FORZA
ITALIA
Per ridurre strutturalmente un enorme
debito pubblico come quello italiano (2.275 miliardi di euro) occorre agire
sulla dinamica di tre grandezze che determinano la sua crescita nel tempo: crescita del Pil, spesa per interessi e
avanzo primario.
Le soluzioni basate sull’utilizzo di
imposte patrimoniali, come quelle sostenute dalla sinistra, sono illusorie e
pericolose, perché impoveriscono il Paese, rendendolo facile preda dei fondi
“avvoltoio”.
Forza Italia propone un piano per
diminuire strutturalmente il rapporto debito/Pil e riportarlo verso il 100% in
5 anni.
La riduzione del rapporto debito/Pil
contribuirebbe a contenere i rendimenti e ad abbattere il costo del servizio
del debito. Il che, a sua volta, renderebbe credibile un percorso di riduzione
della pressione fiscale per circa l’1% all’anno (con l’obiettivo di condurla al
di sotto del 40% entro la legislatura). Ne conseguirebbe il rilancio degli
investimenti e l’aumento del reddito disponibile delle famiglie, della domanda
interna e della crescita, nel rispetto del pareggio di bilancio strutturale e
dei vincoli del Fiscal Compact. Ne risulterebbe rafforzata la credibilità
dell’Italia sui mercati internazionali.
Attualmente abbiamo un avanzo primario
non lontano dal 2,5% del Pil. Se la spesa per interessi rimanesse invariata o
si riducesse – il che è possibile nonostante la prossima fine della attuale
stagione di politica monetaria grazie alla credibilità complessiva di una
politica di riduzione delle entrate e delle uscite – l’avanzo primario che
governa la evoluzione del rapporto fra debito e Pil crescerebbe in base alle
nostre ipotesi fino al livello di sicurezza del 4% e innescherebbe – complice
una crescita moderata del livello dei prezzi coerente con le attese della Bce
(2%) – una decisa riduzione del rapporto debito/Pil.
Il che, a sua volta, non farebbe che
confermare la credibilità di una intera strategia di politica economica,
rafforzandola e rendendola capace di autosostenersi. Ne deriverebbe una
traiettoria di crescita sana, poggiata su un miglioramento dei fondamentali
economici e su una crescita del prodotto potenziale (oltre l’attuale 1%, verso
i livelli medi europei non lontani dal 2%). Una crescita non drogata da mance
fini a se stesse ma sostenibile ed in grado di interrompere il processo di
graduale impoverimento del Paese.
Una crescita stimolata altresì dalla
grande rivoluzione della Flat tax, un’aliquota unica per tutti, totalmente
finanziata dal taglio delle “tax expenditures”, vale a dire le deduzioni e
detrazioni fiscali attualmente in vigore, dal taglio della cattiva spesa
pubblica, dall’emersione del sommerso e dal “reset” delle liti fiscali
pendenti.
Con stretto riferimento alle tecnicalità
del piano di attacco al debito, Forza Italia intende, in particolare:
- Individuazione dei beni patrimoniali e
dei diritti dello Stato, disponibili e non strategici;
- Loro vendita ad una società veicolo
(Spv) partecipata principalmente da istituzioni finanziarie con capitale
rilevante;
- Individuazione di lotti di beni e diritti,
di circa 25 miliardi l’uno;
- Per ciascuno, emissione di
obbligazioni con maturity 5/10 anni garantite dai beni e diritti che lo
compongono. Essendo emesse da una Spv privata, non rientrano nel debito
pubblico;
- Negoziare le obbligazioni con opzione
(warrant), tale da garantire un tasso di interesse inferiore a quello dei
titoli di Stato di eguale durata;
- Incasso e impiego dei proventi a
riduzione del debito, con conseguente risparmio della componente interessi.
