Elezioni:
per i Curnesi pare proprio non ci sia trippa per gatti. Ne
Camera, ne Senato, ne Regionali. L’unico che si è sbilanciato in una
intervista è stato nonno Antonio di Pietro che a Repubblica: «Me
l’hanno chiesto tutti, di candidarmi. In effetti sto valutando se
candidarmi. Nel mio Molise. Come indipendente per il centrosinistra.
Nel maggioritario, ovviamente». Pare che la sindaca emerita Serra alla
domanda di una giornalista del Bugiardino abbia risposto: «non me l’ha
chiesto nessuno di candidarmi». E in effetti con la sua collega sindaca
di Solza Maria Carla Rocca già sugli spalti, per la Serra pare proprio
che il destino sia casalingo: nonna, capogruppo, consigliera delegata
alla monnezza e guida turistica in città. Che sono già troppi impegni.
Nel centrodestra nemmeno parlare di curnesi in lista vista la batosta
beccata e così pure la Lega che deve ancora smaltire la «botta
Pedretti».
Il problema è che se vai in lista devi disporre almeno di 50mila euro
da investire e coi lumi che corrono... Nel PD il futuro é più
incerto che mai sia a livello nazionale mentre pare ci sia una
debole possibilità a livello regionale.
A Curno i partiti si sono massacrati da soli per demerito di due uomini
che per qualche lustro hanno fatto «gli uomini soli al comando»
mandando allo sbaraglio sia la sinistra che il centrodestra leghista.
Una Lega che é scomparsa col declino e i casini di Bossi e compagnia e
una sinistra che -per non fare ombra all’uomo unico al comando- non ha
allevato una classe dirigente finendo per consegnare il comune a una
sorta di onlus.
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C'è
una distanza siderale tra il mio mondo e quello di Marina Ripa di Meana
(già scrivere questa lunga sequela di nomi mi disturba) e la notizia
arrivata in poche ore: il Celentano compie ottanta anni e Marina muore
(a 76 anni) dopo 16 anni di malattia per un cancro al rene mi
costringe a pensare. Non ho mai apprezzato il molleggiato e per la sua
pessima voce, le sue pessime canzoni e soprattutto per il suo
essere milanese bauscia ed opportunista. Quel suo mettere nel piatto
quello che piace alla gente e fa vendere (dischi). A Marina ho
addirittura stretto la mano, del tutto casualmente all'uscita di un
ascensore, durante un congresso dei Verdi. Figurarsi se a una
bergamasco poteva piacere quella manina molliccia di una
donna con quattro nomi, che promanava un profumo o un olezzo o una
puzza di chimica tra fondotinta rossetti antiparassitari sotto le
ascelle. Semmai mi intrigava maggiormente la compagna del molleggiato,
Claudia Mori, una donna che bisognava “conquistare” mentre
Marina era una che gli uomini li “prendeva”, li strizzava e poi
li gettava nell'indifferenziata come vecchi stracci lavapavimenti. Un
po' di amor proprio per dio.
Sapevo casualmente che Marina era stata ammalata ed immaginavo, non
frequentando la tv del pomeriggio e quella del dolore, che quel
problema l'avesse risolto.
Invece non è stato così.
Di Marina –calabrese di nascita- si ricorda una vita in quello che per
me era il peggior mondo immaginabile, un mondo di cui non avrei voluto
far parte nemmeno a pagamento. Per di più romano. O meglio: proprio
così sfatto perché proprio così romano. Per di più con famiglie di
quattro nomi-cognomi. Una monnezza. Nella quale Marina c'ha vissuto,
c'ha galleggiato, ha avuto mille amanti e pochi amori (dice lei).
Una vita vissuta per 16 anni con dentro quel “bao”. Combattendolo
continuamente e soffrendo. “Bao” è un termine bergamasco che nel
caso indica un ospite che ti porta alla morte. Un termine che i
bergamaschi adulti pronunciano ancora abbassando il tono della voce,
come fosse una vergogna. Forse retaggio dell'idea cattolica che le
malattie sono una punizione divina per una vita poco cristiana.
Nella mia famiglia c'è stato un nipote che è morto nel 2013 a 35 anni
–padre di due figli- dopo tre anni per un osteosarcoma sulla colonna
vertebrale. Ed è morto nella sedazione dal dolore a casa sua. Forse noi
lombardi possiamo dirci fortunati di godere di questo servizio che
invece –come appare nell'intervista recentissima di marina- pare che
altrove sia come una novità.
Se prima l'immagine che avevo di Marina era quella di una ricca sfigata
spacca marroni che si poteva permettere di tutto, davanti alla notizia
della sua morte ho pensato – ricordando quel che abbiamo passato nei
tre anni della malattia di nostro nipote- che lei col bao dentro
c'aveva convissuto sedici anni.
