PIÙ LAVORO MA POVERO
Marco Ruffolo
Si potrà obiettare che la crescita dei lavoratori a termine è nove
volte più forte di quella dei dipendenti a tempo indeterminato; che
anche tra questi ultimi il 18 per cento è impiegato solo poche ore al
giorno; che il tasso di occupazione italiano è ancora il penultimo in
Europa. Ma tutto questo sminuisce solo in parte le novità positive dei
dati Istat sul mercato del lavoro di novembre. Record storico degli
occupati complessivi: 23 milioni 183 mila, sopra i livelli pre- crisi,
345 mila in più in un anno. Record del lavoro femminile. Calo della
disoccupazione totale e giovanile, rispettivamente all' 11 e al 32,7%,
i livelli più bassi dal 2012. Il tweet del premier Paolo Gentiloni
elenca con soddisfazione questi risultati e al tempo stesso invita alla
prudenza: «Si può e si deve fare ancora meglio. Servono più che mai
impegno e serietà, non certo una girandola di illusioni». Ma intanto
alcuni importanti e innegabili traguardi occupazionali sono stati
raggiunti.
Tanto più importanti in quanto investono tutte le fasce di età, giovani
compresi. Eppure molti commentatori, nel leggere il comunicato
dell'Istat, fanno notare che tra i trentenni e quarantenni (la fascia
35-49 anni) nell'ultimo anno sono spariti 161 mila occupati. Insomma,
il vento della ripresa non sarebbe minimamente avvertito dalla schiera
dei “giovani adulti”, la generazione più colpita dalla crisi degli anni
scorsi. Il grosso del nuovo lavoro, invece, si concentrerebbe ancora
una volta tra gli “ over 50”, che infatti contano quasi 400 mila
occupati in più nell'ultimo anno. Peccato che ancora una volta questo
tipo di considerazioni trascuri del tutto l'evoluzione demografica del
nostro Paese e gli effetti che l'invecchiamento della popolazione sta
producendo sul mondo del lavoro, effetti che pure vengono espressamente
indicati dal nostro Istituto di statistica.
Nell'ultimo anno sono semplicemente spariti ( in quanto saliti a una
fascia di età superiore) 333 mila giovani adulti (tra i 35 e i 49 anni)
e 104 mila “ragazzi” tra 15 e 34 anni. Mentre la schiera degli over 50
si è infoltita di 239 mila persone. Questo travaso demografico, che
dura ormai da molto tempo, e che in tredici anni ha visto passare di
categoria ( per via dell'invecchiamento) oltre due milioni di persone,
finisce ovviamente per deformare tutti i dati dell'occupazione. I
trenta- quarantenni, in particolare, contano meno occupati in assoluto
per la semplice ragione che sono meno di prima. Ma siccome quella
fascia di popolazione scende più di quanto si riduce la loro
occupazione, il risultato alla fine è che quest'ultima, invece di
calare, sale dello 0,4 per cento nell'ultimo anno. A contrario, sempre
al netto della demografia, la crescita degli occupati tra gli over 50
si ridimensiona dal 4,5 al 2,5 per cento. Cosa succede invece ai più
giovani? Anche qui abbiamo una bella scoperta: nonostante la
diminuzione del numero complessivo degli under 35, la loro occupazione
sale del 2,2 per cento, che diventa il 3,1 al netto degli effetti
demografici. Conclusione: tutte le fasce di età, chi più chi meno,
vedono aumentare i posti di lavoro. E l'incremento più sostenuto spetta
proprio ai più giovani.
Detto questo, restano in piedi tutte le obiezioni indicate all'inizio.
Oltre il 90 per cento della nuova occupazione dipendente è a termine. E
una parte cospicua degli stessi lavoratori stabili si deve accontentare
di essere impiegata a tempo parziale, spesso contro la sua volontà.
Questa è la ragione per cui, mentre il numero degli occupati è salito
oltre i livelli pre- crisi del 2008, quello delle ore lavorate è ancora
inferiore a quei livelli. Inoltre, molti lavori sono di bassa qualità,
poco produttivi e quindi malpagati. Ma se questo è il quadro
qualitativo che emerge dal nuovo mercato del lavoro, ci si chiede quali
siano stati allora i vantaggi prodotti dal Jobs Act e dagli sgravi
contributivi alle assunzioni. Questi due interventi non avrebbero
dovuto dare più stabilità al lavoro? In realtà, dalla fine del 2014 ad
oggi gli occupati a tempo indeterminato sono cresciuti di quasi mezzo
milione, ma ancora di più (600 mila) sono saliti quelli a termine,
grazie alla liberalizzazione introdotta da Poletti nel 2014. Quando gli
sgravi alle assunzioni sono finiti, a crescere in misura cospicua sono
rimasti gli occupati a termine (più 450 mila nell'ultimo anno). Il che
però non ha impedito che anche i posti stabili continuassero siano pure
leggermente ad aumentare: più 48 mila. Ora, la speranza di poter dare
maggiore stabilità ai nuovi contratti è riposta, almeno in parte, nei
nuovi sgravi previsti dalla legge di Stabilità 2018 per chi assume
giovani. Ma la strada della decontribuzione, fin troppo arata, può
assai poco se nel frattempo non si avviano interventi in grado di
incidere strutturalmente sulla qualità del lavoro; se non si investe
veramente, e non con gli attuali finti corsi, nella formazione ( dei
ragazzi, dei lavoratori, dei disoccupati); se non si mette in piedi sul
serio quella politica attiva del lavoro che dovrebbe incrociare domanda
e offerta e che è attualmente bloccata o quasi dalla kafkiana
sovrapposizione d
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Probabilmente
l’unica vera notizia è quella che dice che nel 2016 il monte ore
lavorate complessivamente è ancora inferiore a quelle del 2008. Avete
letto giusto: nove anni or sono agli inizi della crisi. Purtroppo non
si conoscono nemmeno le ore lavorate pro capite per anno di età
rispetto alla media mensile o trimestrale dell’orario a tempo
pieno. Non si riesce a capire a quanto ammonta il tasso reale di
occupazione nel senso che se la statistica dice che se Tizio lavora
un’ora alla settimana risulta comunque come UN occupato, in realtà
occorre sapere quanti sono quelli che -per classi di età- lavorano
48,47,46,....10,9 8,7,6.....1 ora solamente.
