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TIM TELECOM FIBRA & ITALIANITA'.
Tra grandi e piccole sono un centinaio le aziende che fanno istallare la fibra ottica e poi vendono il collegamento. In Italia (però) la connessione avviene in realtà nelle modalità FTTS (fiber-to-the-street) o FTTC (fiber-to-the-cabinet): il collegamento in fibra arriva solo alla cabina stradale o al distributore del quartiere, quindi comunque a una distanza in media di almeno 200 metri dall'abitazione da servire. Il fatto che un percorso così lungo avvenga attraverso il (vecchio e) normale doppino di rame finisce per abbassare moltissimo la velocità di trasmissione effettiva. In buona sostanza negli ultimi metri si spreca l'80% delle potenzialità della fibra ottica. Ovviamente noi italiani siccome siamo furbi siamo al massimo FTTS o FTTC e quindi ricevere il segnale a 1000Mb/sec resterà un sogno per i cittadini che non abitano nel centro dei grandi centri.
Tutto il problema di TIM-Telecom sta nel fatto che i cavi di rame che ancora collegano le cabine stradali agli appartamenti sono valutati dalla proprietà 30 miliardi mentre dal resto del mondo quel valore è dimezzato oppure preferiscono “non” esprimersi.
Un conto è mettere a bilancio 30 (miliardi) ed altro conto metterne a bilancio 15, per una spa Tim-Telecom (con oltre 33 miliardi di debito lordo a fronte di oltre 25 a bilancio). Per un'azienda  con 25 miliardi di debito con le banche un conto è disporre di un capitale (la rete (fibra+rame+centrali) di 30 piuttosto che lo stesso sia valutato la metà. Il problema lo è soprattutto per le banche che hanno prestato i soldi che potrebbero trovarsi 15 miliardi di crediti non garantiti.
«Frenare» quindi il collegamento della fibra FTTH (cioè fin dentro casa) significa conservare ancora il valore del cavo di rame esistente: che non è piccola cosa per gli azionisti della società. Anche perché accade che anche gli altri operatori della fibra debbono utilizzare ancora il cavetto di rame della Telecom per passare dai propri armadi alle abitazioni dei clienti.
L'idea di mettere tutta la rete TIM-Telecom dentro una società a parte e quindi venderla da un lato deve fare i conti con la reale valutazione che il mercato darebbe alla stessa (abbiamo detto: 30 o 15 miliardi?) in quanto l'incasso andrebbe ad abbattere il mega debito e dall'altro succede che gli incauti acquirenti –quand'anche acquistassero  al valore dimezzato- si troveranno tra pochi anni (tre? cinque?) con gran parte della rete in rame da buttare via. Cioè soldi persi.
L'idea quindi di creare una unica società che metta insieme il rame e la fibra della Telecom con la fibra degli altri  operatori in modo da offrire a tutti i potenziali clienti il servizio a parità di condizioni è senza dubbio ragionevole ma si scontra sempre col fatto …. “quanto vale davvero la rete in rame telecom?”. Perché potrebbe esserci un disegno di portare il doppino in rame telecom al massimo del suo valore per non mandare in tilt i bilanci delle banche che hanno prestato i soldi salvo poi – tra pochi anni- far subire alla neonata azienda una batosta quando il doppino andrà smantellato.
Il che vorrebbe dire fregare gli azionisti che hanno investito nella nuova compagnia proprietaria delle rete ma… siccome la grana sarebbe suddivisa anche sulle altre reti… mal comune mezzo gaudio.
Arrivare con la fibra fino alla presa della TV o del PC casalinghi vuol dire mettere a disposizione della clientela una quantità di offerta sterminata e quindi «a monte» mentre si dibatte (a valle) la questione del controllo TIM-Telecom sono in corso le mille manovre per organizzarsi ed accaparrarsi il controllo di chi produce e di chi commercia il prodotto da vendere in rete ad altissima velocità e soprattutto  capacità. Diciamo che per una più sicura «neutralità della rete» è utile (e necessario) che vi sia un gestore (delle varie reti in fibra) unico con una forte componente proprietaria pubblica per garantire eguaglianza di trattamento alla clientela.
L'ultima considerazione riguarda la distribuzione dei prodotti tra clienti via telefoni cellulari e clienti domestici (su TV o PC). Ormai il consumo maggiore resta discretamente appannaggio dei cellulari ma se il sistema di completa in maniera ed a costi accettabili, non è che i due mercati, oltre a crescere, non restino alla fine equilibrati. In buona sostanza la fibra come l'acqua l'energia elettrica e il metano debbono viaggiare su reti a controllo pubblico con proprietà ad azionariato diffuso. A questo punto si innesta il ragionamento di Carlo
L'accordo Sky-Mediaset fa felici tutti. Ma restano tre piccole questioni

Giorgio Simonelli

Dunque l’accordo raggiunto tra Sky e Mediaset per lo scambio di canali e prodotti fa felici tutti. Felice la borsa, felice Sky che inserisce prodotti interessanti nella sua offerta e Mediaset che inserisce le sue generaliste in posizione migliore sul telecomando, felici gli abbonati che si troveranno, per lo stesso prezzo, una possibilità di scelta più originale là dove era un pochettino ridotta (penso al cinema di Sky). Non sarò certo io mettere in dubbio tanti motivi di felicità. Ma in tutta questa giustificata euforia ci sono tre piccole (o grandi, fate voi) questioni che personalmente mi stanno a cuore e che meriterebbero qualche approfondimento, se non qualche risposta.

