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A Macerata era andato tutto talmente bene che in poche ore il ministro dell’interno Minniti ha sostituito il questore, che era in città da appena tre mesi. Bastava leggere la cronaca per capire che a Macerata forse c’era qualche problema nella Polizia (e nei prossimi giorni la stampa chissà che pulci farà al povero defenestrato) visto che i carabinieri sono stati i protagonisti  nella vicenda relativa all’assassinio della ragazza, negli arresti dei potenziali colpevoli ed anche in quello del fascio-leghista che ha sparato scorazzando in città per tre ore colpendo sei persone di colore e qualche vetrina. Tra cui la sede del PD. Ancora ieri sera ascoltando Renzi dalla Gruber con quell’arnese di Sallusti -lode alla cesso-condicio!- non si è compresa bene la posizione di Renzi che oscilla tra la banalità del gesto di un mattacchione dimenticando che quel mattacchione è stato in lista per la Lega e non era-è semplicemente un buono a  nulla che si mette di mezzo sempre quando c’è da far casino. Pure la modesta intervista di ieri del sindaco di Macerata che rivendica un po’ di pace e tranquillità per i suoi concittadini per riflettere sull’accaduto dimostra che esiste tutta una classe dirigente «renziana» nel PD -a partire da Renzi- che leggono lo scontro in atto nel paese con la cultura degli estremismi contrapposti secondo la «quale «solo» chi sta in andreottianamente in mezzo ha sempre ragione. Non è così.
Anche perché a Macerata oltre a un sindaco ignorante e imbelle, un questore probabilmente solo burocrate e imbranato, c’è anche un procuratore che chiacchiera un po’ a vanvera salvo rettificare a posteriori. Perché -questa si profila come la vera tragedia aggiuntiva alla morte della ragazza- oggi come oggi con le modeste prove raccolte «contro gli assassini» questi corrono  il solo rischio di essere rimessi in libertà dopo un processo con prove molto fragili e incerte.
Macerata ha svelato un Paese debole in tutte le sue articolazioni statuali. Ha svelato una società debole ed arrabbiata che non è stata in grado in di scrollarsi di dosso un perbenismo ipocrita che l’ha trasformata complice il saccheggio delle risorse agli universitari residenti fittavoli -c’era da meravigliarsi visto che è una  città universitaria?- dove si spaccia e dove gli extracomunitari ne sono protagonisti principali per note e ovvie ragioni: non hanno (quasi) nulla da perdere o al massimo quello di farsi mantenere nelle patrie galere. Finchè dura. A Macerata come anche a Bergamo  troppi fanno finta di nulla. Gli studenti universitari generano un sacco di affitti in nero e sono la fortuna dei fast food locali epperò hanno tra di loro anche molti che fanno uso di droghe. Il perbenismo  piccolo borghese fascio leghista cattolico praticante in pelliccia vorrebbe godersi in santa pace l’evasione fiscale di tanto ben di dio e invece ci sono di mezzo questi tristi spacciatori che rovinano la situazione.
Li come in tanti altri paesi e città si è lasciata crescere la malapianta che si nutre di ogni sorta di illegalità salvo che ogni tanto ci scappa il morto.
In piccolo anche a Curno questo quadretto è bene  illustrato col volantino della sindaca gamba sull’accatonaggio molesto che infesta  tre quattro posti del belpaese. Varrebbe la pena che qualcuno anziché prepararsi il proprio coccodrillo bene infiocchettato ricordasse alla sindaca che agli albori della trasformazione commerciale di Curno ci fu una sparatoria in fondo a via Marconi. Chi come cosa perché lo spieghi alla sindaca.
Nelle prossime settimane gli elettori del PD (noi GIA’ elettori del PD) saranno chiamati a scegliere chi votare con davanti qualche strana prospettiva.
Dare un voto automatico e fideistico dalle liste renziane -con tanto di molletta sul naso- gettando cuore e intelligenza oltre il fosso e che Dio ce la mandi buona. Dare il voto alla lista della Bonino per mandare a casa Renzi salvo trovarci senza uno straccio di segretario in alternativa.
Votare LEU che è come gettare il voto: meglio stare a casa e andare al mare se il tempo farà bello. Magari con la primavera Grasso si sveglia. Votare cinque stelle manco a morire: un branco di rincoglioniti con non pochi ladroni per di più coglioni due volte: vedi faccenda di quelli messi in lista con un pedigree tutt’altro che fiammante e immacolato fino alla tragicomica vicenda dei rimborsi. Se volete rubare fate come Bossi&Family: 49 milioncini (di euro neh?!, mica lirette socialiste...) e ciao state bene!.