Lei e la sua famiglia.
Perché il problema del “bao dentro” non è che comunque tu morirai per
la sua presenza: ma assieme a chi lo porta dentro, quel bao uccide
anche i vicini: moglie figli madri padri parenti chi più chi meno, ti
assistono.
Ammiro Marina non solo perché ha combattuto per sedici anni contro il
suo bao ma perché l'ha fatto senza perdere buona parte della sua
leggerezza e svagatezza.
Provate a vivere con la certezza che se non è domani sarà doman
l'altro che il vostro ospite vi ucciderà. Provate a vivere sedici
anni sperando che “la scienza” trovi una pillola per guarirti e invece
non trova nessuna pillola. Anzi: per sopravvivere ti commina cure
dolorosissime come la chemioterapia. Ecco. Quei sedici anni convissuti
col bao e la sua morte nella sedazione del dolore ce ne restituisce una
immagine differente. Non una donna. Due donne.
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Il caso
Processo a giugno così Virginia Raggi cerca di sfuggire all’ombra di Marra.
Carlo Bonini
Quando tocca a loro, al Movimento Cinque Stelle, la giustizia, ma prima
ancora la verità dei fatti, può attendere. Le “ calende di luglio”, si
può compiacere oggi Virginia Raggi. Che non saranno certo quelle “
greche”, sinonimo latino di “ mai”. Ma che nel calendario di questo
2018 della politica italiana, molto le somigliano. Braccata da quel
fantasma che si chiama Raffaele Marra, Rasputin dei suoi primi sei mesi
di giunta, la sindaca ottiene infatti dal giudice dell’udienza
preliminare di Roma la fissazione al 21 giugno del processo «con rito
immediato» in cui è imputata di falso ideologico nel procedimento di
nomina di Renato Marra ( fratello di Raffaele) a direttore del
Dipartimento del Turismo capitolino. Evita dunque, indenne, il primo
momento di verifica processuale degli indizi di colpevolezza a suo
carico. Soprattutto, allontana quel che basta dal voto del 4 marzo il
redde rationem, insieme politico e giudiziario, che, come un’ombra, la
insegue dal dicembre del 2016 ( quando Marra venne arrestato per
corruzione). E che, con lei, insegue il Movimento Cinque Stelle, nonché
il suo candidato premier alle elezioni. Quel Luigi Di Maio che, in
qualità di responsabile politico degli enti locali, si era fatto
garante di quel singolare connubio tra la donna che, da sindaco,
prometteva di liberare il governo di Roma dal sistema di relazioni e
interessi del partito dei costruttori, dai “ forchettoni” della destra,
e l’uomo che di quel sistema era al contrario l’espressione plastica.
Nei due processi - a Marra ed alla Raggi- si apre così la porta a un
calvario di eccezioni, potenziali incongruenze, e dove le legittime
garanzie a difesa di un imputato potranno essere utilizzate come
formidabile strumento dilatorio od ostruzionistico (Per dire: cosa
accadrà quando la Procura chiamerà a testimoniare Marra nel processo
della Raggi e, viceversa, la Raggi in quello di Marra? Risponderanno
per amore di verità o insieme si avvarranno del diritto al silenzio,
come la legge gli consente, scommettendo su un patto di non
belligeranza che, al momento, condannerebbe entrambi?).
E tuttavia, all’apparenza furbissima, la mossa della Raggi ne tradisce
tutta la disperazione e improvvisazione. Come, del resto, sempre le è
accaduto quando i nodi politici della sua amministrazione sono arrivati
al pettine. Posticipare di una stagione il suo processo per ridurne
l’impatto politico sulla campagna elettorale, non la sottrae infatti
alla scelta diabolica che si troverà di fronte quando comparirà di
fronte al suo giudice naturale. Dichiararsi “bugiarda a sua insaputa”,
semplicemente perché ingenua, e per giunta incompetente, al punto da
non comprendere quale decisione stesse assumendo nel novembre del 2016
con la nomina di Renato Marra e soprattutto chi quella scelta avesse
orientato nonostante fosse in palese conflitto di interesse ( Raffaele
Marra). O, al contrario, insistere di aver fatto tutto da sola ( e
dunque non aver detto il falso), smentendo gli sms che lei stessa
inviava a Raffaele Marra cui rimproverava di averla ingannata sul conto
del fratello.
