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Sciesopoli è tornata alla ribalta in questi giorni per l’oggettivo collegamento con la Giornata della Memoria in cui si ricordano le vittime dell’Olocausto, del nazismo e del fascismo. È stata scelta questa data perché il 27 gennaio del 1945 le truppe sovietiche dell’Armata Rossa arrivarono nei pressi della città polacca di Auschwitz (Oświęcim in polacco) scoprendo l’enorme campo di concentramento e sterminio utilizzato nel corso del genocidio nazista: quel giorno, verso mezzogiorno, le prime truppe sovietiche del generale Viktor Kurockin entrarono ad Auschwitz e trovarono circa 7.000 prigionieri che erano stati lasciati nel campo. Molti erano bambini e una cinquantina di loro aveva meno di otto anni. Erano sopravvissuti perché erano stati usati come cavie per la ricerca medica.

La Brigata ebraica, che faceva parte dell'esercito inglese, aveva setacciato l'Europa dell'Est devastata per raccoglierli e portarli in Italia. Bisognava curarli, farli mangiare, insegnargli una lingua comune, l'ebraico. Cavallarin: "La comunità ebraica di Milano, i pochi che erano rimasti, chiese un posto per raggrupparli. Ferruccio Parri, con il prefetto Lombardi, e il sindaco Greppi, decise che c'era la colonia fascista di Sciesopoli, intitolata al patriota Amatore Sciesa", la colonia più bella d'Europa, secondo la propaganda fascista. Piscina riscaldata, 17mila metri quadri di parco, sala cinema, dormitori con i lettini bianchi, tutti in fila. Era rimasta vuota, mandiamoli lì. Così il gioiello del regime era diventato il rifugio delle sue vittime, uno scherzo del destino.

Venne affidato alla Brigata ebraica, che riciclò la struttura e ci mise i suoi, di bambini. Il direttore era Moshe Zehiri, soldato volontario nel Genio militare britannico che aveva attraversato l’Italia dalla Puglia fino al Nord per combattere i tedeschi, aveva restituito a nuova vita per prepararli alla aliyah, alla «risalita» in terra di Israele, dove si forgiava l’ebreo «nuovo», combattente, vigoroso, sicuro di sé. La scuola degli «orfani della Shoah» di Moshe è stata anche una scuola per educare quei bambini, schiacciati dal peso insopportabile della storia, al senso di una nuova vita, completamente differente da quella, costellata di macerie e di lutti, lasciata nella catastrofe europea. Grazie a quei bambini e al «materiale umano» sopravvissuto alla Shoah, Israele potè rinvigorire la sua presenza nelle terre della storia ebraica.

 

Il nome sciesopoli dato a questa vasta colonia  costruita dal fascismo nei suoi anni ruggenti è ovviamente collegata col fatto che  Selvino era al tempo una delle stazioni sciistiche della bergamasca. Questo però non spiega tutto. Selvino era stato individuato da Badoglio come uno dei posti dove, in caso di invasione del nord Italia da parte dell’Austria, si sarebbe creato una enclave di resistenza dove si sarebbero ritirate le truppe presenti in città e dintorni. Apparteneva a tutto il sistema di difesa alpino edificato –dopo la prima guerra mondiale- sulle Alpi bergamasche come si trova per esempio ai Passi S. Marco, Tartano, Dordona oppure a est il Vivione (in parte già attrezzato prima della 1.a guerra mondiale).

Selvino  era un piccolo paese di montagna che poggiava sul versante della ValSeriana mentre sul versante della ValSerina/ValBrembana aveva una vastissima dotazione i parti, circa 30 ettari dove erano allevati –d’estate- i cavalli dell’esercito destinati all’artiglieria pesante da campagna. D’inverno tornavano alla bassa nelle caserme.

In quei vastissimi prati esistevano tre caselle destinate ad ospitare chi coltivava e curava i cavalli ed una chiesetta la “Madonna della Neve” che adesso è  circondata da villette ed ha subito una mostruosa ristrutturazione da renderla irriconoscibile.