Alla scadenza, il possessore di warrant ha diritto all’acquisto dei beni e
diritti del lotto;
- Utilizzo dei proventi per rimborsare
le obbligazioni;
- Re-immissione dei beni e diritti
invenduti. I titolari delle opzioni sono privilegiati nella sottoscrizione;
- Concambio facoltativo con le nuove
obbligazioni con warrant per i detentori istituzionali e privati di titoli di
debito pubblico, a condizioni più favorevoli rispetto al mercato.
Renato
Brunetta presidente dei deputati di Forza Italia
PARTITO DEMOCRATICO
I governi a guida Pd in questi tre anni
hanno raggiunto due obiettivi per quanto riguarda i principali aggregati di
finanza pubblica: hanno ridotto il deficit (dal 3% del Pil del 2014 al 2.1% del
terzo trimestre 2017, una cifra che probabilmente sarà anche il dato annuale),
e hanno stabilizzato il debito al 132% del Pil, valore che è rimasto pressoché
costante negli ultimi tre anni.
Questo valore tuttavia rimane troppo
alto ed è giunto il momento di impostare una strategia coerente e credibile per
ridurlo. Non solo per destinare a scopi più produttivi i circa 65 miliardi che
attualmente destiniamo al pagamento degli interessi, ma anche per ridurre la
vulnerabilità macroeconomica a cui è esposto un paese a così alto debito,
soprattutto alla vigilia di una non probabile ma certa risalita dei tassi di
mercato.
Una strategia è credibile se ha ben
chiari obiettivi e strumenti.
L’obiettivo del Partito Democratico è
ridurre gradualmente ma stabilmente il rapporto debito/Pil al valore del 100%
entro i prossimi 10 anni. La letteratura economica ci conferma che quello che
conta – per quanto riguarda gli effetti negativi sul premio al rischio e quindi
sulla spesa per interessi – non è tanto il livello del rapporto debito/Pil,
quanto la sua traiettoria discendente. In altre parole, i mercati sono
rassicurati non certo da annunci shock poco credibili, ma da un sentiero
costante (anche se graduale) di riduzione.
Lo strumento attraverso cui raggiungere
questo obiettivo è duplice.
Il primo è quello di gran lunga più
rilevante. La dinamica del rapporto debito/Pil – per fortuna – è ancora legata
all’aritmetica. Significa che, fissando ipotesi chiare e possibilmente
realistiche su alcune variabili macroeconomiche, è molto semplice capire la
traiettoria del debito. L’avanzo primario per il 2018 è fissato al 2% del Pil,
e molto probabilmente la crescita economica 2017 sarà del 1.5%. Se per i
prossimi dieci anni mantenessimo esattamente queste stesse condizioni
macroeconomiche (senza ulteriore “austerità” ma neanche senza ulteriori voli
pindarici per quanto riguarda la crescita), nel 2030 il rapporto debito/Pil
sarà attorno al 100%. A due condizioni: che l’inflazione torni al livello
target-Bce (2%) e che il costo medio del nostro debito rimanga più o meno ai
livelli attuali (3%). La prima condizione è al di fuori del nostro controllo,
ma gli ultimi dati europei sembrano essere confortanti in questo senso. La
seconda condizione è paradossalmente messa a rischio dal verificarsi della
prima: se l’inflazione torna al 2%, addio Quantitative Easing, e quindi fine
dell’ombrello sul nostro debito. Ma è qui che entra in gioco la politica
economica. Il premio al rischio sul nostro debito tenderà ad aumentare solo se
chi governerà il paese risulterà incerto e poco credibile su due cose: la
continuazione delle riforme strutturali e l’avvio di un sentiero discendente
del debito. Per questo la proposta del PD è molto chiara: continuare a ridare
credibilità al Paese proseguendo il sentiero di profonda riforma e innovazione
della sua economia (essendo più incisivi su concorrenza, giustizia civile,
pubblica amministrazione) e mantenendo l’avanzo primario al livello 2018.
