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la scuola elementare di Ossimo in Valcamonica: i maschietti in quattro per banco, le femmine in tre per banco, primi anni '30



















































LO STALLO POLITICO
Il dovere di fare un governo
di Antonio Polito

I pretendenti reclamano il diritto a formare il governo, conquistato per meriti elettorali. Ma esiste nella democrazia parlamentare anche un dovere di far nascere il governo? Probabilmente sì. E la ragione è che assicurare una guida al Paese è un bene in sé: una delle funzioni, e tra le più alte, della politica. Non facciamoci illusioni, che si possa stare comodi e al calduccio senza avere un esecutivo per mesi, se non per anni. Usciamo da uno dei rari momenti di bonaccia internazionale, che ci ha consentito una spensierata campagna elettorale. Ma basterebbe un acuirsi della guerra dei dazi tra Usa e Cina, o l'accendersi in Siria di un conflitto per procura tra le grandi potenze, per farci rimpiangere amaramente di non avere un governo che possa prendere le cruciali decisioni di politica economica ed estera che una tale situazione richiederebbe.
Nel mondo ideale, con leggi elettorali efficienti e un sistema politico che renda agevole la scelta tra due schieramenti, il governo del vincitore si avvicinerebbe molto ai suoi desiderata e alle promesse fatte. Ma nel caso italiano questo è palesemente impossibile, perché al vincitore, chiunque esso sia, mancano decine e decine di parlamentari per formare una maggioranza, e dunque deve trovare degli alleati. Quindi si tratta di stabilire se il bene di far nascere un governo rappresenti un interesse generale superiore al bene della coerenza con le proprie impostazioni ideali e programmatiche.
Nel caso di partiti che abbiano fatto il pieno di voti, l'interesse generale potrebbe poi perfino coincidere con l'interesse elettorale, perché si può presumere che tanti italiani li abbiano votati non per appartenenza ideologica, ma proprio per vederli alla prova. In una parola: se la Lega o i Cinque Stelle non riuscissero a fare ciò che hanno promesso agli elettori, e cioè andare al governo e prendere alcune misure popolari, questo insuccesso alla lunga potrebbe indebolirli, quasi fotografando una loro impossibilità a governare, costringendoli così ad accettare un destino di opposizione (e questo vale anche per il Pd, così scioccato dalla botta elettorale da aver finora rinunciato ad avanzare qualsivoglia proposta per la formazione di una maggioranza).
Ma per assolvere a questo «dovere di governare», le forze politiche devono imparare ad accettare i compromessi richiesti dai governi di coalizione, composti cioè da partiti diversi. Si possono naturalmente mettere dei paletti, segnalare le colonne d'Ercole della navigazione comune; ma non si può porre molte condizioni irrinunciabili se si sta veramente provando a trovare un'intesa.
Per esempio: Di Maio offre un'alleanza o al Pd o alla Lega. Purché sia lui il primo ministro. E purché i due potenziali alleati si presentino all'incontro con le mani in alto, la Lega senza Berlusconi e il Pd con Renzi nel banco dei cattivi. Due diktat sono troppi. Almeno uno deve cadere, se si vuole riuscire nell'impresa. Allo stesso tempo la Lega, che ha invece rinunciato alla condizione di Salvini premier, mette però un veto a un premier dei Cinque Stelle o a una personalità terza esterna al Parlamento (oltre che ad ogni alleanza con il Pd). Senza dire che entrambi i leader ingannano palesemente il tempo in attesa delle elezioni regionali nel Molise e nel Friuli Venezia Giulia, per carità, importantissime per loro oltre che per i cittadini di quelle Regioni, ma certo non quanto la questione del governo dell'Italia.
Il già difficile rebus dei governi di coalizione (è stato lungo e tormentato farne uno anche in Germania) è complicato nel nostro caso da un'anomalia tutta italiana. I due maggiori contendenti non sono infatti «partiti» in senso stretto, che cioè, come dice il nome stesso, si ritengono «parte» e sanno dunque che devono allearsi con altre parti; ma sono «movimenti», il cui programma politico è una palingenesi, capace di unificare l'intero Paese in un nuovo «totus», nazionale o digitale che sia (provocando per giunta, nei Cinque Stelle in particolare, anche un pericoloso fastidio per il dissenso interno e per le critiche dei media).
Per quanti sforzi dunque facciano Di Maio e Salvini, due leader dinamici e certo più pragmatici dei movimenti che guidano, le mosse dei vincitori sembrano ancora elettorali, finalizzate cioè a conservare il consenso sul mercato quotidiano della popolarità. Mentre la soluzione della crisi richiederebbe di andare oltre questo shortermismo, per dare risposte concrete agli elettori invece che per esibire loro una coerenza di ferro.
Del cosa deciderà domani sera Mattarella al termine del secondo turno di incontri coi partiti per dare al paese il nuovo governo ci importa poco perché in questa repubblica in buona sostanza non è mai il tempo di fare le cose. Non siamo così convinti che questa tecnica  di tirare a campare adottata dal giachettino (DiMaio) e dal pancetta (Salvini) coi relativi leccaculi in attesa di dare un’altra legnata a Forza Italia ed al PD nelle regionali del Molise (22 aprile) e del Friuli (29 aprile), Valle d’Aosta (20 maggio) risulterà davvero vincente anche perché la gggente comincerà a domandarsi a che sòle abbia dato la maggioranza relativa.
