LO STALLO POLITICO
Il dovere di fare un governo
di Antonio Polito
I pretendenti reclamano il diritto a formare il governo, conquistato
per meriti elettorali. Ma esiste nella democrazia parlamentare anche un
dovere di far nascere il governo? Probabilmente sì. E la ragione è che
assicurare una guida al Paese è un bene in sé: una delle funzioni, e
tra le più alte, della politica. Non facciamoci illusioni, che si possa
stare comodi e al calduccio senza avere un esecutivo per mesi, se non
per anni. Usciamo da uno dei rari momenti di bonaccia internazionale,
che ci ha consentito una spensierata campagna elettorale. Ma basterebbe
un acuirsi della guerra dei dazi tra Usa e Cina, o l'accendersi in
Siria di un conflitto per procura tra le grandi potenze, per farci
rimpiangere amaramente di non avere un governo che possa prendere le
cruciali decisioni di politica economica ed estera che una tale
situazione richiederebbe.
Nel mondo ideale, con leggi elettorali efficienti e un sistema politico
che renda agevole la scelta tra due schieramenti, il governo del
vincitore si avvicinerebbe molto ai suoi desiderata e alle promesse
fatte. Ma nel caso italiano questo è palesemente impossibile, perché al
vincitore, chiunque esso sia, mancano decine e decine di parlamentari
per formare una maggioranza, e dunque deve trovare degli alleati.
Quindi si tratta di stabilire se il bene di far nascere un governo
rappresenti un interesse generale superiore al bene della coerenza con
le proprie impostazioni ideali e programmatiche.
Nel caso di partiti che abbiano fatto il pieno di voti, l'interesse
generale potrebbe poi perfino coincidere con l'interesse elettorale,
perché si può presumere che tanti italiani li abbiano votati non per
appartenenza ideologica, ma proprio per vederli alla prova. In una
parola: se la Lega o i Cinque Stelle non riuscissero a fare ciò che
hanno promesso agli elettori, e cioè andare al governo e prendere
alcune misure popolari, questo insuccesso alla lunga potrebbe
indebolirli, quasi fotografando una loro impossibilità a governare,
costringendoli così ad accettare un destino di opposizione (e questo
vale anche per il Pd, così scioccato dalla botta elettorale da aver
finora rinunciato ad avanzare qualsivoglia proposta per la formazione
di una maggioranza).
Ma per assolvere a questo «dovere di governare», le forze politiche
devono imparare ad accettare i compromessi richiesti dai governi di
coalizione, composti cioè da partiti diversi. Si possono naturalmente
mettere dei paletti, segnalare le colonne d'Ercole della navigazione
comune; ma non si può porre molte condizioni irrinunciabili se si sta
veramente provando a trovare un'intesa.
Per esempio: Di Maio offre un'alleanza o al Pd o alla Lega. Purché sia
lui il primo ministro. E purché i due potenziali alleati si presentino
all'incontro con le mani in alto, la Lega senza Berlusconi e il Pd con
Renzi nel banco dei cattivi. Due diktat sono troppi. Almeno uno deve
cadere, se si vuole riuscire nell'impresa. Allo stesso tempo la Lega,
che ha invece rinunciato alla condizione di Salvini premier, mette però
un veto a un premier dei Cinque Stelle o a una personalità terza
esterna al Parlamento (oltre che ad ogni alleanza con il Pd). Senza
dire che entrambi i leader ingannano palesemente il tempo in attesa
delle elezioni regionali nel Molise e nel Friuli Venezia Giulia, per
carità, importantissime per loro oltre che per i cittadini di quelle
Regioni, ma certo non quanto la questione del governo dell'Italia.
Il già difficile rebus dei governi di coalizione (è stato lungo e
tormentato farne uno anche in Germania) è complicato nel nostro caso da
un'anomalia tutta italiana. I due maggiori contendenti non sono infatti
«partiti» in senso stretto, che cioè, come dice il nome stesso, si
ritengono «parte» e sanno dunque che devono allearsi con altre parti;
ma sono «movimenti», il cui programma politico è una palingenesi,
capace di unificare l'intero Paese in un nuovo «totus», nazionale o
digitale che sia (provocando per giunta, nei Cinque Stelle in
particolare, anche un pericoloso fastidio per il dissenso interno e per
le critiche dei media).
Per quanti sforzi dunque facciano Di Maio e Salvini, due leader
dinamici e certo più pragmatici dei movimenti che guidano, le mosse dei
vincitori sembrano ancora elettorali, finalizzate cioè a conservare il
consenso sul mercato quotidiano della popolarità. Mentre la soluzione
della crisi richiederebbe di andare oltre questo shortermismo, per dare
risposte concrete agli elettori invece che per esibire loro una
coerenza di ferro.
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Del
cosa deciderà domani sera Mattarella al termine del secondo turno di
incontri coi partiti per dare al paese il nuovo governo ci importa poco
perché in questa repubblica in buona sostanza non è mai il tempo di
fare le cose. Non siamo così convinti che questa tecnica di
tirare a campare adottata dal giachettino (DiMaio) e dal pancetta
(Salvini) coi relativi leccaculi in attesa di dare un’altra legnata a
Forza Italia ed al PD nelle regionali del Molise (22 aprile) e del
Friuli (29 aprile), Valle d’Aosta (20 maggio) risulterà davvero
vincente anche perché la gggente comincerà a domandarsi a che sòle
abbia dato la maggioranza relativa.
E c’è da aspettarsi anche che i mercati comincino a dare qualche
segnale sullo spread così come le 160 crisi industriali chiederanno un
governo che governi e decida mentre si saranno schiariti gli orizzonti
sul campo di battaglia della TIM e il cavaliere vedrà finalmente -dopo
il 4 maggio- come si mettono le faccende coi suoi rivali di Vivendi nel
duello tra Paul Singer e Vincent Bolloré. Che è poi la sua vera
politica.