Questo libererebbe circa 10 miliardi di spesa nel 2019 – anno in cui l’avanzo
programmatico è fissato al 2,6% –, da usare o per incrementare gli investimenti
pubblici o come “scorta” nel caso l’inflazione non sia ancora tornata al suo
livello normale. Naturalmente se la crescita economica – come possibile –
dovesse essere superiore a 1,5%, parallelamente l’avanzo primario dovrebbe
crescere sopra il 2%, così che finalmente in questo paese sia possibile
conoscere una sana politica fiscale contro-ciclica: si risparmia quando
l’economia va particolarmente bene, e si spende (anche tanto) quando l’economia
va male. Va da sé che questo scenario sconta che le regole fiscali europee –
che proprio nel corso del 2018 vanno incontro ad un “tagliando” – spostino il
focus dalla riduzione di un aggregato incerto e poco misurabile (il deficit
strutturale) a quella di qualcosa di molto concreto e – noi crediamo – più
importante: per l’appunto, il debito pubblico.
Il secondo strumento – da utilizzare per
rafforzare il percorso di cui sopra o come “assicurazione” qualora le
condizioni macroeconomiche su cui si basa non dovessero verificarsi – è un
programma di dismissioni patrimoniali (mobiliari e immobiliari) capace di
assicurare lungo i 10 anni una cifra compresa tra il 2% e il 4% del Pil
(immaginare cifre superiori è irrealistico e controproducente).
Proseguimento delle riforme strutturali,
mantenimento dei conti pubblici in ordine, dismissioni patrimoniali, lotta in
Europa per spostare il focus dal deficit strutturale al debito e spazio per
politiche fiscali controcicliche (soprattutto sugli investimenti pubblici) in
modo da poter fare politiche espansive quando serve. Ecco le parole d’ordine
per arrivare in 10 anni a ridurre gradualmente ma sostanzialmente il nostro
debito pubblico.
Luigi
Marattin, Partito Democratico
Quanti sono i luoghi comuni sul debito?
“Il fardello del debito pubblico, la palla al piede, il peso per le future
generazioni, il fattore di rischio per il fantasma dello spread”. Tutte cose
senza senso a cui si accompagnano le immaginifiche ricette per “aggredire il
debito con le privatizzazioni, contenere il debito con i tagli della spesa, i
sacrifici oggi per lasciare meno debito alle prossime generazioni”. Ebbene, si
tratta di nozioni prive di fondamento logico ed economico, pertanto rifiutiamo
in toto questa narrazione: la Lega proporrà un approccio del tutto pragmatico
al debito basato su dati di fatto, non su leggende.
Va detto a chiare lettere che il debito
pubblico non è una scoria, una pila di letame che prima o poi bisognerà
spalare: il
debito pubblico altro non è che il risparmio privato.
Ogni generazione lascia alla successiva debiti e crediti ma la particolarità
del debito pubblico è che è un debito che non dovrà mai essere ripagato perché
da quando esiste viene semplicemente rinnovato. I nostri padri sono felicemente
convissuti con il debito pubblico dei nostri nonni e noi siamo felicemente
convissuti con il debito pubblico dei nostri padri ricevendone in eredità case,
aziende e risparmi che, secondo l’ultima rilevazione di Bankitalia, ammontano
ad un valore di oltre 8mila miliardi. Tutto tranquillo finché non abbiamo avuto
l’idea nefasta di privarci del controllo della moneta, necessaria per garantire
il debito che, infatti, in assenza di garanzia esplicita della Banca Centrale,
in caso di crisi di fiducia diventa impossibile da rinnovare qualsiasi sia il
suo livello. In presenza di garanzia di Banca Centrale è irrilevante la
dimensione del debito per la determinazione del tasso di interesse, come prova
il fatto che nel pieno della crisi dello spread il debito di tutti i paesi
dell’eurozona era largamente inferiore al livello attuale.
