Anziani, ora vince l'assistenza in casa
Tempi d'attesa dimezzati nelle Rsa lombarde, il 30% rinuncia al ricovero
«Nuovo modello di welfare familiare»
I nonni curati sempre più in casa, almeno finché possibile. Il modo di
assistere gli anziani in Lombardia sta radicalmente cambiando: le
famiglie rinviano sempre di più l'ingresso nelle case di riposo,
generalmente poco amate, considerate spesso troppo costose, ma
un'àncora di salvataggio in situazioni difficili.
Il risultato è che i tempi di attesa per ottenere un posto letto si
sono, a sorpresa, dimezzati. Nel 2010, dal giorno della richiesta al
ricovero del proprio familiare trascorrevano in media 7 mesi (210
giorni), oggi ne bastano poco più di tre (98 giorni). Emerge
dall'ultimo report dell'Osservatorio sulle Rsa dell'Università Carlo
Cattaneo (Liuc) e guidato da Antonio Sebastiano.
Il dossier, divulgato negli ultimi giorni, risale al novembre 2017. Il
raffronto è sempre tra il 2016 e il 2010-11 (a seconda del momento in
cui l'Osservatorio ha iniziato a raccogliere i dati). Oggi i posti
letto nelle 680 Rsa lombarde sono 62.062 su una popolazione di over 75
di un milione e 85 mila. I numeri messi in fila uno dopo l'altro
fotografano un fenomeno sociale in piena evoluzione. Il momento del
ricovero viene fatto slittare in media dopo gli 85 anni (contro gli
81-82 precedenti). Per occupare un posto rimasto vuoto ora la casa di
riposo ci mette 3 giorni (al posto di 2): e per i letti non
convenzionati (ossia totalmente a carico della famiglia) ne passano
addirittura 19 (invece dei 7 del passato). Il tasso di rinunce è al
30%, quattro punti in percentuale in più: al momento in cui il posto si
libera, la famiglia decide che non le interessa più e fa un passo
indietro.
Un segnale tangibile del ricorso alle Rsa il più tardi possibile arriva
anche dal tasso di mortalità in crescita a 30 giorni dal ricovero che
adesso supera il 5%. I casi trattati sono complessi, le condizione di
salute spesso completamente compromesse: i minuti di assistenza
dedicati da medici e infermieri per ospiti in una settimana sono 1.136
(19 ore), il 26% in più rispetto ai 900 minuti previsti dagli standard
regionali.
Nella scelta delle famiglie pesa anche l'aspetto economico: tenere in
casa l'anziano ricorrendo all'aiuto di una badante è considerata
un'opzione che tutela maggiormente gli affetti. Ma un peso importante
ce l'hanno anche i costi: un ricovero a Milano supera i tremila euro al
mese, perché la spesa minima in media a carico delle famiglie per una
giornata di degenza è di 78,50 euro, il massimo è di 101 euro. Le
tariffe sono, però, più basse altrove: nell'Oltrepò Pavese sono tra i
54 e i 60 euro, nella Bergamasca tra i 55 e i 63 euro e nel Cremonese
tra i 52 e i 56. «Ma nei prossimi anni i margini di apporto della
famiglia all'assistenza in caso di non autosufficienza sono destinati a
ridursi, sia dal punto di vista della partecipazione come caregiver ,
sia da quello del sostegno economico. Il motivo? L'invecchiamento della
popolazione unito alla riduzione della dimensione media della famiglia,
alla contrazione delle nascite, al prolungamento dell'intervallo tra
matrimonio e i figli, ai cambiamenti nello stile di vita,
all'incremento del tasso dei divorzi ed alla maggiore partecipazione
femminile al mondo del lavoro — spiega Sebastiano —. Tutti fattori che
sono destinati a rivoluzionare nuovamente il sistema di welfare».