Se il PD la smette di accoltellarsi al suo interno e gioca
brutalmente una politica fortissima contro chi deve governare ma
non vuole governare, alla fine il giochetto di rimbalzo Salvini VS
DiMaio li falcidia. Al cavaliere interessano le sue TV e la Mondadori e
se i 5S via Salvini gli danno il salvacondotto sul malloppo, lui può
anche fingere di farsi da parte. In fondo a lui dei capisaldi
programmatici -il reddito di cittadinanza piuttosto che l’abolizione
della Fornero o lo stare o meno nella zona euro- gli frega ormai poco
perché il suo mestiere è del tutto slegato da quei problemi. Nel suo
mestiere importa zero anche il debito pubblico -quindi il costo del
denaro- visto che la sua cassaforte è piena.
I veri problemi stanno tutti nel PD perché ha perso la capacità di
stare nel mondo e di capirlo e non dispone nemmeno di risorse umane e
intellettuali capaci da dargli una prospettiva dentro un mondo del
tutto capovolto rispetto agli anni in cui nacquero la Dc e il
PCI.Problemi che non vengono neppure sfiorati da Salvini e DiMaio i
quali immaginano -al massimo- di tornare appunto agli anni sessanta.
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DUE VOLTI DELLA SANITÀ LOMBARDA
Piero Colaprico
L'«eccellenza» e la «delinquenza» nella sanità lombarda s'intrecciano
spesso. Un volta c'era il «sistema delle mazzette», adesso, con i
politici che contano e controllano molto meno rispetto alla Prima
Repubblica, esiste una sorta di «paso doble» di medici e direttori
sanitari, di controllori che chiudono gli occhi e di detective che li
ascoltano con le microspie. Come nel ballo sudamericano,
l'atteggiamento è importante: i primari milanesi sembrano
insospettabili, eleganti e sereni, non raramente i pazienti ne parlano
bene anche dopo le manette. Un altro passo si muove però di nascosto, è
il passo doppio che si balla con gli imprenditori, passi che si fanno
ottenendo sottobanco soldi, viaggi e favori.
Ieri l'assessore alla Sanità della Regione, Giulio Gallera, forzista,
si è detto «frastornato» dal nuovo scandalo. Non si vuol mettere in
dubbio la sua parola.
Ma il suo predecessore, Mario Mantovani, iper-berlusconiano,
nell'ottobre del 2015 finì in carcere per gli appalti truccati nella
sanità. Ci si definì «frastornati» anche allora, poi nel febbraio del
2016 venne arrestato Fabio Rizzi, e cioè il braccio destro del leghista
Roberto Maroni: chiamato per togliere gli spazi di corruzione, finito a
spalancare le porte degli affari sporchi di «Lady dentiera», e cioè
Maria Paola Canegrati, che a sua volta gli aveva pagato la campagna
elettorale. Cioè, diciamolo, in Lombardia questo eccellente «frastuono»
rimbomba da troppi decenni
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La
maggioranza di centrodestra a trazione leghista ha vinto le elezioni
del consiglio regionale lombardo e nemmeno poche ore prima
dell’insediamento tribolato della stessa giunta arriva la ciliegina di
questi arresti domiciliari.
E non in un ospedaletto disperso tra bricchi e camosci oppure alle
falde dell’Etna ma nei principali ospedali ortopedici della città di
Milano. Come dire: la Camera tangenta i fornitori del bar interno: qui
siamo ai massimi livelli nazionali. La sanità lombarda occupa
stabilmente da decenni la pagine della cronaca criminale mentre
saccheggia costantemente i cittadini lombardi con tichets onerosi e
tempi di accesso al servizio ormai biblici ma i cittadini lombardi
premiano ininterrottamente una classe politica che li depreda
legalmente e illegalmente (dov’é nascosto Formigoni ?).
L’ignoranza o la noncuranza con cui i lombardi seguono il proprio
destino sanitario è formidabile e siccome tutto sommato hanno via
parecchi soldi (i pensionati) e in generale è la regione più ricca,
perdonano ininterrottamente la serie di ruberie che prima Formigoni,
poi Maroni e adesso col neo arrivato Fontana... proprio non terminano
mai.
Il fatto è che non sono gli infermieri che rubano le garze o l’aulin ma
sono i primari, cioè quelli che davvero decidono «che fare» sulla pelle
del cittadino che usano il cittadino per ingrassarsi con lo stipendio,
le visite private e con le tangenti. Adesso salterà fuori il solito che
pretende di precisare che «non sono tutti uguali» e che c’è una
maggioranza pulita professionale onesta operosa che tiene in piedi la
baracca. Il pesce comincia a puzzare dalla testa e quindi chi sta
attorno a questi signori capisce benissimo e in breve che «aria
tira» ragion per cui -chissà perché-questi (primari) sono arrivati dove
stanno senza che nessuno prima andasse dai carabinieri. Ma una colpa
ben precisa se la debbono assumere anche quelli che ininterrottamente
votano chi ha messo la sanità lombarda nelle condizioni che leggiamo.
Insomma anche noi lombardi che in massa votiamo chi nomina questa gente
abbiamo qualche colpa e non è solo un «voltare la faccia dall’altra
parte» ma ormai è complicità silenziosa ed esplicita sorretta e
garantita dal nostro «superiore» benessere. Insomma: siccome abbiamo un
po’ di soldi in più tolleriamo anche una «dose maggiore» di
criminalità. Bei cittadini che siamo diventati.
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