Il debito non si riduce privatizzando
beni redditizi perché, se superiore agli interessi passivi, il mancato reddito
dei beni venduti alla fine genera un buco. Il debito non si riduce vendendo
beni inutili perché, per definizione, non valgono nulla. In recessione o in stagnazione
il debito non si riduce aumentando le tasse perché l’ulteriore recessione che
ne consegue riduce il pil e fa aumentare il rapporto debito pil e, per la
stessa considerazione, il debito non si riduce tagliando le spese. La “montinomics” di taglio delle spese e di
aumento delle tasse ha provocato 13 trimestri di recessione con conseguente
impennata del rapporto debito pil e aumento vertiginoso della disoccupazione.
Il debito si riduce solo in 4 modi: 1)
Default. E non mi pare il caso, pena scoprire immediatamente le conseguenze
dell’identità debito pubblico = risparmio privato precedentemente ricordata. 2)
Inflazione. Mi piacerebbe. A parole tutti vogliono uscire dalla deflazione,
peccato che per ottenere inflazione sia necessario aumentare i salari, cosa che
stando nell’Euro ci è preclusa pena la perdita di competitività. 3)
Monetizzazione. Sarebbe semplicissimo e implicitamente lo stanno facendo tutti
i principali paesi occidentali. Il Giappone ad esempio ha già fatto ricomprare
alla sua banca centrale quasi la metà del proprio debito pubblico e tale debito
è da considerarsi cancellato se si considera che il Tesoro e la Banca Centrale
(detentori rispettivamente del debito e del credito) sono entrambi parte dello
Stato. Come Lega abbiamo già proposto la monetizzazione del debito ricomprato
con il Quantitative Easing e dal governo la riproporremo con più forza, peccato
che se la Germania dirà no (e lo dirà) la strada non sarà praticabile.
Rimane quindi solo l’opzione 4), cioè la
crescita. Pur consapevoli che per l’Italia una crescita stabile finché si
troverà all’interno dell’eurozona non è sostenibile, pena il ritorno in deficit
commerciale a causa della moneta unica, la Lega farà ogni cosa in suo potere
per mettere in atto politiche di crescita e piena occupazione, immettendo
denaro nel sistema economico con detassazioni e investimenti produttivi. Più
crescita, meno debito.
Claudio
Borghi Aquilini, responsabile economico Lega
Il debito pubblico italiano nel 2007 era
al 99,8% del Pil, oltre 20 punti meno del picco del 1994. Poi, è tornato a
salire fino al 133% del 2017. I fattori della risalita sono stati due: la
contrazione del denominatore (Pil nominale); l’aumento dei tassi di interesse
prima del “whatever it takes” e del Quantitative easing. Il saldo primario non
ha sostanzialmente colpe. Anzi, è stato sempre in attivo. Il Pil nominale,
invece, ha subito i colpi della grande recessione, aggravata nell’eurozona e,
in particolare, in Italia dalle autolesionistiche politiche di svalutazione interna,
intreccio perverso di austerità, segnatamente durante il governo Monti, e
riduzione della massa salariale martellata dalla precarizzazione del lavoro.
L’analisi ricordata deve essere utile
per invertire la rotta di policy e portare su un sentiero di sostenibilità il
debito pubblico. Quindi, vanno innanzitutto eliminate illusorie scorciatoie:
l’innalzamento del saldo primario, destinato secondo il Def a impennarsi fino a
un irrealistico 3,3% del Pil nel 2020; ulteriori tranche di privatizzazioni (Eni, Enel, Cdp-reti,
ecc).
Sono, invece, due le strade parallele da
percorrere. Entrambe richiedono una qualche forma di cooperazione con le
istituzioni europee, a partire dalla Bce, e con i principali partner
dell’eurozona: un Paese che non ha più il controllo della politica monetaria,
quindi anche della politica del cambio, della regolazione dei mercati di
capitali e di merci e servizi, della politica di bilancio, non può affrontare
da solo la sfida del debito pubblico. Lo sa bene anche Schauble che nell’addio
all’Eurogruppo ha presentato un “non-paper” che prevede, in un contesto di
totale assenza di solidarietà tra Stati della moneta unica, l’inevitabile
ristrutturazione dei debiti sovrani insostenibili.
