71 anni). Insomma l’è stata una gran giurnada. Non hanno
combinato niente m
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Lavoro e produttività: prima emergenza.
(Giuseppe Travaglini)
Il terremoto delle elezioni del 4 marzo ha aperto la questione della
successione a Palazzo Chigi. E ha riportato in primo piano Il tema
della politica economica e della tenuta dei conti pubblici. Per ora le
forze politiche uscite vincenti dal confronto elettorale si sono
limitate a confermare le promesse fatte, come l'abolizione della
Fornero ed il reddito di cittadinanza, sebbene il disegno delle
riforme sia ancora preliminare e senza un vero costrutto. 1 costi dei
cambiamenti sono molto elevati e difficilmente stimabili, e
richiederanno nella fase di attuazione (se ci sarà) garanzie di
copertura da aggiungere a quelle già in essere per le clausole di
salvaguardia come l'iva. La loro realizzabilità resta perciò
un'incognita, ed errori di manovra rischiano di pesare sulla
credibilità italiana e sulla sua affidabilità internazionale. Che va
naturalmente oltre i confini dell'euro.
L'indirizzo prevalente di M5S e Lega è la redistribuzione del reddito
attraverso l'ennesima riformulazione dell'impalcatura pensionistica e
la novità del reddito di cittadinanza in qualche forma articolato.
Misure di sostegno, certo. E di redistribuzione a favore dei ceti più
deboli. Che però non risolvono la questione centrale della mancata
crescita degli ultimi tre decenni aggravatasi con la crisi del 2008. E
che perciò riaprono, sebbene in altra veste, la questione di quanto
gli interventi redistributivi di breve periodo possano da soli animare
lo sviluppo economico. In fondo, una critica che già aveva riguardato
gli 80 euro di Renzi, tesoreggiati dalle famiglie piuttosto che spesi
sostenendo la domanda. F. che non risolve le questioni della
di-soccupazione giovanile e del Sud, dove le sacche di povertà si
ampliano mentre si impoverisce il terreno produttivo dell'industria e
dei servizi.
Una terza questione posta da M5S e Lega sembra più incentrata sui temi
della produttività e dell'occupazione. Riguarda il Jobs act con la
decontribuzione del costo del lavoro. Le posizioni vanno dalla
estrema cancellazione dei dispositivi vigenti alla cosiddetta
manutenzione. La flessibilizzazione del mercato del lavoro senza
un'adeguata spinta al rinnovamento produttivo delle imprese, al
mutamento della specializzazione, alla riorganizzazione dei sistemi
industriali e dei servizi e all'innovazione, può avere l'effetto
inatteso e perverso di disincentivare le imprese a investire e
innovare, indebolendo il mercato del lavoro e la crescita. Questo
sembra essere il percorso seguito dall'Italia negli ultimi anni. Dalle
linee di tendenza emerge che l'occupazione italiana è tornata a
crescere dalla fine del 2013, ma attualmente resta inferiore al
livello pre-crisi di circa 340mila unità. Questa crescita è il
risultato di tre diversi contributi: la decontribuzionc (ormai
terminata), il Jobs act, e quello che si sarebbe avuto a legislazione
immutata.
I dati mostrano che le ore lavorate sono ben al di sotto del livello
pre crisi, e quindi la crescita occupazionale sconta una caduta delle
ore lavorate per occupato. In altri termini, se aumentano il numero
degli occupati è altrettanto vero che si riduce il tempo di lavoro, e
tale ridimensionamento incide negativamente sui salari di fatto e le
retribuzioni. Questo mutamento si è accompagnato con la retrocessione
degli investimenti che registrano la caduta più ampia tra le variabili
analizzate nel grafico, con una ripresa decisa solo a partire dal 2017
per ('impatto di Industria 4.0. E con la stagnazione della
produttività che mostra variazioni positive solo tra il 2013 e il 2015
quando il monte ore lavorate decresce più velocemente della caduta del
Pil. Per un effetto statistico, non per una ripresa effettiva della
crescita. L'insieme di queste debolezze si è riflesso sul Pil che resta
ancora 4 punti percentuali al di sotto del livello pre-crisi. Il futuro
governo si trova di fronte ad un bivio. Da un lato le misure di
redistribuzione per contrastare disuguaglianza e povertà. Dall'altro
gli interventi per la riqualificazione del sistema produttivo e il
riassetto del mercato del lavoro. Annodare i due capi non sarà facile.
Ma immaginare che sia possibile relegare i temi dello sviluppo e della
produttività negli ultimi fogli dell'agenda politica significherebbe
indebolire ulteriormente l'economia italiana, mettendo a repentaglio
la stabilità economica e le stesse politiche di redistribuzione.
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Giuseppe Travaglini é Ordinarlo di Politica Economica all
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custode
delta Latrina di Nusguamia, l'ing. Claudio Piga, abduano di origini
sardAgnole con ascendenze garibaldine dalla ValCamonica, uno che ha
fatto il classico dai preti annusando le puzzette che aveva disseminato
in aula l'Antonio Gramsci oltre all'avere appreso analisi matematica
uno e due dalla mitica Ajroldi Vasconi è diventato leghista. Pubblica
sulla latrina una “lettera” di una madre ripudia il figlio perché
omosessuale. Il ragazzo cerca ospitalità dal nonno e questo scrive alla
figlia: “Cara Christine: Sono molto deluso da te come figlia”.ecc.ecc.
