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LA VERA INTUIZIONE DI ALDO MORO
Marco Damilano
Inutile e inane. Così appare a Ernesto Galli della Loggia il progetto di Aldo Moro, in una lettura appassionata e non convenzionale che lo storico dedica al mio libro Un atomo di verità ( Corriere della Sera, 31 marzo). Per Galli della Loggia il tentativo di Moro nel 1978 di aprire la strada a una nuova alleanza politica, con il Partito comunista di Enrico Berlinguer, era destinato al fallimento, perché ormai «le lacerazioni prodotte dalla modernità nel corpo della società» avevano messo in crisi i partiti. La svolta non avrebbe cambiato il corso delle cose, Moro avrebbe perso in ogni caso, anche senza l'azione delle Br e senza interventi esterni, «la crescente ondata avversa alla partitocrazia e al sistema», scrive lo storico, «è la migliore prova della inanità del disegno di Moro».
Io penso, al contrario, che dietro quel progetto ci fosse un'intuizione profonda sulla crisi italiana, come dimostrano gli sviluppi successivi, gli anni Ottanta e la caduta nel 1992-93 della Repubblica dei partiti, per citare Pietro Scoppola. Nel 1974 il referendum sul divorzio aveva rivelato una società secolarizzata e insofferente, sconosciuta ai partiti (quelli del Sì, come la Dc, ma anche quelli del No, perché Berlinguer pensava a una sconfitta) e nel 1975 alle elezioni amministrative il Pci aveva conquistato la guida delle grandi città. Sembrava finito il trentennio di potere democristiano e l'Italia andava a sinistra, esultava il mainstream intellettuale. Soltanto Moro avvertiva i segni di una disgregazione che i partiti non avrebbero più controllato, neppure la sinistra in quel momento trionfante: «È in atto quel processo di liberazione che ha nella condizione giovanile e della donna, nella nuova realtà del mondo del lavoro, nella ricchezza della società civile, le manifestazioni più rilevanti », aveva detto ai dc impauriti per la perdita del potere. «È un moto indipendente dal modo di essere delle forze politiche, alle quali tutte, comprese quelle di sinistra, esso pone dei problemi non facili da risolvere. Un moto che logora e spazza via molte cose e tra esse la “diversità” del Partito comunista. Esso anima la lotta per i diritti civili e postula una partecipazione nuova alla vita sociale e politica». Il “moto indipendente” della società (l'ondata di cui parla Galli della Loggia) si era sollevata e, prevedeva Moro, in una prima fase avrebbe travolto il partito di governo, la Dc, ma in seconda battuta avrebbe spazzato via il Pci e la sua diversità. Com'è avvenuto.
Era la riflessione di un uomo politico preoccupato perché sentiva crescere «la diffidenza, il malcontento, l'ostilità». Moro avvistava il distacco tra politici e cittadini, vedeva in anticipo crescere la voglia di vendetta, più che di giustizia, che si agitava nell'opinione pubblica, in un «Paese inquieto e impaziente», il desiderio di rovesciare tutte le colpe addosso alla classe politica, a una nomenclatura considerata in blocco stanca, imbelle, corrotta. La purificazione da ogni responsabilità. La trasformazione del popolo in un unico, grande tribunale, che avrebbe cancellato la politica come mediazione tra lo Stato e i cittadini. L'emergere di leader, partiti, movimenti, forze che si proponevano di rappresentarsi da soli, seguendo il “moto indipendente delle cose” che avrebbe portato all'annullamento della politica. Avvenuto in Italia in modo più drammatico che altrove perché all'origine di questa storia ci fu la tragedia di via Mario Fani, la strage, il rapimento dell'uomo politico più influente, il suo omicidio, nell'impotenza dello Stato e dei suoi uomini, nei giochi oscuri di attori che si infilarono nella debole trama brigatista di cui le sconnesse e omertose uscite di queste settimane sono testimonianza. Un rito sacrificale collettivo che rese poi impossibile ogni tentativo di auto-riforma del sistema.
Può darsi che il suo disegno non avesse futuro, ma il primo ad avere un'idea disincantata della grande svolta che si stava compiendo era lui. Non voleva il compromesso storico, come Berlinguer, più laicamente stava costruendo un anno di tregua e una strada che portasse l'Italia alla democrazia dell'alternanza. Moro aveva fiducia nell'intelligenza della politica, certo, ma anche una lucida consapevolezza: il potere contava sempre di meno, non era più nelle mani dei partiti e dei loro vecchi riti. «La verità», scrisse al segretario della Dc Zaccagnini dal covo delle Br, «è che parliamo di rinnovamento e non rinnoviamo niente. Siamo sempre là con il nostro vecchio modo di essere e di fare, nell'illusione che, cambiati gli altri, l'insieme cambi e cambi anche il Paese, come esso certamente chiede di cambiare. Non è così. Perché qualche cosa cambi, dobbiamo cambiare anche noi. Si tratta di capire ciò che agita nel profondo la società, la rende inquieta, indocile, irrazionale, apparentemente indominabile».