Sebastiano non ha dubbi: «Tutte le analisi condotte a livello italiano
e da parte di centri studi di altri Paesi dell'Ocse, concordano sul
fatto che la domanda di assistenza per gli anziani non autosufficienti
aumenterà e contestualmente diminuirà la possibilità delle famiglie di
offrire le cure al loro interno. Per questo motivo, come già sta
avvenendo, le Rsa devono diversificare sempre di più il proprio sistema
di offerta, sia con l'erogazione di servizi personalizzati a domicilio,
sia con un'offerta residenziale diurna». Insomma, lo scenario è
destinato a mutare nuovamente nei prossimi anni. E il sistema di
welfare dovrà essere in grado di rispondere a bisogni crescenti.
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L’idea
che un certo numero di appartamenti nei centri storici sia
rinconvertito in spazi di dimensioni (e costi) minori per alloggiare
single e coppie in unità personali ma dentro un complesso dove sia
possibile mantenere cure e relazioni comuni si scontra coi padroni del
mercato immobiliare e i loro assessori che hanno altre idee per la
testa. L’idea di una agenzia pubblica che prenda in affitto questi
appartamenti, li ristrutturi, le adegui, li affitti (e paghi l’affito
dell’immobile consegnato) e metta in piedi una struttura dove pubblico
(il medico, l’infermiera professionale, l’assis tente) e privato (i
figli, una badante che integrino l’apporto del pubblico) possa esistere
appare un miraggio impossibile. I Comuni tendono sem pre a sbolognare
il tutto a delle onlus che trasformano irrimediabilmente il tutto in un
affare più o meno camuffato con servizi alla pene di cane dati da
personale raccogliticcio pagato 5 euro l’ora a fronte di rette mille
volte quel costo. Coi comuni che manco chiedono di verificare le buste
paga degli addetti e spesso sortiscono appalti con prezzi della
manodopera inferiori ai minimi contrattuali.
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UNA PENSIONE SOSTENIBILE
Alessandro De Nicola
Tra la ridda di proclami di questa campagna elettorale uno dei più
indefiniti, persistenti e perniciosi è quello che promette di spazzare
via la legge Fornero, vale a dire la riforma pensionistica introdotta
nel 2011 dal governo Monti, i cui pilastri sono l'adeguamento dell'età
pensionabile all'andamen to dell'aspettativa di vita e la
generalizzazione del sistema contributivo ( si riceve in proporzione a
quanto si è versato). Come la si intenda sostituire e con quali effetti
sui conti pubblici non è dato sapere: si mormora di una fantomatica
quota 100 che consentirebbe di ritirarsi a 60 anni con 40 di
contributi, ma poco altro.
Ebbene, forse è meglio andare con ordine. Prima di tutto come è la
situazione italiana sul fronte previdenziale? Non buona. Anche dopo la
riforma del 2011, il Belpaese è tra gli Stati Ocse ( l'organiz zazione
dei paesi ricchi) quello che spende di più in pensioni in proporzione
al Pil, il 15,5%, il doppio della media. Poiché ogni tanto qualcuno
obietta che i pensionati italiani pagano le tasse su quanto ricevono
mentre in qualche altro posto ciò non accade, l'Ocse si è preso la
briga di calcolare l'incidenza sul Pil al netto del prelievo fiscale:
siamo sempre i primi. Peraltro, fino al 2045, tale percentuale è
destinata ad aumentare per effetto dell'invecchia mento dei baby
boomers. Solo da quell'anno in avanti le proiezioni parlano di una
progressiva diminuzione, ma far calcoli precisi dopo quella data è
arduo e, come avrebbe detto Keynes, nel lungo periodo saremo tutti
morti. Per chi pensa che convenga co munque aumentare gli assegni
pensionistici, perché tanto è tutto Pil che si aggiunge, è semplice
notare che il deficit conseguente significa futuri aumenti di tasse e
di interessi sul debito, con tanti saluti al Pil.