Quando il fascismo viene sconfitto in paese restano liberi sia sciesopoli che questi prati mentre la popolazione è  interessata a trovare occasioni di sopravvivenza piuttosto che immaginarsi un futuro per gli stessi.

 

Durante il fascismo per fare fronte alle sanzioni economiche subite dal regime nel contesto internazionale, questo aveva deciso di incrementare le produzioni agricole nazionali e in quel programma figurava anche il potenziamento dell’allevamento bovino e ovino. Ragion per cui vennero ristrutturate (tra le altre) decine di  malghe alpine (sono i territori destinati a prato pascolo dotate di  caselle situate sulle montagne) tra le quali la mezza dozzina ai Laghi Gemelli.

Messe all’asta (per una assegnazione in affitto) una di queste venne vinta da nostro nonno Giuseppe per conto dei soci della Cooperativa dei prodi contadini” di cui era presidente. Negli anni della guerra il territorio era passato sotto il controllo della formazione partigiana di Giustizia e Libertà “Cacciatori delle Alpi. 2° Dio sciatori”, comandata da Mino Bartoli che potevano operare tra la ValSeriana su Gromo e la ValBrembana su Branzi. La difesa degli impianti idroelettrici dell’alta valle da possibili distruzioni da parte dei tedeschi in ritirata era uno degli interessi degli industriali bergamaschi e milanesi  e Bartoli, ingegnere, ne era la mano militare. Le brigate di Giustizia e Libertà (GL) erano legate al Partito d'Azione e guidate dal suo massimo esponente, coordinatore del comando militare del CLNAI e poi vicecomandante generale del CVL, Ferruccio Parri. Visto il pericolo che andava maturando stagione dopo stagione, nonno Giuseppe decise nel giugno 1943 di non portare più al pascolo gli animali lasciando libere tutte le costruzioni affittate che divennero sede della brigate gielline.

 

Nel corso dei vasti rastrellamenti operati dalle truppe nazifasciste nell’inverno 1944-45 le costruzioni furono tutte bruciate per impedirne l’uso e perfino il Rifugio Laghi Gemelli subì quel destino a metà gennaio 1945.

 

Arrivata la Liberazione nonno Giuseppe interpellò i comandanti del governo provvisorio reclamando il diritto ad usare le paghe dei Gemelli, da cui s’era ritirato per i fatti  della guerra. Esseno le paghe però inutilizzabili perché le costruzione erano distrutte e non esisteva più nemmeno la casera, vennero dati in cambio i prati di Selvino e così quelli che erano state  le piste di sciesopoli dopo s’erano divertiti i gerarchetti provinciali e milanesi col relativo contorno di famiglie amanti e  puttane, anziché ospitare d’estate i cavalli del regio esercito, nel frattempo finiti spolpati e venduti alla borsa nera, cominciarono a ospitare le brune alpine. Quei parti resteranno in affitto alla nostra famiglia fino all’estate del 1947, l’ultima della nostra permanenza in zona. Mio padre raccontando di quegli anni, ricordava appunto la presenza dei ragazzi ebrei cui forniva il latte, presenza fortemente contestata da buona parte dei selvinesi su istigazione dei preti locali prima di tutto perché… gli ebrei avevano ammazzato Gesù Cristo e poi perché gran parte del clero locale non aveva indossato “solo” la tonaca nera d’ordinanza ma anche la “camicia nera”.

