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“L’alternanza scuola-lavoro sta producendo buoni frutti”. Se ne è convinto Pietro Ichino, il giuslavorista che da una vita si prodiga per porre fine all’ingiustizia che affligge il mercato del lavoro italiano dove solo alcuni lavoratori sono protetti e garantiti e altri, poveretti, no. Ichino, che non tollera queste discriminazioni, propone di togliere le tutele a chi le ha: così siamo pari. Lo va spiegando da quando, alla fine degli Anni 70, si fece eleggere da indipendente nelle file del Pci, ma allora il suo verbo era troppo profetico. Nel 2007 il riscatto: un lungimirante Daniele Capezzone lo arruola per redigere un piano di riforme per l’Italia insieme agli economisti Alesina e Giavazzi, convinti sostenitori di tesi iettatorie quali: “La bolla dei subprime è sotto controllo e non produrrà una crisi finanziaria globale”, “L’abolizione dell’articolo 18 farà schizzare la produttività” e “Il liberismo è di sinistra” (questa è il titolo di un loro libro. No, non è una battuta). Il neonato Pd di Veltroni premia Ichino facendolo eleggere senatore. Nel 2012 Ichino lascia il Pd e passa con Monti del quale si vantava di aver scritto il programma di governo (“Molte delle tesi esposte nell’agenda di Monti sono le stesse di un documento che presentai lo, i due scritti sono praticamente sovrapponibili”). Infine torna nel Pd renziano, che finalmente gli dà soddisfazione abolendo l’articolo 18.

Ichino si è convinto della bontà dell’alternanza scuola-lavoro ascoltando un padre che, ai microfoni di Radio3 Rai ha denunciato le storture della misura introdotta in via sperimentale dal governo Berlusconi e resa obbligatoria per tutti gli studenti dal governo-Renzi: 400 ore di lavoro gratuito per gli studenti degli istituti tecnici e 200 per quelli dei licei. “Mio figlio, liceale, l’hanno mandato a fare il cameriere in un fast food!”, racconta il genitore: “Fanno passare la voglia di fare sacrifici per far studiare i propri ragazzi”. Ichino ascolta la testimonianza e si indigna, non contro i licei che spediscono gli studenti a friggere gratis invece che insegnargli la geografia, l’arte o le lingue ma contro i genitori che osano protestare, incapaci di cogliere il valore formativo dello sfruttamento, un insegnamento certamente più utile per l’inserimento professionale di una qualche anacronistica nozione di storia della Rivoluzione Francese o di filosofia sull’esistenzialismo che potrebbero essere d’intralcio alla carriera nell’epoca in cui le aziende premiano più che l’estro e la consapevolezza lo spirito di sacrificio e l’ubbidienza.

“A sentire questo radioascoltatore mi sono detto che, nonostante tutto, l’alternanza scuola lavoro sta producendo buoni frutti. Sia pur coi suoi difetti, serve per chiarire le idee a quel genitore di Radio Tre Rai e agli altri che la pensano come lui”, scrive Ichino sul suo blog: “Gran parte dei problemi che stanno alla radice dell’elevata disoccupazione giovanile nascono dalle indicazioni sbagliate che i genitori danno ai propri figli, e soprattutto da questa: «devi puntare subito al lavoro “buono”, perché altrimenti rischi di restare impigliato in un percorso professionale deteriore». Questa è un’idea vecchia, che risale al tempo in cui si veniva assunti a 18 o 20 anni in un posto e ci si rimaneva fino alla pensione. Oggi il mercato del lavoro non funziona più così». Non funziona più così grazie alle riforme suggerite da Ichino che consentono alle aziende di liberarsi dei lavoratori prima che facciano scatti di anzianità e sostituirli con forza-lavoro interinale più giovane e prestante senza che nessuno maturi i contributi per la pensione.

Ichino fa suo l’assunto della della lobby di multinazionali che ha ispirato la riforma della Buona Scuola attraverso il rapporto McKinsey, le cui conclusioni – sbagliate – vengono citate nelle premesse del provvedimento del governo Renzi: l’elevata disoccupazione giovanile non dipende dalla crisi della domanda (nessuno compra più niente, dunque non c’è ragione di produrlo) ma dal fatto che il nostro sistema scolastico non offre competenze adeguate a quelle richieste dalle imprese. Partendo da questa convinzione, la lobby delle multinazionali raccomandava di adattare la scuola alle esigenze degli imprenditori, che più di tutto esigono che si lavori tanto, senza diritti – né contezza di quali siano i diritti da esigere – e senza oneri per l’azienda, ossia gratis. Da qui l’alternanza scuola-lavoro: studenti che invece di studiare vengono mandati a raccogliere cozze, guidare muletti, scartavetrare navi, pulire cessi, servire panini, svolgere mansioni che nel 57 per cento dei casi – attesta una ricerca dell’Unione Degli Studenti – non hanno nulla a che fare con il proprio percorso di studi ma che sono identiche a quelle dei lavoratori che per svolgere quelle mansioni vengono generalmente retribuiti. Con il risultato che non guadagnano né gli studenti né i lavoratori sostituiti dagli studenti in alternanza, ritrovandosi tutti e due senza soldi da spendere. Con il risultato che nessuno compra niente, dunque non c’è ragione di produrlo: crisi della domanda.
Al governo Renzi – e a Ichino – sarebbe bastato affidarsi, invece che alle conclusioni del rapporto McKinsey, a quelle del governo stesso: uno studio del Ministero del Lavoro dimostrava infatti che il tasso di disoccupazione giovanile al 40 per cento, record in Europa, era imputabile solo in minima parte (appena il 2 per cento) alla mancanza di una formazione scolastica adeguata alle esigenze del mercato e per la gran parte alla crisi della domanda interna.