E come se la cavano i pensionati? L'età media effettiva di
pensionamento è in Italia ancora tra le più basse dell'Ocse, 62,1 anni
per gli uomini e 61,3 per le donne (nelle altre nazioni è tra i 65 e i
66 anni). Invero, benché un certo allarmismo dilaghi, chi in Italia si
ritirerà dopo una vita lavorativa completa beneficerà in media di una
percentuale molto alta dello stipendio, l'81,3% contro il 53% dei paesi
Ocse ( dove la previdenza privata complementare ha più peso). Inoltre,
il pensionato italiano gode di una situazione ottima ( solo in Spagna e
Francia è migliore) quanto al confronto con il reddito medio del resto
della popolazione attiva: guadagna quasi il 100%. La flessibilità in
uscita, d'altronde, è giudicata dall'Ocse elevata rispetto agli altri,
grazie all'Ape, senza contare che, nonostante il contributivo, i
redditi più bassi o alcune categorie di lavoratori godono di benefici
integrativi tipo la 14ma mensilità o l'Ape social recentemente
introdotti.
In questo sistema già molto tutelante e un po' in bilico, abolire in
toto la Fornero secondo la Ragioneria generale dello Stato porterebbe a
spese superiori a 350 miliardi fino al 2060, quasi 9 miliardi all'anno.
Vale pure qui il caveat precedente: le stime a così lungo periodo vanno
prese con le pinze e poi alcuni partiti abolizionisti parlano di voler
togliere solo le parti “ ingiuste” della legge, senza addentrarsi nei
dettagli.
Vale la pena allora, visto che parliamo di principi, ricordare che due
colonne portanti della norma attuale sono sicuramente giuste: la prima
è che in pensione si percepisce quanto si è contribuito se no, oltre ad
aggravare i conti pubblici, si carpiscono privilegi ad altri, in
particolare i più giovani. La seconda è che, in assenza di un sistema a
capitalizzazione come quello cileno dove ti ritiri quando vuoi, ma ti
godi solo quel che hai accumulato (il migliore, a mio parere), non si
può pensare che l'età pensionabile rimanga la stessa nonostante il
benvenuto allungarsi dell'aspet tativa di vita: non sarebbe né logico
né, per l'appunto, equo.
adenicola@ adamsith. it
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Ma Alessandro de Nicola sbaglia i numeri.
Tratto dal terzo Rapporto sul Bilancio del sistema previdenziale
italiano: andamenti finanziari e demografici delle pensioni e
dell’assistenza. L’elabora zione dei dati e la redazione del Rapporto è
stata curata dal Centro Studi e Ricerche di Itinerari Previdenziali con
la supervisione del Comitato Tecnico Scientifico.
La spesa per pensioni di natura previdenziale . Se alle entrate
contributive totali , pari a 189.595 milioni di euro , sottraiamo la
quota GIAS a carico dello Stato (16.948 miliardi), le entrate da
contributi effettivi (da lavoratori e datori di lavoro) si attestano a
172.647 milioni. Parallelamente , se alla spesa pensionistica totale (
216.107 milioni di euro ) sottraiamo le imposte che lo Stato incassa
direttamente (salvo ulteriore conguaglio a fine anno) pari a 42,9
miliardi , c he quindi sono semplicemente una “partita contabile di
giro” e una “non sp esa”, il totale si riduce a 173.204 milioni. A
questa cifra, se separassimo l’assistenza dalla previdenza, dovremmo
sottrarre anche l’importo delle integrazioni al minimo (9.894 milioni
di euro) , essendo queste dipendenti dal reddito e non dal sistema di
contribuzione (nella spesa per funzioni Eurostat dovrebbero essere
computate tra l e somme a sostegno de lla famiglia e di contrasto al
l’esclusione sociale), e l a spesa per pensioni previdenziali si
attesterebbe a 163 . 310milioni . Trascurando le integrazioni al minimo
scopriamo , pertanto (e qui sta la notizia) , che il bilancio
previdenziale presenta un leggero passivo di 560 milioni di euro , a
dimostrazione del fatto che il nostro sistema grazie alle numerose
riforme che si sono susseguite nel corso degli ultimi anni è stato
stabilizzato e messo in sicurezza. In rapporto al PIL , dunque, la
spesa pensionistica effettiva - così come sopra calcolata - si riduce
dal 15,46% al 10,06%, allineandosi agli altri Paesi UE .
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