Tra una inutile discussione sulle proposte del listone A che costerebbero 80 miliardi o quello del listone B che costerebbero 140 miliardi condite con l’ennesima richiesta se ci sarà o meno l’inciucio con relativa smentita condita dalla simmetrica accusa che l’inciucio si farà di sicuro, la campagna elettorale si stà svolgendo sulle reti TV in mano a dei conduttori che definirli asini (o in malafede?) è titolarli gentilmente.
Il danno maggiore fatto al Paese non sarà tanto quello prodotto dal rosatellum ma quello  prodotto dall’ignoranza e dalla incapacità di fare il mestiere di giornalista da parte dei mille tenutari del talkshow.
Abbiamo già scritto come il talkshow sia il prodotto meno costoso  che può fare la tivù e contemporaneamente quello più gradito ai politici che così incamerano tutta la prebenda senza la necessità ne di stare in mezzo alla gggente ne di stampare programmi o costosissimi faccioni da affiggere. Non per nulla  la politica ha creato e imposto la parcondicio.
Ormai i talkshow hanno una scaletta sempre identica qualunque sia il canale: una dozzina di domande che vanno sempre bene per tutti. Poi si lamentano o si stupiscono che almeno un terzo degli italiani va a divertirsi anziché andare a votare. 
Le foibe con Gasparri

    Dal 2005, ogni 10 febbraio, sui mezzi d’informazione italiani viene raccontata una versione parziale e distorta di quel che accadde a Trieste, in Istria e in tutta quanta la “Venezia Giulia” nella prima metà del ventesimo secolo. La legge che nel 2004 ha istituito il “Giorno del ricordo” allude en passant alla “complessa vicenda del confine orientale”, ma non vi è alcuna complessità nella vulgata che tale ricorrenza ha fissato e cristallizzato. Una vulgata italocentrica, a dispetto della multiculturalità di quelle regioni.
    Andiamo a rileggere il dibattito che ci fu al tempo della promulgazione del Giorno del Ricordo e chi ne furono gli artefici politici e morali e se qualcuno sarà contento di ricordare qualcosa messo in piedi da un governo Berlusconi su diretta iniziativa di un Gasparri, allora che s’accomodi se oggi c’è Macerata.
    L’inquadratura, strettissima e al tempo stesso sgranata, si concentra sugli episodi di violenza chiamati – per metonimia – “foibe” e sull‘“esodo”, ovvero l’abbandono di Istria e Dalmazia, a cominciare dal 1945, da parte della maggioranza della popolazione italofona di quelle regioni.
    È un nodo che va districato con pazienza.
    Quando si parla di foibe, sul confine orientale la storia sembra cominciare a Trieste nell’aprile 1945. Retrocedendo, al massimo si arriva in Istria all’indomani della caduta del fascismo, il 25 luglio 1943. A essere amputato dalle ricostruzioni è soprattutto il continuo, violento spostamento a est del confine orientale d’Italia, con conseguente “italianizzazione” forzata delle popolazioni slavofone. Un processo cominciato con la prima guerra mondiale, portato avanti con fanatismo dal regime fascista e culminato nel 1941 con l’invasione italotedesca della Jugoslavia.
    Basta osservare una carta dell’espansionismo fascista e nazista nel periodo 1941-1943 ( due anni...) con tutto quello che l’invasione comportò per capire gli anni successivi.
    I crimini commessi dalle autorità italiane durante la guerra nei Balcani – stragi, deportazioni, internamenti in campi sparsi anche per la nostra penisola – sono un enorme non detto. La rimozione alimenta la falsa credenza negli “italiani brava gente” e al contempo delegittima e diffama la resistenza nei Balcani e lo stesso movimento partigiano italiano.
    Il non detto pesa e condiziona tutte le ricostruzioni. Molti si stupirebbero nell’apprendere che alla resistenza “jugoslava” presero parte numerosi italiani: civili italofoni di quelle zone, ma anche disertori e sbandati del regio esercito. Nei territori oggi indicati come Friuli-Venezia Giulia, Repubblica di Slovenia e Repubblica di Croazia, l’opposizione armata al nazifascismo fu multietnica, irriducibile a qualsiasi agiografia nazionale.
    Se si scostano i pesanti drappeggi scenici di una propaganda che separa le culture, descrive appartenenze nazionali certissime e indiscutibili, alimenta le “passioni tristi” del rancore e del revanscismo, il “confine orientale” si rivela – per citare il titolo di un importante libro dello storico Piero Purini – un mondo di “metamorfosi etniche”, identità multiple e continui spostamenti di popolazioni, dove i confini tra le identità sono instabili e indeterminati. Anche la frontiera postbellica tra Italia e Jugoslavia, oggi descritta come un solco invalicabile, in realtà rimase sempre porosa, permeabile, mutevole.