Prima questione. Se è vero, come dice Carlo Freccero, che il grande sconfitto di questa nuova alleanza è Bolloré con il suo progetto di espansione su Mediaset, esce sconfitta anche l’ipotesi di un grande polo televisivo europeo? Perché, se così fosse, qualche rammarico io l’avrei. Un gruppo tutto americano con i vari intrecci Sky-Fox-Disney-Netflix, senza scomodare la colonizzazione culturale, non apre solo radiose prospettive. E, comunque, a me vedere cosa potrebbe fare in questo settore della tv contemporanea un soggetto radicato nella vecchia Europa sarebbe piaciuto. A proposito, corollario della prima questione: la straordinaria offerta che la nuova alleanza è in grado di proporre riguarda soprattutto l’intrattenimento. Ma l’informazione che, a mio parere, è stata uno degli elementi di spicco di Sky, che posto avrà nel nuovo insieme di canali?
Seconda questione. Insieme con l’informazione e con il cinema a fare la storia della pay tv italiana c’è stato lo sport o meglio il calcio. Il calcio non è stato solo un prodotto in grado di generare abbonamenti ma anche un luogo privilegiato di costruzione della identità, della riconoscibilità dell’emittente, un laboratorio in cui ha costruito il suo linguaggio, ha creato personaggi, le figure divistiche simboli della rete. Attorno a quel laboratorio si sono formate aggregazioni, comunità di spettatori. Il calcio significa coppe internazionali ma anche campionato. E qui, sul campionato, sulla trasmissione in diretta delle partite, il nuovo blocco Sky-Mediaset dovrà subito mostrare le sue intenzioni e le sue potenzialità. Prima di tutto c’è da sciogliere il nodo dei diritti, ma poi c’è da riconsiderare il modo di proporre il campionato. Escluso che, come dice avventatamente qualcuno, sia il più bello del mondo, il problema è come valorizzare quello che c’è. Forse più che sull’appeal spettacolare che non è più quello di un tempo vale la pena di puntare su altre letture meno tecniche e più simboliche quali l’appartenenza, la ritualità, come Sky ha fatto con la serie B. Ma questo vuol dire anche riconsiderare la validità dello spezzatino, a vantaggio di un prodotto meno dispersivo, più compatto.
Infine la terza ineludibile questione che si propone ogni volta che il mercato televisivo ha degli scossoni e di conseguenza ritorna con particolare interesse di fronte a questa novità clamorosa. Che farà la Rai? Ebbene, io credo che la Rai debba fare la Rai, difendere, accentuare il suo ruolo di sevizio pubblico, differenziando il suo stile, il suo linguaggio, i suoi contenuti dalle reti commerciali che le si avvicineranno nei tasti del telecomando, quelle Mediaset. Il che non vuol dire affidarsi solo ai generi nobili, ma costruire il suo palinsesto nel rispetto dei valori della cittadinanza. Tanto mi è parsa inutile e pericolosa l’idea di un partito della nazione, tanto mi sembra preziosa la prese
Criticare un DiMaio che  si pubblica su facebook mentre pranza in casa a pasqua agghindato con la cravatta (idem suo padre fascista) è come sparare sulla croce rossa ma quel che stupisce è che gran parte del suo elettorato sia fatto proprio di giovani. Un terzo dei quali non ha i soldi nemmeno per comprarsi una cravatta da dieci euro, piuttosto che una che costi 30 volte come quella del DiMaio. Se non ricordiamo male quando ci fu da votare la schifezza del rosatellum, i 5stelle votarono contro coll’onesto retropensiero che loro avrebbero raggiunto il 41% e quindi i problemi del governo erano risolti. Invece sono arrivati sull’onda del 32% mentre la compagnia di scalcagnati del centrodestra con la lega ha materializzato un 37% . Nelle prossime settimane sicuramente uscirà qualche libro che raccoglie  tutte le posizioni che DiMaio ha via via cambiato dal dicembre 2016. Ma l’ignoranza politica del personaggio DiMaio è talmente spaventosa da fargli proporre un governo purchessia con le destre o i resti della sinistra. Viene in mente un detto: le macchine tedesche sono una spanna sopra le altre. Ritenendosi alla stessa altezza di una Merkel, il DiMaio scodella a due settimane dal voto la trovata che i vincitori possono potrebbero vorrebbero fare un governo senza alcuna alleanza ma sulla base di un contratto alla tedesca. Speriamo che Mattarella abbia avvertito DiMaio che in Italia occorre esista una maggioranza che vota un governo e una programma e questo avviene non dal notaio ma in Parlamento, che vale un ciccinino più. Non è lecito spingere troppo il paragone con gli anni 20, ma il primo governo Mussolini somiglia al contratto “alla tedesca” (che è un esotismo senza senso compiuto) offerto ieri pomeriggio da Di Maio a Mattarella: tutti dentro quelli che ci stanno, «noi non siamo né di destra né di sinistra» che può essere detto anche al contrario: «siamo sia di destra sia di sinistra secondo chi viene» (nel 1922 non vennero solo i socialisti che Mussolini salutò così: «Voi mi odiate perché mi amate ancora»). Amen.
Tutto quel che avevano immaginato come pernacchia futurista si è per ora travestito e accreditato come il nuovo ventre molle d'Italia. Di Maio ripete «porto qui il popolo» e « undici milioni di voti», che significano, tra le altre cose, anche il plebiscito ai Cinquestelle di Ciaculli, e l'idea di popolo come provincia affamata. Non più l'odore di canfora e di naftalina che accompagnava i democristiani infagottati degli anni cinquanta il cui popolo era il gregge di Dio; non più le giacche ruvide dei togliattiani con in tasca i lirici greci e latini tradotti per il proletariato in marcia. Di Maio indossa l'abito del terno al lotto, è la cuoca di Lenin che vince alla lotteria e davvero pensa che questo basti a governare.