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Pare proprio che il Pd a guida del segretario effe effe (facente funzione) si orienti verso una compartecipazione al governo delle camere d anche, e se Mattarella chiama o  sollecita, anche all’ennesimo pastrocchio interpartitico.

Giovanna Casadio

«Cerco di tenere i fili con tutti…». Maurizio Martina ancora ieri ribadisce che la sua stella polare è un Pd unito e che, come sempre, ha sentito l'ex segretario Matteo Renzi, ma anche gli altri big dei Democratici. Però Martina - che è stato nominato reggente del partito da una settimana e fino all'Assemblea dei mille delegati di metà aprile - non arretra di un millimetro sulla linea politica annunciata l'altro giorno, e cioè che i dem non se ne staranno sull'Aventino e se ci sarà una proposta del Quirinale per un governo di tutti, anche con i 5Stelle, che affronti alcune priorità, allora non diranno “ ce ne freghiamo”, ma saranno della partita. Un'apertura al dialogo che riceve la “ benedizione” di Gentiloni e Franceschini, l'inedito asse destinato a cambiare gli equilibri nel partito. Ma che invece ai renziani non piace neanche un po'.
Parte quindi una rivolta via Twitter e Facebook per prendere le distanze sia da Martina che da Walter Veltroni, il quale ha sostenuto la stessa cosa in un'intervista al Corriere della sera. Andrea Marcucci, renziano doc e indicato come prossimo capogruppo al Senato, dà l'altolà: « Chi continua a sostenere a qualsiasi titolo, l'esigenza di un'apertura del Pd a un governo del M5Stelle, non ha a cuore futuro del Pd, ma la sua estinzione » . Matteo Orfini presidente del partito avverte: bisogna evitare i déjà vu. I renziani irritati ritengono non possa esserci alcun dialogo con i grillini, perché la strada dell'opposizione è quella da intraprendere ( e su questo tutti sono d'accordo), e non ci sono subordinate. La faglia nel Pd si allarga. A sostenere la necessità di essere responsabili scongiurando il pericolo di una saldatura di governo tra 5Stelle e Lega, sono appunto il premier uscente Paolo Gentiloni e Dario Franceschini, l'ex ministro dei Beni culturali. Entrambi sono consapevoli che nel partito dopo la pesante sconfitta deve cominciare una nuova fase, nella quale non può più essere Renzi a dare le carte. Tutto va ridiscusso e la partita del governo, la più delicata e importante, va affrontata in sintonia con il Quirinale. Così Cesare Damiano, ma anche l'eurodeputato David Sassoli esprimono il loro sostegno a Martina e al “no Aventino”. Per non parlare di Michele Emiliano, il governatore della Puglia e di Beppe Lumia, che giudicano necessaria una trattativa con i 5Stelle.
Partita di governo e transizione interna al Pd sono intrecciate. Gentiloni sarebbe dell'idea che il cambiamento nel partito debba essere più ampio e che quindi anche il presidente Orfini debba dimettersi. Martina ha ribadito che è tempo di «una leadership plurale ». Significa, tra l'altro, che i capigruppo non devono essere solo renziani doc. I nomi individuati da Renzi sono quelli di Lorenzo Guerini alla Camera e di Marcucci a Palazzo Madama. Pluralismo però vorrebbe che una delle due presidenze andasse ad altre correnti del partito. Si fanno diversi nomi per il Senato: Luigi Zanda, Roberta Pinotti, Franco Mirabelli. Non sono questioni di lana caprina. Chi guida, orienta il gruppo. Tra i 57 senatori dem si contano una trentina di renziani; tra i 112 deputati sarebbero una settantina. Ma tutto cambia velocemente e l'asse Gentiloni- Franceschini è convinta che la corrente renziana, come accadde per Bersani, è destinata presto a perdere pezzi.
Vero che la combinazione del Rosatellum e il successo elettorale di 5S e Lega hanno prodotto un netto incremento di neo-eletti in quei due partiti ma questa aritmetica politica non basta a spiegare le enormi differenze tra il ricambio di eletti di Lega e 5S rispetto a un PD ed a FI.
Il futuro Parlamento sarà più giovane: l'età media dei nuovi eletti è intorno ai 40 anni alla Camera (dai 45 della scorsa legislatura) e supera di poco i 50 (era 54) al Senato. Nelle nuove Aule titoli di studio più alti e molti rappresentanti del mondo delle professioni, avvocati (circa 80) in testa. Maggiore anche il ricambio, tra Camera e Senato: il 65,9% dei nuovi deputati — secondo i dati di Openpolis — e il 64,3 dei senatori non erano presenti nella scorsa legislatura. Il 35% dei nuovi deputati è al primo incaico politico, come il 30,2% dei senatori. La presenza femminile in Parlamento è più alta rispetto al passato, oltre il 34%, ma sotto la soglia del 40% che la legge elettorale indicava come quota di genere per le candidature. La sconfitta delle due forze basilari della seconda repubblica sta anche in questo modestissimo rinnovamento dei suoi candidati e riflette la scarsa attenzione ai problemi dei giovani che sono quelli messi peggio nel Paese.
Insomma ci troviamo di fronte a due Camere di qualità mediamente migliore (potenzialmente) rispetto al passato anche se bisogna ammettere che almeno due terzi dei parlamentari sono a Roma a infilare la scheda per votare e passarsi al meglio il proprio tempo.
Dei 950 parlamentari quelli che contano qualcosa probabilmente sono meno di 100 e resterebbero sempre quei 100 anche se ci fosse una Camera sola. Quelli che poi vanno in TV a dire qualche fregnaccia sono anche meno perché in Tv  arrivano anche le vecchie carteglorie della politica.

