Questa la storia che racconta Alessandro Paola, 24 anni
«Mi licenzio. Ho pensato a lungo prima di pronunciare ad alta voce questa parola, nel 2017.
Ho lavorato per quasi un anno come barista in una caffetteria storica
nel centro di una piccola cittadina lombarda. Ottimo ambiente, coi
datori di lavoro e coi colleghi. Il mio problema era lo stipendio che,
per quanto mi permettesse di vivacchiare, non mi consentiva di pensare
al futuro. Decido di fare un colloquio per un noto marchio d'abbiglia
mento italiano. L'offerta sembra ottima. Supero il colloquio, inizio il
lavoro. Il primo giorno mi vengono illustrate alcune regole basilari,
del tipo: è vietato instaurare rapporti d'amicizia con i colleghi; è
vietato perdersi in chiacchiere con i clienti; se non per esigenze
eccezionali è vietato andare ai servizi durante le ore di lavoro, ci si
va nei 10 minuti di pausa, rigorosamente timbrati, concessi solo con un
minimo di 6 ore di lavoro giornaliere. È vietato bere un caffè nella
pausa concessa, dato che l'azienda non dispone di macchinette.
Per quanto riguarda l'operato specifico, nel mio caso cassiere e
commesso, le regole sono: è vietato lasciare il posto di lavoro entro
il turno stabilito senza prima aver svuotato gli appositi carrelli
carichi di merce usata durante la giornata, il tutto solamente dopo
aver timbrato, evitando così di andare in straordinario. Per farla
breve, hai finito la tua giornata? Prima timbra la tua uscita poi
svuota il carrello e riordina e vai a casa. In cassa sei pregato di
chiedere sempre la moneta contante. La sede paga le banche per farsi
cambiare i soldi e deve dare dei preavvisi, procedure lunghe che la
direzione vuole evitare. È inoltre vietato avere ammanchi o eccedenze,
operazioni che vengono verbalizzate.
Un verbale corrisponde a una nota negativa che farà parte del giudizio
finale quando si deciderà del rinnovo contrattuale. Hai un centesimo in
meno a fine giornata? Verbale. Hai due centesimi in più perché il
cliente non li ha voluti di resto? Verbale. Motivazione? Resto errato.
Attento inoltre a non salutare con troppa confidenza alcuni conoscenti.
Pena una lettera di richiamo. Quindi scusa ragazzo che venivi sempre da
me a bere il caffè: se non chiamo un collega a servirti al mio posto,
onde evitare favoritismi di non solo quale tipo, verrò richiamato.
Perché solo dopo sei ore posso utilizzare il bagno? Perché devo vivere
con ansie mai avute prima, col terrore di aver piegato male una
maglietta, di aver salutato un conoscente? Perché non devo fare
amicizia con una collega simpatica quando il mio stesso capo è la
migliore amica di un'altra collega. Perché mi lamento così tanto,
direte voi? Quando c'è gente che un lavoro non ce l'ha o deve
sottostare a regole peggiori delle mie? Perché ho 24 anni. A queste
regole io non ci sto. Me ne vado, per fortuna al bar mi riprendono.
Guadagnerò molto meno, ma racconterò una barzelletta ogni tanto,
rispetterò il prossimo se mi rispetterà. Siamo esseri umani, non siamo
macchine. Il lavoro è importante, ma anche la nostra vita. Non dobbiamo
sempre subire, non dobbiamo per forza adattarci a tutto. Lavoriamo ma
non dimentichiamoci di rispettarci».
Il bullismo e la rete responsabile
CaroAugias, guardando il video girato dalla mamma di Keaton, il bambino
americano che in lacrime le dice di essere bullizzato dai suoi
compagni, mi è tornato in mente un episodio della mia giovinezza.
Facevo la prima media, un mio compagno di classe aveva problemi
psicologici Per noi era solo bu ffo, lo prendevamo in giro ridendo
delle sue reazioni. Un giorno era assente e l'insegnante di scienze ci
disse: sapete ragazzi che essere presi in giro dalla classe fa molto
soffrire. Soprattutto se come il vostro compagno si hanno problemi che
sono vere e proprie malattie chefanno stare male, una specie di febbre
dei pensieri. Passammo un 'ora a parlare di lui, di noi, a dire che non
sapevamo che soffrisse, che non lo facevamo per cattiveria, ma solo per
ridere.
L 'insegnante non ci sgridò mai, ci ascoltava, lasciava che ognuno
dicesse la sua. Alla fine, scese su di noi una sana sensazione di
vergogna, tristezza, silenzio. Lei invece sorrise e disse: ragazzi non
dovete essere tristi ma allegri, perché oggi avete capito una cosa
importante: come aiutare un vostro amico. Era
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Welfare costoso ma insoddisfacente
di Danilo Taino
L'Italia ha una delle spese sociali più alte d'Europa, quasi un terzo
del Prodotto interno lordo. Perché dunque tra i cittadini c'è una
diffusa insoddisfazione per come il Welfare State funziona?