Al di là della consueta infondatezza delle ricette neoliberiste, c’è però un aspetto che sfugge a Ichino, e che sarebbe bene chiarire nell’incontro, previsto per domani, al Miur, tra la ministra Fedeli e gli studenti che il mese scorso hanno protestato contro l’alternanza, chiedendo tra l’altro l’adozione di uno statuto dei diritti che garantisca la qualità dei percorsi e un codice etico che escluda dall’alternanza le aziende che inquinano i territori, sfruttano e licenziano i lavoratori, sono colluse con la mafia.

La funzione della scuola pubblica non è quella di preparare gli studenti al mondo del lavoro. La formazione professionale dei lavoratori è un onere delle imprese e non ha niente a che vedere con il compito della scuola che è quello rimuovere gli ostacoli che impediscono agli individui di essere uguali. Quello di educare alla cittadinanza che si acquisisce attraverso la cultura e la conoscenza, quello di dotare ciascuno degli strumenti che gli consentono di sviluppare lo spirito critico, alimentare la curiosità, godere dell’arte, interpretare il nostro tempo e comprenderne i cambiamenti, instaurare relazioni tra pari, condurre l’esistenza libera e dignitosa che la Costituzione intende assicurare ad ogni cittadino. La scuola è il luogo dove si rende effettivo il pieno sviluppo della persona umana e non un ufficio di collocamento, con buona pace delle imprese che a quel pieno sviluppo, a quella consapevolezza, preferiscono l’ignoranza: prima condizione di ricattabilità dell’individuo e del lavoratore e garanzia di sottomissione e ubbidienza. Non significa che non si possano immaginare percorsi di studio fuori dalle aule scolastiche e nei luoghi di lavoro, a contatto con i lavoratori: «Ho fatto un sondaggio tra i miei studenti in alternanza», raccontava Christian Raimo, insegnante e scrittore, a una presentazione del suo prezioso libro Tutti i banchi sono uguali. «La metà degli studenti pensa che lo sciopero sia illegale». Prima di mandarli a friggere patatine, insegniamo agli studenti quali sono i diritti di chi frigge patatine. Insegniamo loro chi ha conquistato quei diritti, a quale prezzo. Accertiamoci che lo sappiano, una volta che avranno in mano un diploma e andranno a fare un colloquio di lavoro.

Francesca Fornario
Il Fatto Quotidiano
Digiuni di geografia Ignoranti in storia
di Beppe Severgnini

L a scuola pubblica italiana ha molti meriti, ma si trova di fronte a un ostacolo impegnativo. E, come un cavallo stanco, rischia una caduta rovinosa. L'ostacolo sono le informazioni a portata di tutti, grazie a un telefono. Ma informazione non vuol dire conoscenza. Tra l'una e l'altra sta una cosa importante. Si chiama comprensione.
Scelgo due materie che considero fondamentali: geografia e storia. Se non sappiamo dove stanno i luoghi e le persone, non siamo in grado di parlarne. Se non conosciamo cos'è successo alle persone in quei luoghi, rischiamo di dire sciocchezze e fare idiozie. Per ora siamo nella Fase 1 (sciocchezze), e c'è tempo di recuperare. La Fase 2 (idiozie) potrebbe essere irreversibile.  
L'ignoranza della geografia non ha coinciso con l'avvento dello smartphone (2007). Da almeno quindici anni gli studenti italiani venivano privati di informazioni quali: confini, capitali, città principali, pianure, montagne, fiumi, laghi. Non so come sia accaduto, se sia colpa di programmi concentrati su aspetti socioeconomici o di docenti incoscienti. Ma rimango traumatizzato quando capisco che un giovane laureato confonde l'Oceano Indiano col Pacifico, ignora i confini della Germania e non sa indicare le regioni che s'attraversano per andare da Trieste a Trapani. Mio padre, classe 1917, a novantanove anni era in grado di rispondere. Non aveva Google Maps, ma era cresciuto con un atlante sul tavolo.  
Con la storia va peggio, e le conseguenze sono più gravi. Se n'è occupato, sul numero di «7 » in edicola, Gian Antonio Stella, convinto che l'ignoranza in materia sia ormai una piaga sociale. «Incidenti» (virgolette) come la bandiera del Reich appesa in caserma dal carabiniere fiorentino non si possono spiegare altrimenti, scrive. Stella si rivolge alla ministra Valeria Fedeli e le chiede: non è il caso di rimettersi a studiare la storia? Mi associo, e aggiungo: di questo dovrebbe occuparsi un governo, non dello smartphone in classe. Un telefono, per quanto sofisticato, è uno strumento. Lo scopo resta quello di imparare.  
Ho appena visto a teatro Una giornata particolare di Ettore Scola, interpretato da Giulio Scarpati e Valeria Solarino, regia di Nora Venturini. Quella giornata ha una data precisa: venerdì 6 maggio 1938. Ottant'anni fa Hitler e Mussolini — piccoli, impettiti e tronfi — vennero accolti dai giovani italiani come rockstar. Ecco, vediamo che non accada più niente del genere.