Detto questo delle nuove Camere bisogna  anche dire che l'idea martiniana per cui se Mattarella chiama  si corre da lui per salvare la patria, proprio non ci è affatto gradita dal momento che al PD ( e chi prima di lui e chi domani dopo di lui) tocca sempre assumersi le responsabilità di  governo per chi non sa governare salvo poi prendersi le pietrate elettorali a legislatura finita.
In primis da quella stampa che campa cinque anni nella caccia allo sfigato che governa - pensiamo al metodo «gentile» con cui hanno trattato il governo Letta-Renzi-Gentiloni un Giannini, una Berlinguer, un Floris, un'Annunziata oltre alla coppia Scanzi & Travaglio. Per tacere dei Tg3 regionali. Adesso è il tempo di ricostruire il partito in mezzo agli elettori e di svolgere un'azione durissima di opposizione in Parlamento.  E Mattarella tenga per se le proprie morals suasions. Adesso stiamo fermi un turno e ricostruiamo tutto. Poi vedremo che fare.
Il rapporto tra la crescita economica e l'aumento dell'occupazione è uno dei più importanti dal punto di vista politico ed è anche uno dei più studiati dagli economisti.  L'Unione europea ha appena pubblicato i dati sulla crescita del Prodotto interno lordo e dell’occupazione per l'ultimo trimestre del 2017 e per l'intero anno passato.
 Tutti i Paesi hanno avuto una crescita del Pil e tutti (con la sola eccezione della Lituania) hanno registrato anche un aumento dell'occupazione. Tuttavia i rapporti tra un indicatore e l'altro appaiono anche molto differenti. 
Seguiamoli.
In media, per i 28 membri dell'Unione, l'aumento del Pil è stato del 2,6% e la crescita dell'occupazione dell'1,5%. Un rapporto che rispetta la regola generale che vuole che l'aumento dell'occupazione segua quello del Pil, ma con valori percentuali più bassi.
Il Paese che ha visto la propria economia crescere di più è stata la Romania, con un aumento del Pil addirittura del 7%, seguita dalla Slovenia, con il 6,2%. Però la Romania ha avuto un tasso di crescita dell'occupazione solo dell'1,8%: una crescita economica tripla rispetto alla media Ue ha prodotto un aumento del numero di persone che lavorano di poco superiore alla media e molto inferiore, in proporzione alla crescita economica, a quello che si è registrato nell'intera Unione europea. La Slovenia ha invece avuto una crescita del 2,7% dell'occupazione.
Il tasso di crescita più modesto di tutta la Ue è stato quello della Danimarca, che ha fatto segnare solo l'1,2% di aumento del Pil. In compenso l'occupazione danese è cresciuta addirittura dell'1,7%. In Danimarca l'occupazione è cresciuta più del Pil. La stessa cosa è successa in Estonia, che ha visto aumentare il Pil del 5,3%, molto al di sopra della media, e l'occupazione ancora di più con il 5,7%, ma anche in Grecia (+1,9% il Pil e +2,7% l'occupazione) e in Portogallo (+2,4% il Pil e +3,2% l'occupazione). Alla Lituania, invece, non è bastata una crescita del 3,8% per far crescere il numero di occupati, che sono scesi dello 0,5%.  L'Italia, con un aumento dell'1,6% del Pil ha avuto una crescita dell'occupazione dello 0,9%.
Molti economisti si cimentano da anni nello studio del legame tra la crescita del prodotto di un Paese e l'andamento della sua occupazione.

