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Il custode del La Latrina di Nusquamia tale Claudio Piga di origine sardAgnole ma abduano di Trezza d'Adda con ascendenze garibaldine in Valcamonica, uno che ha fatto il classico dai preti nell'ex liceo di A. Gramsci studiando latino e greco, ingegnere laureato al Politecnico di Milano dove ha appreso analisi matematica dalla Ajroldi Vasconi oltre a geometria proiettiva e meccanica razionale,  mentre si appresta all’udienza col suo acerrimo contendente Pedretti sentendo la puzza che dopo una ce ne potrebbe stare una seconda, si rivolge  furbescamente a noi: «Non meno pornografica, sempre in senso lato (per pararsi malamente del possibile danno), è la rappresentazione del proprio dolore, in occasione del dolore altrui: come quando per esempio uno che solitamente è una carogna vuol mostrarsi partecipe dell'altrui dolore, per apparire lui stesso “buono”.
Dobbiamo fare ammenda: non ci siamo accorti non solo che abbiamo in mezzo a noi un san Pietro (quello che decide dove spedirci post mortem) ma addirittura abbiamo nostro Signore Gesù Cristo che decide se siamo buoni bravi. Il novello Gesù Cristo s’é incarnato nel Claudio Piga ecc. ecc. e così ha  sistemato la Marina che oltre ad avere assunto droga, ha avuto a suo insindacabile parere «una vita malvissuta» ed ha graziato Lilli Carati -una santa!-  che pure aveva assunto droga,  s’era prostituita ma era solo una ragazza di chiappa padana ergo di razza sovrana.
Ci sono tre aggettivi che descrivono certi soggetti: infami, carogne, ignoranti. A scelta o in mazzo.

“I salari vanno aumentati Gori un’opportunità per il Pd e Grasso”

ROBERTO MANIA,

ROMA

«Dalla proposta del salario minimo legale a quella sul reddito di cittadinanza arriva la conferma che la politica — con qualche eccezione — non sa cosa sia oggi il lavoro. Si continuano ad applicare vecchi schemi, ad alimentare il precariato, a dare alle imprese tutto ciò che chiedono mentre la nuova emergenza oggi si chiama bassi stipendi dei lavoratori come ripete da tempo il presidente della Bce, Mario Draghi. Vanno aumentati, punto e basta». È quasi una svolta “salarialista” questa per la Cgil di Susanna Camusso che sul versante politico si schiera a favore di una candidatura unitaria del centro sinistra per la Regione Lombardia: «Sarebbe un’opportunità da cogliere».

La politica, almeno una parte, sembra parlare come la Cgil: abolizione del Jobs Act, dice Berlusconi, salvo poi ripensarci; cancellazione della legge Fornero, ripete Salvini. Non avverte qualche imbarazzo con questi compagni di strada?

«Sono loro che dovrebbero essere imbarazzati: l’attacco all’articolo 18 parte con Berlusconi, passa per Monti e arriva al Jobs Act di Renzi.

A manomettere per primo la legge Dini sulle pensioni è stato il centro destra. Il famoso “scalone” era quello di Maroni, ministro leghista del governo Berlusconi. Non credo che né uno né l’altro abbiamo intenzione di reintrodurre l’articolo 18 o di tornare alla legge Dini, men che meno di adottare la Carta dei diritti della Cgil e la pensione di garanzia per i giovani.

Sono solo slogan per far presa in particolare sui lavoratori. Non hanno alcun progetto se non peggiorare ciò che oggi è già pessimo».

È pur vero, tuttavia, che il lavoro e le pensioni sono al centro di questa campagna elettorale. Come lo spiega?

«La crisi economica ha colpito duramente il lavoro, ma anche la dimostrazione che le brutte leggi di questi anni non hanno fatto altro che peggiorare le condizioni, soprattutto per i giovani. Penso, poi, sia merito dei sindacati, e della Cgil in particolare, aver riproposto il tema della centralità del lavoro e della sua rappresentanza. Mi pare la più evidente sconfitta di tutti coloro che avevano immaginato il superamento dei corpi intermedi, che il lavoro non avesse più bisogno di soggetti di rappresentanza».

Anche questa colpa di Renzi?

«È un fatto che a chiudere la Sala Verde di palazzo Chigi per gli incontri con le forze sociali sia stato lui. Il lavoro è oggi la questione centrale per le famiglie ma dalla politica arrivano le ricette che hanno già fallito. Servirebbero dosi massicce di innovazione e di investimenti pubblici e privati, non un’altra stagione di subalternità alle rivendicazioni delle imprese».

Cosa pensa della proposta sul salario minimo per legge?

«Faceva parte del Jobs Act del 2014, sottende l’idea di un mondo senza contratti collettivi di lavoro, di lavoratori precari sottopagati.

Continuiamo a dire no grazie».

Il ministro Poletti dice che legge e contratti possono coesistere.