Ogni anno da mezzo secolo quando si avvicina maggio-giugno, epoca della
celebrazione internazionale del gay-pride, su qualche giornale compare
questa lettera. Il custode delLa Latrina di Nusquamia da una risposta
“alta” stando seduto sull'asse della latrina: “i drammi personali
devono rimanere personali. Socializzarli fa il gioco della società
dello spettacolo o dei gruppi d'interesse, ma non risolve il problema”.
Ale!. Stamattina leggendo la quarta pagina del Corrierone ci è parso di
rileggere - risentire un fraseggio identico ed ecco che Massimo Rebotti
in un articolo: “PATROCINIO AI GAY PRIDE, CRESCONO I RIFIUTI: È UNA
NUOVA STAGIONE? Quando Attilio Fontana era sindaco di Varese rifiutò il
patrocinio al Gay pride cittadino. Ora che è governatore della
Lombardia, l'esponente della Lega ha ribadito il suo no. Quindi, si
potrebbe dire, dov'è la novità? In realtà una novità c'è. Il no
lombardo arriva dopo altri no recenti: a Trento — il presidente della
Provincia autonoma Ugo Rossi, che guida una coalizione di
centrosinistra, ha parlato di «evento folcloristico» — e a Genova — il
sindaco Marco Bucci (centrodestra) ha sostenuto che la manifestazione è
«divisiva» —. Infine, è arrivata la Lombardia e l'aggettivo «divisivo»
è riecheggiato anche nelle motivazioni di Fontana: «Le scelte in questo
campo devono rimanere personali, sbandierarle è sbagliato». Anche se
non abbiamo fatto il classico dai preti riusciamo a comprendere come
l'affermazione del custode delLa Latrina di Nusquamia e quella del
falchetto varesotto sono identiche. Nonostante tutte le verticali che
manifesta per mettere in riga quelli del PD che hanno gettato la
bandiera rossa nel fosso, ecco che lo spirito razzista e fascista balza
fuori. “Boldrinate” a parte assieme al consiglio di tastare se la neo
presidente del Senato sia o meno dotata di “adeguati attributi” tramite
palpamento.
In una postilla –sempre lui- scrive che noi “scriviamo abitualmente che
nell'Amministrazione serrano-crurale nessuno capisce niente di
urbanistica”. Non è una novità che il custode delLa Latrina di
Nusquamia abbia parecchio motivi di sintonia con l'ass. Conti, che da
trent'anni (avete letto bene: TRENTA ANNI, c'era già nella prima
repubblica) “cura” per la sinistra l'urbanistica curnese stando
al governo o all'opposizione condivisa. Così come esiste una
solidarietà di classe visto che Conti e Piga sono laureati al
Politecnico milanese, e sebbene gli ingegneri (Piga) disprezzino
gli architetti (Conti) scatta sempre la solidarietà del genius loci.
Che esistano amorose condivisioni tra l'area culturale di Conti e
quella di Piga sulla difesa –da punti di vista fintamente
differenti degli interessi dei bottegai indigeni lo si vede da come
collimano le azioni del sindaco artista Gandolfi alla
“pedonalizzazione” di Largo Vittoria e Piazza della Chiesa.
Anche dimenticando i 300 o 350mila metri cubi che la giunta serra
dietro disegno dell'ass. Conti ha regato col TS1 al commerciale
di via Fermi-Europa viceversa di quella che non ha fatto alla
FreniBrembo, ricordiamo che il custode delLa Latrina di Nusquamia abbia
l'abitudine di smerdare Curno come “paese sgarruppato alle porte della
città”. L'aggettivo sgarrupppato significherebbe “ vistosamente
degradato, fatiscente, cadente” che è sicuramente vero almeno per il
negozio e l'antro del suo amico sindaco artista Gandolfi dove
assieme avevano sede di una società per creare gli odiati
volantini. Per capire com'è che Conti e le varie giunte in
cui ha brillato come assessore all'urbanistica abbiano una qualche
responsabilità nella creazione di un “ paese vistosamente degradato,
fatiscente, cadente” potrei fare riferimento ad altri due paesi che
stanno alle porte di Bergamo: Torre Boldone e Gorle. La qualità
edilizia media di questi due paesi –la si legge anche nei prezzi delle
case- è nettamente superiore a Curno. Chi viaggi dalla rotonda
“Decorati al valor civile” verso il centro di Gorle incontra una
serie di edifici di varia destinazione che proprio non si vedono a
Curno dalla “rotonda del pollo fritto” alle Crocette. I due quartieri a
nord e sud di Gorle sono imparagonabili alla Marigolda oppure a quello
di via Zaccagnini dove pure vive il Conti e l’hanno creato i suoi
genitori muratori. Se andiamo a Torre Boldone vogliamo mettere
l'intervento dov'è alloggiata (anche) la biblioteca rispetto a quello
sul Cinema 2000 di Curno?. Vogliamo poi confrontare il livello
quali-quantitaivo dei servizi offerti da questi due comuni ai loro
cittadini nonostante non abbiano un milione di metri quadri di
commerciale com'è Curno?. Nonostante siano entrambi due paesi con
difficili problemi di traffico originario per la loro posizione –sono
le garitte della Valle Seriana e della fascia pedecollinare orientale-
e la presenza di un fiume, li si vede come ci siano state “teste
differenti” che hanno governato.
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