E c’è da aspettarsi anche che i mercati comincino a dare qualche segnale sullo spread così come le 160 crisi industriali chiederanno un governo che governi e decida mentre si saranno schiariti gli orizzonti sul campo di battaglia della TIM e il cavaliere vedrà finalmente -dopo il 4 maggio- come si mettono le faccende coi suoi rivali di Vivendi nel duello tra Paul Singer e Vincent Bolloré. Che è poi  la sua vera politica.
Se il PD  la smette di accoltellarsi al suo interno e gioca brutalmente una politica  fortissima contro chi deve governare ma non vuole governare, alla fine il giochetto di rimbalzo Salvini VS DiMaio li falcidia. Al cavaliere interessano le sue TV e la Mondadori e se i 5S via Salvini gli danno il salvacondotto sul malloppo, lui può anche fingere di farsi da parte. In fondo a lui dei capisaldi programmatici -il reddito di cittadinanza piuttosto che l’abolizione della Fornero o lo stare o meno nella zona euro- gli frega ormai poco perché il suo mestiere è del tutto slegato da quei problemi. Nel suo mestiere importa zero anche il debito pubblico -quindi il costo del denaro- visto che la sua cassaforte è piena.
I veri problemi stanno tutti nel PD perché ha perso la capacità di stare nel mondo e di capirlo e non dispone nemmeno di risorse umane e intellettuali capaci da dargli una prospettiva dentro un mondo del tutto capovolto rispetto agli anni in cui nacquero la Dc e il PCI.Problemi che non vengono neppure sfiorati da Salvini e DiMaio i quali immaginano -al massimo- di tornare appunto agli anni sessanta.
 DUE VOLTI DELLA SANITÀ LOMBARDA
Piero Colaprico
L'«eccellenza» e la «delinquenza» nella sanità lombarda s'intrecciano spesso. Un volta c'era il «sistema delle mazzette», adesso, con i politici che contano e controllano molto meno rispetto alla Prima Repubblica, esiste una sorta di «paso doble» di medici e direttori sanitari, di controllori che chiudono gli occhi e di detective che li ascoltano con le microspie. Come nel ballo sudamericano, l'atteggiamento è importante: i primari milanesi sembrano insospettabili, eleganti e sereni, non raramente i pazienti ne parlano bene anche dopo le manette. Un altro passo si muove però di nascosto, è il passo doppio che si balla con gli imprenditori, passi che si fanno ottenendo sottobanco soldi, viaggi e favori.
Ieri l'assessore alla Sanità della Regione, Giulio Gallera, forzista, si è detto «frastornato» dal nuovo scandalo. Non si vuol mettere in dubbio la sua parola.
Ma il suo predecessore, Mario Mantovani, iper-berlusconiano, nell'ottobre del 2015 finì in carcere per gli appalti truccati nella sanità. Ci si definì «frastornati» anche allora, poi nel febbraio del 2016 venne arrestato Fabio Rizzi, e cioè il braccio destro del leghista Roberto Maroni: chiamato per togliere gli spazi di corruzione, finito a spalancare le porte degli affari sporchi di «Lady dentiera», e cioè Maria Paola Canegrati, che a sua volta gli aveva pagato la campagna elettorale. Cioè, diciamolo, in Lombardia questo eccellente «frastuono» rimbomba da troppi decenni
La maggioranza di centrodestra a trazione leghista ha vinto le elezioni del consiglio  regionale lombardo e nemmeno poche ore prima dell’insediamento tribolato della stessa giunta arriva la ciliegina di questi arresti domiciliari.
E non in un ospedaletto disperso tra bricchi e camosci oppure alle falde dell’Etna ma nei principali ospedali ortopedici della città di Milano. Come dire: la Camera tangenta i fornitori del bar interno: qui siamo ai massimi livelli nazionali. La sanità lombarda occupa stabilmente da decenni la pagine della cronaca criminale mentre saccheggia costantemente i cittadini lombardi con tichets onerosi e tempi di accesso al servizio ormai biblici ma i cittadini lombardi premiano ininterrottamente una classe politica che li depreda legalmente e illegalmente (dov’é nascosto Formigoni ?).
L’ignoranza o la noncuranza con cui i lombardi seguono il proprio destino sanitario è formidabile e siccome tutto sommato hanno via parecchi soldi (i pensionati) e in generale è la regione più ricca, perdonano ininterrottamente la serie di ruberie che prima Formigoni, poi Maroni e adesso col neo arrivato Fontana... proprio non terminano mai.
Il fatto è che non sono gli infermieri che rubano le garze o l’aulin ma sono i primari, cioè quelli che davvero decidono «che fare» sulla pelle del cittadino che usano il cittadino per ingrassarsi con lo stipendio, le visite private e con le tangenti. Adesso salterà fuori il solito che pretende di precisare che «non sono tutti uguali» e che c’è una maggioranza pulita professionale onesta operosa che tiene in piedi la baracca. Il pesce comincia a puzzare dalla testa e quindi chi sta attorno a  questi signori capisce benissimo e in breve che «aria tira» ragion per cui -chissà perché-questi (primari) sono arrivati dove stanno senza che nessuno prima andasse dai carabinieri. Ma una colpa ben precisa se la debbono assumere anche quelli che ininterrottamente votano chi ha messo la sanità lombarda nelle condizioni che leggiamo. Insomma anche noi lombardi che in massa votiamo chi nomina questa gente abbiamo qualche colpa e non è solo un «voltare la faccia dall’altra parte» ma ormai è complicità silenziosa ed esplicita sorretta e garantita dal nostro «superiore» benessere. Insomma: siccome abbiamo un po’ di soldi in più tolleriamo anche una «dose maggiore» di criminalità. Bei cittadini che siamo diventati.