«Furberie: è un modo per far venire meno il vincolo contrattuale per le imprese. È la fine dei contratti collettivi nazionali per affidare al sindacato il solo compito di occuparsi delle ristrutturazioni aziendali. È una ricetta che non può funzionare. Ho il dubbio che davvero non conoscano il lavoro».

C’è il dubbio che anche il sindacato non abbia fatto fino in fondo il suo mestiere se i lavoratori italiani sono nelle condizioni che descrive lei.

«Riconosco che siamo arrivati in ritardo a capire la diffusione e il radicamento del lavoro precario.

Ma ci abbiamo messo dieci anni per rinnovare i contratti pubblici, per responsabilità della politica, e per farlo nel privato è stato faticosissimo. C’è una questione salariale di cui, a parte la Bce, in Italia nessuno parla».

Per aumentare i salari bisogna aumentare la produttività o no?

«Oggi la produttività non dipende dal lavoro ma dal trasferimento tecnologico, dalla maggiore formazione dei lavoratori, dalla capacità di usare i dati, dalle infrastrutture e dalle reti. I lavoratori non hanno più nulla da scambiare: abbiamo l’età pensionabile più alta d’Europa, l’orario più lungo, tutta la flessibilità che si vuole. Ma di cosa parliamo? I lavoratori sono spremuti. Ma avete visto cosa succede nelle aziende della Gig economy?».

Ha accennato alla formazione: cosa pensa della proposta di Grasso di abolire le tasse universitarie?

«Sicuramente ha il pregio di riproporre il tema dell’accesso all’università che oggi è fortemente basato sul censo. È una proposta che può aprire una discussione sulla qualità dell’istruzione».

Sì, è che fa pagare a tutti la retta universitaria del figlio del ricco.

«Questa obiezione vale anche per la scuola dell’obbligo».

Ma è appunto la scuola dell’obbligo.

«Se ci fosse reale progressività nel sistema fiscale questo problema non si porrebbe».

Lei per chi voterà?

«Non lo dico».

Comunque voterà in Lombardia: pensa ci vorrebbe un candidato unico del centro sinistra?

«Credo che sarebbe positivo se si cogliesse l’occasione di una candidatura unitaria in un’area del Paese, in particolare in quella milanese, dove cresce il numero di giovani e con un significativo tasso di innovazione. Sarebbe un passo importante per poter affrontare una partita strategica anche a livello nazionale».

Potrebbe essere Gori il candidato unitario?

«È compito delle forze politiche individuare il candidato. Ci piacerebbe che nella valutazione avessero un peso le buone relazioni avute con il sindacato a Bergamo come nel Lazio con Zingaretti»

PIANI ELETTORALI

le favole da evitare sul debito

di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

 

Luigi Di Maio ha consegnato alla stampa un suo scritto in cui annuncia che il Movimento 5 Stelle sta elaborando un piano per ridurre in due legislature il debito pubblico del 40 per cento del Pil, da 130 circa, il livello di oggi, a 90. Il piano non comporterebbe tagli alla spesa pubblica, anzi dovrebbe prevedere un aumento della spesa per infrastrutture. Abolirebbe anche la riforma pensionistica (la legge Fornero), un provvedimento che la Ragioneria generale dello Stato stima produrrà, nel biennio 2019-20, un risparmio di 25 miliardi l’anno lordi (cioè senza tener conto dell’effetto sulle imposte pagate dai pensionati).

Queste favole fiscali sono solo leggermente meno fantasiose delle promesse di Donald Trump (al quale Di Maio evidentemente si ispira), quando in campagna elettorale annunciava che avrebbe annullato il debito pubblico americano in 8 anni (due legislature appunto) aumentando, anche lui, le spese per infrastrutture e riducendo le imposte.

Di Maio (proprio come Trump) non ci dice come intenda realizzare questa straordinaria riduzione del debito. Trenta-quaranta punti di taglio sul Pil in 10 anni non sono impossibili ma richiedono almeno un paio di cose: dei surplus di bilancio notevoli (altro che aumenti di spese e abolizione della legge Fornero!), e dei tassi di interesse reali che rimangano assai bassi, e questo non dipende da noi.

La storia e la teoria economica ci spiegano che per ridurre il debito ci sono tre modi.

Il primo è svalutare il valore reale del debito con una «botta di inflazione». L’iperinflazione tedesca degli anni 20 cancellò l’enorme debito pubblico che la Germania aveva accumulato durante la Prima guerra mondiale, contribuendo a provocare eventi sociali e politici drammatici. Anche dopo la Seconda guerra mondiale l’inflazione svalutò, seppure in modo meno drammatico, il valore reale del debito, sia negli Stati Uniti che in Italia. Oggi però l’idea che il debito pubblico possa essere svalutato dall’inflazione è un’assurdità: non appena i risparmiatori lo sospettassero, i tassi di interesse salirebbero molto più dell’inflazione rendendo il debito ancora più costoso.