Oltre a questo varrebbe la pena di sapere come si distribuisce
l’occupazione per numeri di addetti per impresa. Probabile che
l’impresa metalmeccanica con 1200 dipendenti abbia stabilmente un 10%
che su cinquadue settimane lavorano solo 300 ore mentre tutti gli altri
ne fanno 3000 all’anno.
Da li si può ricostruire davvero come sta l’occupazio ne nel Paese
perché se è vero che «piccolo é bello» per cantare una q canzone di
qualche anno or sono, in realtà oggi bisognerebbe aggiornarla con
«piccolo é vecchio» e quindi si comprende com’è che li di
innovazione c’é n’è poca e quell’impresa presumibilmente è destinata a
scomparire.
Del resto il maxi boom di vendite auto del 2017é in gran parte
collegato al rinnovo del parco auto delle imprese per i super
ammortamenti possibili ma un nuovo doblò non é industria 4.
«Piccolo è bello» non è solo piccolo é vecchio» ma significa che lavori
o produci per i consumi interni di mantenimento e non stai
sull’esportazione o sui prodotti innovativi. E questo lo si vede per
esempio nel settore energetico applicato alle abitazioni dove di
innovazione se ne vede ben poca e nemmeno accompagnata da una adeguata
specializzazione nella manutenzione e mantenimento.
Piccolo è bello ma piccolo è vecchio sta creando un mercato del lavoro
con una alta differenza salariale e probabilmente occorre fissare un
salario minimo non residuale per costringere gli incapaci a chiudere e
i capaci ad muoversi ancora di più.
La faccenda però diventa assai complicata perché manca una politica
industriale che indichi i settori strategici in cui l’Italia vuole
essere protagonista anziché lasciare (abbandonare...) al singolo
industriale ad arrangiarsi nel ritagliarsi un ruolo.
E nel contempo occorre investire massicciamente nell’istruzione e nella
formazione per supportare quegli indirizzi di politica industriale,
altrimenti continuiamo la solfa pazzesca per cui la scuola va per conto
suo, l’artigianato va per conto suo, l’industria va per conto suo
e che... s’arrangino tra di loro a ridurre o assorbire o
rifiutare problemi e contraddizioni.
Occorre insomma un Paese che sia complessivamente più cooperativo e che
ponga il reperimento delle risorse a partire dall’azzeramento
dell’evasione fiscale entro un lustro come obiettivo nazionale di lungo
periodo. Quando un paese perde 70-100 miliardi l’anno per evasione
fiscale e ne paga una 700 di interessi sul debito pubblico negli ultimi
dieci anni forse è meglio che smetta di fare l’asino che raglia alla
luna.
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-Blackout all'Uci di Curno. È successo verso le 19 di martedì 9 gennaio. Redazione di Bergamonews
Blackout all’Uci di Curno. È successo verso le 19 di martedì 9 gennaio.
Il personale ha fatto evacuare la multisala in attesa dei tecnici. (...)
In paese non c’è solo la giunta Gamba che a Natale si ritrova senza
paramenti natalizi e con decine di lampioni della pubblica
illuminazione spenti perché hanno la crapa bucata e l’acqua piovana,
penetrando, li fa spegnere. Pure uno dei media più tecnologici del
paese, la multisala, c’ha avuto il suo blackout elettrico rimediato
dopo un’ora. Ovviamente non si conoscono le ragioni e siccome non ci
sono stati incidenti presumibilmente non sarà intervenuta l’ATS. Vero
che pure la multisala non è giovanissima, ma non avremmo immaginato che
pure essa c’avesse i ... lampioni bacati.
2-Così è adesso per Marina Ripa di Meana: è morta di cancro, come tanti
altri, avendo incubato la malattia per parecchi anni, come molti altri,
il cui dolore non è tuttavia documentato o comunque non si presta a
lancio mediatico. (...)Il fatto che Marina Ripa di Meana sia morta di
cancro non redime una vita, a nostro parere, mal vissuta». Dunque,
Marina Ripa ecc. non è una santa, è un diavolo.
Non meno pornografica, sempre in senso lato, è la rappresentazione del
proprio dolore, in occasione del dolore altrui: come quando per esempio
uno che solitamente è una carogna vuol mostrarsi partecipe dell'altrui
dolore, per apparire lui stesso “buono”.... »
Che dire di uno scrive ‘ste virgole di merda anche se ha fatto il classico dai preti
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