La prima strada, con epicentro
domestico, è la crescita e la conversione ecologica dell’economia, da
accompagnare a un’inflazione vicina al, ma sopra il, target del 2% previsto
dalla Bce. In altri termini, le politiche nazionali e europee devono puntare
sul denominatore del rapporto. Come? Attraverso gli investimenti pubblici in piccole
opere, per riqualificare il territorio e rigenerare le periferie, e nelle
politiche industriali selettive. Va qui evidenziato che l’utilizzo alternativo,
in investimenti pubblici, delle risorse spese dai governi Renzi e Gentiloni per
decontribuzioni e bonus (oltre 30 miliardi) avrebbe alimentato la domanda
interna in misura largamente superiore: Nens quantifica la maggiore variazione
del Pil in circa un punto percentuale all’anno. Infatti, una letteratura
empirica sostanzialmente concorde stima il moltiplicatore della spesa pubblica
in conto capitale, in contesti di deflazione e sotto-utilizzo delle capacità
produttive, superiore a tre volte il moltiplicatore della imposte. Il contrario
di quanto continuano ideologicamente a sostenere Alesina e Giavazzi (ancora una
volta, l’11 Gennaio sul Corriere della Sera). Per attuare la linea di
keynesismo ecologista ed evitare ripercussioni eccessive sulla bilancia
commerciale, l’altra variabile decisiva, rileva il comportamento di chi ha
praticato e imposto politiche mercantiliste estreme: la Germania, con surplus estero al 9% del
Pil, frena la discesa dei debiti pubblici e genera deficit di domanda interna e
disoccupazione nel resto dell’Eurozona.
La seconda strada, di pari o superiore
rilevanza, con epicentro a Bruxelles, anzi a Berlino e Francoforte, passa per
un minimo di condivisione dei rischi sui tassi di interesse. Le difficoltà
politiche sono evidenti. Tuttavia, è la soluzione da contrapporre alle proposte
“tedesche” della Commissione Juncker, irricevibili in quanto aggravanti le
divergenze territoriali e sociali. Per ridurre gli ostacoli politici, si
incentra su meccanismi di mercato. E’ stata formulata dal prof. Marcello
Minenna in diversi scritti (ad es, su ZeroHedge del 21/12/17). In estrema
sintesi, prevede: da un lato, l’attribuzione al Fondo Salva-Stati (European
Stability Mechanism) di funzioni di assicurazione dei debiti sovrani dietro il
pagamento, da parte di ciascuno Stato dell’eurozona, di un premio di mercato
(pari alla differenza tra lo spread medio della zona euro e lo spread dello
specifico Stato), così da arrivare, in un decennio, alla convergenza dei tassi
di interesse, condizione normale, anzi necessaria alla sopravvivenza di un’area
a moneta unica; dall’altro, il re-investimento da parte dell’Esm dei premi
pagati da ciascun Paese nel Paese stesso su programmi di infrastrutture
verificati con l’ausilio dell’European Fiscal Board e co-finanziati da risorse
nazionali escluse dal computo del deficit rilevante ai fini comunitari. In tale
contesto, si può archiviare il Fiscal Compact e ripristinare l’art 81 della
nostra Costituzione nella sua versione originaria.
E’ una strategia complessa e difficile
sul piano economico e sopratutto politico. Ma è l’unica realistica per
rivitalizzare la “Repubblica democratica, fondata sul lavoro”.
Stefano
Fassina, deputato di Sinistra Italiana ed esponente di Liberi e Uguali
CINQUE STELLE
L'Italia soffre cronicamente di bassa
crescita e, almeno dai primi anni Ottanta del secolo scorso, di alto debito. Inoltre,
il nostro Paese è stato ulteriormente colpito, in questi anni, da meccanismi
deflattivi che derivano dalla crisi di domanda e in buona parte dagli squilibri
insiti all’Unione monetaria.
I nostri mali incidono nella carne viva
della nazione, con due emergenze che vanno risolte in via prioritaria: la bassa
natalità e l’alto livello di disoccupazione, soprattutto giovanile.