C’è di più. Celebrato per mesi come uno “scienziato” della macchina
amministrativa, un taciturno civil servant, Raffaele Marra è oggi una
bomba di rancore. Un disperato (di qui alle prossime settimane arriverà
la sentenza nel processo dove è imputato per corruzione per la vicenda
dell’acquisto a prezzi di favore degli immobili dal costruttore
Scarpellini) che non ha più nulla da perdere. Il morto cui non resta
che afferrarsi ai vivi nella speranza che i vivi (il Movimento Cinque
stelle) abbiano qualcosa da offrire o, al contrario, che la verità di
ciò che è accaduto nell’estate del 2016 tra il Campidoglio e gli uffici
di Di Maio a Montecitorio ( dove Marra venne ricevuto dall’attuale
candidato premier pentastellato) redistribuisca responsabilità penali (
vedi Raggi) e politiche ( Raggi e Di Maio insieme).
Il Comune di Roma non sarebbe intenzionato a costituirsi parte civile –
e dunque a vedere riconosciuto il danno - in un processo dove, fino a
prova contraria, avrebbe il pieno e logico interesse ad essere
dichiarato vittima di un abuso ( la nomina di Renato Marra).
Formidabile la ragione: Renato Marra venne revocato dopo un mese e non
ebbe tempo di percepire i 20 mila euro in più di retribuzione annua che
gli assicurava la nomina
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con i soldi dei contribuenti: “Bossi sapeva e autorizzava”.
Le motivazioni della sentenza di condanna: inverosimile la versione del figlio Renzo sulla laurea in Albania
Franco Vanni
Umberto Bossi sapeva, autorizzava, dava indicazioni. È stato il
fondatore della Lega, fra il 2009 e il 2011, a «istigare le condotte di
appropriazione di denaro » del partito « per coprire spese di esclusivo
interesse personale e della sua famiglia ».
Lo scrive il giudice Maria Luisa Balzarotti, giudice dell’Ottava
sezione penale del tribunale di Milano, nelle motivazioni della
sentenza con cui lo scorso 10 luglio ha condannato Bossi a 2 anni e 3
mesi di reclusione per il reato di appropriazione indebita.
Con la stessa accusa, ha deciso per il figlio Renzo una pena di 1 anni
e 6 mesi, e per l’ex tesoriere Francesco Belsito 2 anni e sei mesi.
Le motivazioni della condanna — che difficilmente arriverà in
Cassazione prima che i reati siano prescritti — vengono depositate
proprio mentre nella Lega (non più Nord) si affaccia la possibilità di
un ritorno del fondatore in lista. Solo sei mesi fa, appreso l’esito
della sentenza, il segretario Matteo Salvini parlò della vicenda “ the
Family” ( così si chiamava l’inchiesta della procura di Milano) come di
«un’altra era politica».
L’immagine del Senatur non esce bene dalle carte del tribunale. Il
giudice sottolinea come i milioni di euro usati dai Bossi e da Belsito
fossero « provenienti dai rimborsi elettorali » . Quindi, pubblici.
Sottolinea come «un disvalore» il fatto che la famiglia del fondatore
del Carroccio spendesse soldi dei contribuenti mentre la stessa Lega si
poneva come « soggetto politico in forte opposizione al malcostume dei
partiti tradizionali».
Il solo Belsito avrebbe intascato, o speso per proprio vantaggio, 2,4
milioni. Umberto Bossi 208mila euro. Renzo, ribattezzato “ trota” dal
padre, 145mila. Una buona metà sono andati per l’acquisto di una laurea
a Tirana.
Nel processo, Bossi Jr si è difeso sostenendo di non essere stato a
conoscenza del titolo acquistato in Albania. Una versione che la
giudice boccia come «inverosimile», domandandosi se sia realistico che
Renzo fosse «dottore a sua insaputa». L’elenco delle spese sostenute
dai tre imputati ( a cui si aggiunge Riccardo Bossi, già condannato con
rito abbreviato) riempie venti pagine. Umberto Bossi spese decine di
migliaia di euro per ristrutturazioni nella villa di Gemonio,
registrate da Belsito come «Casa Capo lavori».
Lo stesso Belsito ha acquistato gioielli, “ composizioni floreali”,
casse di vino, capi in pelle Louis Vuitton, “armi e munizioni”, quadri,
cene al ristorante e pasti pronti in rosticceria. Renzo Bossi ha
caricato sui conti della Lega ( che non ha fatto richiesta di
costituzione di parte civile) decine di migliaia di euro in multe e
spese legate ad auto di lusso. Tanto che, intercettate, le segretarie
di Bossi scherzavano al telefono: « Abbiamo un parco macchine che è una
roba strepitosa » . I pubblici ministeri Paolo Filippini e Roberto
Pellicano ( poi trasferito) non hanno contestato a Bossi spese relative
all’assistenza nel periodo della propria malattia, e nemmeno i
finanziamenti alla scuola Bosina e al Sindacato padano.
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