Sono le parole di un politico che aveva capito. Il suo è stato un ultimo tentativo disperato, ma per nulla inutile, e per questo avversato dalle destre interne e internazionali e incompreso da un pezzo di sinistra. Il 1978 di Moro è stato l'anno di mezzo, ancora oggi ci dà la sensazione di una politica libera dallo stato di necessità, che riusciva a immaginare un cambio di scena. Una pasoliniana disperata vitalità. Dopo di lui sono arrivati la rendita di posizione del Psi di Bettino Craxi che si infilava nella crisi del sistema senza risolverla (e alla fine è fallita), il maquillage delle leggi elettorali, le bicamerali, i referendum costituzionali, e poi un'idea della politica che non è la sfida di cambiare l'esistente, ma appiattimento sull'istante, sull'immediato, l'inseguire l'onda dell'elettorato come fanno i surfisti, che è quello che unisce il berlusconismo, il renzismo e oggi, chissà, la coppia Salvini-Di Maio. Imprigionati in un eterno presente, costretti a essere «comunque perdenti», mentre la voce del presidente-prigioniero di quarant'anni fa continua a parlare. In quel
Le parole  di Moro che Damilano trascrive nel suo articolo si possono utilizzare per dare una lettura e una interpretazione dell’attualità. In particolare alle molte ragioni che hanno condotto il PD renziano alla serie di sconfitte inanellate dopo le europee. Purtroppo le osservazioni e le domande di Moro sono rimaste senza risposta anche dopo 40 anni e oggi nessuno ha una «qualche» risposta. Non ce l’hanno avuta le mille formazioni che si sono separate dal PCI e  dalle sue variazioni nei 40 anni successivi ma se allora erano riflessioni maggiormente «entro» il perimetro della DC, adesso stanno intieramente dentro il PD.
Il PD renziano ha creduto che la risposta economica e sociale ai problemi presenti  nel paese dopo il 2008 bastasse non solo a mantenere il potere ma anche a dare al paese un indirizzo, una speranza. Viceversa il Paese ha mostrato -non è la prima volta- di volere percorre la via più breve possibile e immaginabile per uscire dalla crisi. Dai cappotti elettorali forzisti si è passati ai cappotti elettorali pentastellati e leghisti.
Sono cambiati i tempi ma resta l’incapacità della politica non solo a leggere interpretare e proporre come uscire dalla crisi così come la società se per certi versi mostra una straordinaria volontà di partecipazione alla fine quella è  solo volontà di sopraffazione. Soprattutto al paese non viene data un’idea di futuro: quale sarà il destino degli italiani in Europa e nel contesto mondiale?
Leggiamo  che in totale, nel 2016, tutto quel che rappresenta una ricchezza familiare netta da 5.268 miliardi, equivale a oltre tre volte il reddito nazionale e a quasi due volte e mezzo il debito pubblico. Ma leggiamo anche  che più si era patrimonialmente in basso nel 2006, più si è perso terreno. Al contrario, all'estremità opposta, solo un gruppo ha visto la propria ricchezza aumentare in fretta in questi anni: le dieci famiglie già più ricche, quelle classificate da Forbes perché nel 2016 contavano averi per 86,4 miliardi di euro nel complesso. Nel 2006, la loro ricchezza equivaleva a quella dei 14 milioni di residenti in Italia meno abbienti; nel 2016 è pari a quella di quasi 18 milioni di residenti. Dieci famiglie valgono patrimonialmente come un terzo del Paese. L'Italia non è più alle prese con il parametro del 3 per cento. Quel dato per noi non vale più. L'Italia, infatti, il prossimo anno è impegnata a raggiungere un risultato affatto diverso: il nostro obiettivo è lo 0,9 per cento nel rapporto deficit/Pil e nel 2020 addirittura lo 0,2. Altro che 3 per cento. Come stabilisce il Fiscal compact, i Paesi dell'Ue devono conseguire il pareggio di bilancio e l'Italia ha concordato con la Commissione di fissare quel traguardo nel 2020 con quelle tappe intermedie. È quindi da scriteriati pensare ancora di avere come orizzonte la vecchia soglia del 3 per cento e non avere problemi.