    Ricordiamo brevemente gli storici che hanno contribuito a ricostruire un pezzo di storia dell’invasione fascio nazista di quella terra: Federico Tenca Montini, Piero Purini, Carlo Spartaco Capogreco, Eric Gobetti, Anna Di Gianantonio, Jože Pirjevec e Sandi Volk. Le loro note biobibliografiche sono nei rispettivi articoli e interviste.


Giuseppe Galasso, morto ieri a 88 anni nella sua casa affacciata sul mare di Pozzuoli, è stato uno storico di grande valore, ma non è semplice tenere stretta la sua biografia intellettuale dentro il recinto di una disciplina, nonostante ne sia stato un maestro lungo l'intero secondo Novecento. Galasso ha interpretato il mestiere di storico in senso spiccatamente civile. Sia che si occupasse del Mezzogiorno, studiandolo dall'età medievale fino alle questioni di più urgente attualità, sia che trattasse di Potere e istituzioni in Italia (è il titolo di un saggio einaudiano del 1974) o di questioni europee, la sua prosa densa e tornita evocava l'inse gnamento di Benedetto Croce e la sua metodologia storiografica, assimilata attraverso la lezione di Federico Chabod. Ma, appunto, nella vita di Galasso ha un ruolo eminente l'impegno politico-culturale e anche politico in senso stretto.
A metà degli anni Cinquanta, giovane laureato, figlio di un piccolo artigiano con una bottega di vetreria nel centro storico di Napoli, borsista presso il crociano Istituto di studi storici, insieme a un gruppo di coetanei segue Francesco Compagna nell'avventura di Nord e Sud, la rivista che raccoglie le intelligenze liberaldemocratiche (Rosellina Balbi, Nello Ajello, Rosario Romeo e altri ancora) e che fronteggia i giovani marxisti diCronache meridionali. È lì che si forma il suo meridionalismo, che non è solo una prospettiva dalla quale guardare alla storia del Mezzogiorno, ma è anche azione concreta, orientata in favore di un'integrazione delle regioni meridionali nel contesto italiano ed europeo, e contro ogni tentazione sudista (in quegli anni Napoli è dominata da Achille Lauro). Galasso si muove sui due fronti, scientifico e politico. Con il trascorrere degli anni allarga le sue collaborazioni giornalistiche, dall'Espresso al Corriere della Sera.
È un polemista efficace. Ma forse il volume che raccoglie appieno la sua impostazione meridionalista è un dialogo con Gerardo Chiaromonte, intitolato L'Italia dimezzata (Laterza, 1980), un dialogo serrato, controversiale, che comunque dà la misura di quale densità intellettuale possedesse quel dibattito, e di come questa sia poi evaporata.
La bibliografia di Galasso è vastissima. La storia del Mezzogiorno ne è il fulcro, ma sempre osservata come parte di quella nazionale e non solo nazionale e come chiave di volta per la soluzione di questioni che riguardano tutti. La Napoli spagnola, gli scritti di Antonio Gramsci, e poi Gaetano Salvemini, le indagini sullo stereotipo del napoletano, sui riti, sui santi e sulle feste. E quindi Croce, di cui fornisce un esauriente ritratto in Croce e lo spirito del suo tempo (1990, poi aggiornato nel 2002), e al quale si dedica con ostanza curando l'edizione delle opere per Adelphi.
Ma la bibliografia non basta a dar conto della personalità di Galasso. Non sono molte le leggi note con il nome di chi le ha promosse. La legge Galasso, forse la più innovativa norma a protezione del paesaggio, è una di queste. Fu varata nel 1985. Galasso, deputato del partito repubblicano, era da due anni sottosegretario ai Beni culturali nel governo che nel 1984, ministro Franco Nicolazzi, aveva approvato il primo condono edilizio. Lui, con la collaborazione di Antonio Iannello e di Paolo Maddalena, andò in direzione completamente opposta: vincolò per legge intere categorie di beni, le coste, le sponde di fiumi e di laghi, e poi colline, montagne e ghiacciai. Il paesaggio era definito un bene culturale e ambientale insieme. E le Regioni erano obbligate a redigere piani paesistici, altrimenti sarebbe intervenuto il ministero. Un sostan ziale rovesciamento delle politiche fin lì adottate, attuato nella stagione d'oro della deregulation più spinta in materia urbanistica e che tuttora rappresenta un baluardo.
Anche in quell'intrapresa legislativa scorreva linfa crociana, del Croce ministro dell'Istruzione che nel 1920 aveva promosso una legge in difesa del paesaggio.