Nella scuola di Moshe si insegnò agli orfani della Shoah la ricostruzione di un’identità infranta, la salvaguardia di una cultura che non era svanita nelle camere a gas, lo studio dei testi e la lingua di un popolo che aveva attraversato i millenni, la necessità del lavoro duro, la forza della coesione socialista attraverso i kibbutz, ma anche l’etica dell’autodifesa, il vincolo di un «mai più» che spiega tante caratteristiche degli ebrei che nel loro Stato hanno riconosciuto il baluardo per non vedere altri «orfani della Shoah», raccolti e salvati da Moshe Zeiri, una vita spesa per gli ideali del sionismo. Grazie a quei bambini e al «materiale umano» sopravvissuto alla Shoah, Israele potè rinvigorire la sua presenza nelle terre della storia ebraica. E quando scoppiò il conflitto con gli Stati arabi che avevano spinto i palestinesi a rifiutare il doppio insediamento statale in quelle terre, quei ragazzi, quei sopravvissuti diedero un contributo anche militare decisivo. E poiché in quella guerra ci furono atrocità, villaggi rasi al suolo, morti tra i civili, tentazioni di pulizia etnica, anche chi era venuto dall’Europa fu protagonista di eroismi, ma anche di molti orrori, che Luzzatto elenca con freddezza non indulgente.

Nei primi anni ’50 restò a Selvino come “ultima traccia” del passaggio di quello strano personaggio che era Moshe Zehiri, rimase un ragazzone nero americano che insegnò alle sciurette fasciste prestamente riciclate democristiane a… giocare al tennis.


A caval donato non si guarda in bocca: questo intervento di ristrutturazione dell’ingresso del Museo civico di Scienze naturali Caffi è stato regalato al Comune di Bergamo dall'Associazione Amici del Museo, grazie a una donazione delle famiglie Natta e Pesenti. Quindi...
Il risultato però, interni a parte, lascia del tutto perplessi dal momento che, quand’anche la piazza venisse svuotata dalle auto, chi arriva in piazza... non sa che pesci pigliare dal momento 3-4-5 attività presenti non si vede dove sbattere.
Vero che la piazza e la sistemazione degli edifici è sostanzialmente una invenzione o ricostruzione operata dall’arch. Angelini (basta vedere la foto di quando c’era il liceo e di com’è adesso per comprendere la pesante manomissione ricostruzione invenzione  che vi hanno operato (negli anni ‘50) tanto che quella sistemazione -almeno per la facciata est, quella del Caffi- era senza dubbio migliore del risultato attuale (che ripetiamo!, non è frutto della sistemazione del nuovo ingresso).
Il Caffi è sostanzialmente un museo che serve alle scuole dal momento che i 70mila visitatori vantati dal sindaco Gori sono al studenti delle scuole dell’obbligoe banali curiosi del mammouth.
La nuova sistemazione aggiunge un centinaio dimetri quadrati a piano terra. Fighissima la parte centrale del bancone e del tutto assurda sia l’ingresso con una porta girevole (apribile all’interno: pensiamo ci sia qualche problema in tema di sicurezza) mentre l’ascensore per gli handicappati sta dalla parte opposta della piazza... ... ... ... . Grande idea anche i tre gradini d’ingresso ... ovviamente non della medesima altezza. Assai intrigante anche ... l’uccello impagliato nella gabbia di vetro sull’ingresso. Deve essere un’idea della sciura Rosina con le amiche mentre prendeva il rosolio. Poi -superato l’ostacolo degli educati guardioni- si passa al solito orribile scalone per il primo piano e ciao stai bene. All’esterno c’é una spalliera colorata illeggibile per chi entri da Colle Aperto così come non si comprende cosa «ci sia» nella piazza. Bisognerebbe spostare anche la caserma dei carabinieri ma non saprebbero dove collocarli in città alta: semmai sia proprio necessario che siano li.
Uno entra in Piazza Cittadella e dovrebbe «inquadrare» un ben visibile totem che faccia capire o indichi «cosa c’è in piazza» e invece la segnaletica dei musei e della caserma la deve cercare munito di binocolo. E che non si permetta di stare pure in carrozzella altrimenti deve fare il periplo della piazza.
Insomma non c’è mai nulla di finito come dio comanda. E si che di soldi non ne girano pochi.