Negli ultimi anni quasi tutti i governi hanno strappato qualche decimale di flessibilità, ma mai di più. I programmi illustrati da M5S e Carroccio sono invece del tutto incompatibili con i paletti fissati dall'Ue. Sommare Flat tax, reddito di cittadinanza e abolizione della legge Fornero sulle pensioni equivale a far esplodere le casse dello Stato. Basti pensare che le previsioni più ottimistiche sostengono che la revisione della riforma previdenziale costerebbe solo il primo anno almeno 5 miliardi. Un importo che farebbe crescere la spesa dello 0,5 per cento.
Le idee esposte dalla possibile maggioranza giallo-verde sono dunque complessivamente e singolarmente inconciliabili con i trattati dell'UE.
Dopo il durissimo attacco di Piergiorgio Odifreddi a Repubblica dalle colonne del suo blog sulla medesima testata è arrivato il benservito del direttore Mario Calabresi. È così terminata una collaborazione che andava avanti da quasi 18 anni.

«AI GIORNALI DELLA VERITÀ NON IMPOR TA». A innescare l'invettiva del matematico l'ultima intervista di Eugenio Scalfari a papa Bergoglio, poi smentita dalla Santa Sede. Odifreddi aveva infatti accusato Repubblica non solo di non mettere «freno alle fake news di Scalfari», ma anche di «fingere addirittura di non accorgersene, quando tutto il resto del mondo ne parla e se ne scandalizza». «La mia impressione», continuava il post, «è che in fondo ai giornali della verità non importi nulla. La maggior parte delle notizie che si stampano, o che si leggono sui siti, sono ovviamente delle fake news: non solo quelle sulla religione e sulla politica, che sono ambiti nei quali impera il detto di Nietzsche “non ci sono fatti, solo interpretazioni”, ma anche quelle sulla scienza, dove ad attrarre l’attenzione sono quasi sempre e quasi solo le bufale».

«GIÀ IN PRECEDENZA PROBLEMI DI COABITAZIONE». Il giorno dopo, martedì 3 aprile, è stato pubblicato l'ultimo intervento di Odifreddi. «Dopo il post su Scalfari di ieri il direttore Calabresi, com'era non solo suo diritto, ma forse anche suo dovere, mi ha comunicato che la mia collaborazione a Repubblica termina qui», ha scritto il matematico salutando e ringraziando lettori e giornalisti. Senza però risparmiarsi un'ultima frecciata. «Il fatto che l'attuale versione del blog sia la 3.0 ricorda che già in precedenza c'erano stati problemi di coabitazione, dovuti al fatto che gli intellettuali e i giornalisti svolgono funzioni diverse nella società. In particolare, come ricordava Moravia, "la funzione sociale dell'intellettuale è di essere antisociale", il che mal si concilia con il motto finale del Trattato di Wittgenstein, che regola invece le attività sociali: "su ciò di cui non si può parlare, bisogna tacere"».

LA RISPOSTA DI CALABRESI. «A stretto giro la risposta di Calabresi che ha sottolineato come l'interruzione della collaborazione non sia dovuta alle «critiche a Scalfari, che sono lecite e fanno parte di un libero dibattito», ma a ben altro. «Il problema è che non si può collaborare con un giornale e contemporaneamente sostenere che della verità ai giornalisti non importa nulla. Che oggi serva di più pubblicare il falso del vero». E, ancora: «Questo è inaccettabile e intollerabile, non solo per me ma per tutti quelli che lavorano qui. Facciamo il nostro lavoro con passione e con professionalità e la gratuità delle tue parole di ieri ci ha fatto male. Tu sai di aver sempre goduto della massima libertà, ma l’unica libertà che non ci si può prendere è quella di insultare o deridere la comunità con cui si lavora».

CE NE FAREMO UNA RAGIONE.
Ci toccherà fare un abbonamento ad un altro quotidiano on line per leggere gli scritti di Odifreddi ma ci permettiamo di raccomandare a nonno Eugenio di applicarsi all’arte degli umarelli. Magari applicandosi nel settore che gli è proprio p.e. con una pagina web come quella bellissima di «Pazzo per Repubblica». Con tutto il rispetto verso i tre anziani (93 anni Eugenio Scalfari e 82 Papa Francesco e 91 Papa Benedetto XVI) cui stiamo dietro con una generazione e mezzo... in mezzo, tra Odifreddi e Scalfari preferiamo il primo che ci è quasi coetaneo (67 anni). Più che probabile che le parole, i ricordi, di Scalfari sui suoi incontri con Francesco non appartengano esattamente al genere delle fake news ma piuttosto all’ottundi- mento dell’ultranovantenne (miserelle le sue comparsate a ripetizione al martedì sulLa7). La verità alla fine è una gran costruzione barocca dove c’è del vero e molto  che appare vero. Odifreddi manipola normalmente numeri. Lui sa benissimo che due più due  non fa mai e sempre quattro. Così anche i giornali.