Sul fronte delle famiglie, è
fondamentale dare subito ai nuclei con uno o più figli un concreto sostegno
economico che sia strutturale e che si emancipi dalla logica dei bonus
estemporanei. La Francia spende oggi il 2,5% del Pil in welfare familiare,
l’Italia solo l’1,5%, sotto la media europea. E’ intenzione del M5S raggiungere
quantomeno il livello francese, rafforzando anche le garanzie per le madri
lavoratrici di non perdere il posto di lavoro e incentivando le aziende a fare
politiche di sostegno familiare.
Questo è un primo passo necessario, ma
non sufficiente. Le giovani coppie stentano a fare figli perché spesso vivono
una condizione di marginalità occupazionale: il lavoro non c’è o comunque è
intermittente o precario. E per colpa del Jobs act è instabile anche quando
viene considerato formalmente stabile: tanto che con le “tutele crescenti” è
molto difficile farsi dare un mutuo in banca senza la garanzia dei genitori.
D’altra parte è evidente a tutti che il governo Renzi ha fallito nella sua
prima mission: rendere le stesse “tutele crescenti” il contratto preferito
dagli imprenditori. Finiti gli incentivi contributivi, la dinamica delle
assunzioni stabili si sta ormai esaurendo. Ed è lampante che, all’inizio del
2014, l’errore tecnico esiziale fu quello, commesso dal ministro Poletti, di
operare la deregulation sui contratti a termine. Denunciammo già all’epoca che
quel decreto avrebbe azzoppato la successiva riforma del Jobs act. Il neonato
governo Renzi non ci diede ascolto: oggi i dati testimoniano in modo chiaro chi
aveva ragione.
E’ venuto il momento, invece, di
rovesciare la prospettiva e di creare occupazione di qualità rilanciando gli
investimenti pubblici produttivi nei settori più promettenti e a più alto
moltiplicatore. La spesa “buona” in conto capitale è la vera vittima della
crisi (dall’inizio della recessione mondiale abbiamo perso circa il 25%). E
nella fase di transizione, che può durare alcuni anni, le persone non possono
essere lasciate sole: per questo sarà fondamentale il nostro Reddito di
cittadinanza, grazie al quale chiunque potrà vivere dignitosamente, e senza
parassitismi, mentre si forma e cerca lavoro.
Infine, c’è il problema rilevante del
debito pubblico che è in continua crescita, un debito che lasciamo proprio alle
future generazioni. E’ un tema gigantesco che non si può più trascurare proprio
per il bene dei nostri figli. Il M5S sta lavorando ad un piano ambizioso che
punta a ridurre il rapporto debito/Pil di 40 punti percentuali nel corso di due
legislature.
Il piano parte dal presupposto che
l’austerità ha fallito, perché i tagli lineari alle spese sociali e produttive
hanno depresso ulteriormente il Pil, innalzando il livello del debito in
rapporto alla ricchezza. Insistere sulla strada del Fiscal compact rischia di
portarci alla devastazione del nostro welfare. Ciò che proponiamo, allora, è un
mix intelligente di investimenti e razionalizzazione della spesa, con
l’eliminazione degli sprechi e dei privilegi che va a finanziare la riduzione
strutturale delle tasse. Quindi
una prima fase di investimenti in settori innovativi con un fortissimo ritorno
occupazionale e di crescita e una seconda fase in cui ci si avvale delle
maggiori entrate per la riduzione sostanziale del debito/Pil. Solo così
riusciremo a rimettere l’economia in carreggiata e ad occuparci, nello stesso
momento, delle persone.
“Al posto degli uomini abbiamo
sostituito i numeri e alla compassione nei confronti delle sofferenze umane
abbiamo sostituito l’assillo dei riequilibri contabili”. Lo diceva Federico
Caffè, non il M5S. Una lezione che ci sembra attuale più che mai.
Laura Castelli, deputata Movimento
5 stelle
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