Mettere in relazione la crescita dell’occupazione in un paese con la crescita del PiL è un’idea che andava bene nel secolo scorso quando la ricchezza di una nazione era creata con piccone e badile. Con martello e scalpello. Con cazzuola e  fratassa. Con la chiave inglese girata a mano sulla catena di montaggio. Non puoi confrontare la Lituania con la Germania o la Grecia con la Lombardia. La Freni Brembo di Curno con la Freni Brembo polacca.
In questo momento le produzioni emigrano verso forme molto automatizzate e quindi verso paesi ad alto investimento tecnologico. Sostanzialmente la lavatrice di adesso che puoi comandare coll’iphone dall’ufficio non ha molto di differente da tre o quattro carabattole che già usano la maggior parte dei giovani. Le hanno solo messe dentro lo steso scatolotto chiamato lavatrice. Solo le nazioni che possono incrementare la produttività del lavoro e quindi ridurne il costo unitario per prodotto possono  concedere maggior salario e quindi mettere a disposizione  maggiori risorse per la spesa. Il PiL non lo fa solo un soggetto  dentro il sistema ma è realizzato da molti soggetti che man mano aumentano il numero di pezzi creati da ogni addetto, con maggiore contenuto, mano a mano  si riduce la quantità di popolazione impiegata e cresce l’insieme.
Nonostante la fraudolenta introduzione dell’obso lescenza programmata nei prodotti - dai calzini al televisore alla lavatrice- le capacità produttiva delle nazioni più avanzate sopravanza largamente le reali necessità della popolazione la quale ha anche imparato un utilizzo intelligente e risparmioso dei prodotti.
Indubbiamente ci sono settori in cui avremmo bisogno di maggiori   produzioni che però non sono possibili: vedi p.e. i medicinali necessari per le «nuove»malattie che hanno ancora costi straordinari. Ma sono  settori che  seppure camminino, camminano realmente  ancora troppo lentamente. Basti pensare al problema della demenza senile o dell’alzheimer che imprimono nella società costi parecchio insopportabili.
Si pensi in Italia alla bassa creazione di laureati con profili immediatamente spendibili che si scontra da una parte col sistema che non riuscirebbe ad assorbirli (numericamente le aziende   a industria 1.0-2.0 sono l’90%) e dall’altrole famiglie e il paese non sono in grado di «produrli».

Così com’é obsoleto il misurare e cercare chissà quali significati nei rapporti tra PiL e incremento (possibile della) occupazione oggi occorre ricostruire tutto un modo di stare al mondo che ne la politica ne l’economia non hanno ancora preso come problema. Le proposte o le risposte che danno sono ancora quelle del «pic e pala». La domanda semplice è: visto che siamo in una situazione per cui già col potenziale attuale potremmo fornire a tutta la popolazione delle condizioni vitali ottimali, com’é che si  redistribuisce il reddito tra le parti che creano producono e quelle che consumano? Come si riequilibriano  in una democrazia avanzata gli stessi diritti (alla salute, al reddito, al bene stare, alla scolarizzazione, alla partecipazione democratica, ecc.) tenendo conto non sia possibile immaginare ancora per molti anni che regga una situazione in cui una ridotta minoranza sia padrona della pressochè totalità della ricchezza e quindi di «maggiori diritti» rispetto al 90% della popolazione?.

Paolo Magliocco e AAVV.