Il secondo modo è un ripudio. Se il nostro debito fosse detenuto solo da italiani, un ripudio comporterebbe una ridistribuzione di ricchezza da chi possiede titoli pubblici ai contribuenti. Ma questo non è il nostro caso. Il 40 per cento circa del debito italiano è detenuto da investitori internazionali. Un ripudio creerebbe una crisi di fiducia verso i nostri mercati, il blocco degli investimenti esteri, fallimenti bancari e una nuova crisi finanziaria. Un ripudio dopo l’altro, l’Argentina è passata da essere uno dei Paesi più ricchi del mondo a un caso quasi disperato.

La terza alternativa è una crescita del denominatore del rapporto debito/Pil più rapida della crescita del numeratore, cioè il deficit dei conti pubblici. In certi periodi storici — ad esempio negli Stati Uniti e in Gran Bretagna dopo la Seconda guerra mondiale — la crescita del Pil è stata cosi alta che il rapporto debito/Pil si è ridotto relativamente in fretta. Purtroppo tassi di crescita elevati come durante il boom degli anni Cinquanta e Sessanta non sono all’orizzonte. La conclusione è che ridurre il debito richiede molto tempo, grande pazienza e politiche che riducano il numeratore, cioè conti pubblici in attivo, o per lo meno un avanzo di bilancio al netto degli interessi e un tasso di crescita del Pil più alto del costo del debito.

Un avanzo nel bilancio pubblico si può ottenere o riducendo le spese o aumentando le imposte. L’evidenza empirica dimostra che un aumento della pressione fiscale su famiglie e imprese riduce la crescita, così tanto che alla fine il rapporto debito/Pil anziché diminuire sale ancor di più. Invece, tagli alla spesa pubblica hanno l’effetto desiderato, cioè riducono il rapporto debito/Pil perché non rallentano la crescita, o al massimo la influenzano di poco e per poco tempo. Questo è vero soprattutto per quelle riforme che bloccano l’aumento automatico di certe spese come le pensioni, soprattutto quando diventano incompatibili con l’allungamento della vita e il calo della natalità. È per questo motivo che cancellare la legge Fornero renderebbe ancor più difficile ridurre il debito.

Questo è ciò che si impara leggendo i libri di storia e qualche manuale di economia. Purtroppo questa campagna elettorale è piena di favole. In parte è inevitabile, ma a noi pare che si stiano superando limiti assai pericolosi.
Il debito pubblico italiano è quella cosa di cui tutti se ne fregano tranne i ricchi. Poveri e meno poveri e imprese amano il debito pubblico perché rende. Anzi: rendeva assai e nonostante il QE ci sperano ancora.
Gli stranieri, quelli che hanno comprato il nostro debito nel processo di interscambio che lega le varie nazioni, penso siano convinti che non solo noi italiani non vogliamo diminuirlo ma quand’anche dovesse diminuire sostanzialmente (come?)  manderemmo al governo qualcuno che lo fa crescere.
Alesina e Giavazzi ci avvertono che «ridurre il debito richiede molto tempo, grande pazienza e politiche che riducano il numeratore, cioè conti pubblici in attivo, o per lo meno un avanzo di bilancio al netto degli interessi e un tasso di crescita del Pil più alto del costo del debito». Ma tutto il loro ragionamento deriva dal fatto che non è mai esistita un’unione monetaria  e non è mai stato adottato lo stampare moneta ed acquistare debito pubblico (e privato: adesso) così da portare a zero gli interessi che pagano gli stati debitori. Ovviamente non su tutto il loro debito.
Ma è proprio negli anni in cui il QE riduce (a zero) gli interessi sul debito pubblico che se ne può  azzerare gran parte -una sorta di patrimoniale- senza incorrere nei danni di un «ripudio che creerebbe una crisi di fiducia verso i nostri mercati, il blocco degli investimenti esteri, fallimenti bancari e una nuova crisi finanziaria». Gli stati esteri e gli investitori comprano debito pubblico italiano in base agli interscambi che il nostro paese ha con l’estero. Ovviamente non è mai 1:1 però sostanzialmente -fiducia per fiducia-è così.
Il debito pubblico di un paese fa (anche) la ricchezza degli altri paesi ma non sono gli interessi (quando col QE sono a zero) che contano per gli affari che si creano. Il problema italiano è quindi quello di un sistema di bassa produttività che non dipende dal lavoro ma dal trasferimento tecnologico, dalla maggiore formazione dei lavoratori, dalla capacità di usare i dati, dalle infrastrutture e dalle reti. Tutti fattori su cui lo stato investe poco o nulla ma nemmeno le  imprese che non sono solo «piccole» ma soprattutto «vecchie». Un paese che cresce  può incamerare una discreta percentuale di debito pubblico ogni anno per un discreto periodo per ridurlo. Il fatto è che in Italia tutti scommettono sul contrario.