Probabilmente la ragione sta nel fatto che è tra i Paesi che allocano
questi fondi in modo più eccentrico, molto diverso da quanto fa la
maggioranza dei 28 della Ue. Per esempio, gran parte va alle pensioni e
quasi nulla alle politiche per la casa e alle misure per contrastare
l'esclusione sociale. Secondo Eurostat (l'agenzia statistica europea),
l'Italia destina l'equivalente del 30% del Pil agli interventi sociali
(dato 2015 in crescita rispetto al 28,9% del 2010 ): superata solo da
Francia ( 33,9% ), Danimarca ( 32,3% ), Finlandia ( 31,6% ), Austria (
30,2% ) e Olanda ( 30,2% ). Sopra la media della Ue, che è del 29% . Se
si guarda come questi fondi vengono utilizzati si nota che il 58,3% di
essi va alle pensioni (comprese quelle ai superstiti). È la quota più
alta dopo quella della Grecia ( 65,4% ), pari a quella del Portogallo.
La media Ue è il 45,2% , la Francia è al 45,6% . In compenso, mentre
nella Ue si destina in media il 4,1% alle politiche per la casa e agli
interventi sull'esclusione sociale, in Italia a queste voci va solo lo
0,9% del totale della spesa sociale (sempre dati 2015 ): è la quota più
bassa anche in questo caso dopo quella della Grecia ( 0,6% ) e
dell'Estonia ( 0,7% ). Pure la spesa per la Sanità e per il sostegno ai
disabili è molto più bassa della media europea: 28,9% contro 37,3% .
Meno risorse alla Sanità dedicano solo Cipro ( 25,5% ) e la Grecia (
25,9% ) che d'altra parte destina più di due terzi della spesa sociale
alle pensioni e quindi rimane con ben poco per il resto. Non cambia
molto se si considerano gli interventi per le famiglie e i figli:
l'Italia alloca a queste politiche il 6% della spesa per il welfare
contro la media europea dell' 8,6% : meno vi investono l'Olanda ( 3,9%
, che però ha notevoli interventi sulla casa), la Grecia ( 4,1% ), il
Portogallo ( 4,7% ) e la Spagna ( 5,3% ). L'unica voce italiana che
supera la media europea, a parte quella per le pensioni, riguarda il
sostegno alla disoccupazione: 5,9% contro il 4,8% , ma ovviamente non è
qualcosa di cui rallegrarsi. Dalla comparazione europea risulta
evidente che le politiche sociali italiane andrebbero profondamente
riviste: nonostante costi parecchio, così com'è il Welfare State
italiano è
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Il
freddo ragionamento di Taino appare di una logica indiscutibile invece
non è così. Non è errato o peggio fasullo ma questo ragionamento si
potrebbe fare SE tutti i sistemi fossero regolati al medesimo modo. Non
è così. Per esempio le pensioni nascono in parte dai contributi versati
al momento dai lavoratori attivi e in parte dai contributi versati al
suo tempo dal datore di lavoro e dagli stessi lavoratori.
Un tempo i dipendenti pubblici avevano un sistema pensionistico
(InpdaP) separato dall’INPS che è stato unificato dal decreto «salva
Italia» del governo Monti-Fornero a dicembre 2012. Il fatto è che gli
enti pubblici avevano versato all’Inpdap «solo» i contributi trattenuti
ai dipendenti pubblici e non avevano versato quelli degli enti pubblici
come datori di lavoro. La motivazione del mancato versamento della
quota del datore pubblico di lavoro stava in una ragione doppia. Era un
modo affinchè gli enti pubblici disponessero di maggiori risorse (ovvie
ragioni....) ragionando sul fatto che tanto vale-valeva spostare
l’eventuale debito pubblico (per pagare le pensioni) al momento delle
erogazioni anziché prima per accantonare somme dentro l’InPdap. Così la
scelta del governo Monti& Fornero che in base al decreto «salva
Italia» avrebbe dovuto far risparmiare almeno 20 milioni fin dal
primo anno in realtà per colpa dell'Inpdap che, entrando
nell'Inps, scarica sul bilancio ben 10,2 miliardi di euro di disavanzo
patrimoniale e quasi 5,8 miliardi di euro di passivo per l'esercizio
2012. Lo si legge nella nota di assestamento al bilancio 2012
dell'Inps.
Non solo. L’articolo di Taino è sbagliato perché fare il solo confronto
percentuale della spesa rispetto al PIL è macroscopico errore. Un paese
che abbia 1000 di PIL se spende il 10% ne spende 100 mentre se ha 2000
di PIL e ne spende il 9% in realtà spende 180. Ora i paesi dentro l’UE
hanno popolazione e PIL talmente differenti che raffrontare le sole %
è....
Sarebbe più corretto stabilire un costo della vita parificato paese per
paese vale a dire: una famiglia tipo per vivere con un dato tenore ha
bisogno di tot euro che saranno maggiori in Italia o Germania e saranno
assai minori in Polonia o Romania. A questo punto si scrive a quanto
ammontano le spese procapite nei vari contenuti dell’welfare e così si
da esattamente un significato veritiero al ragionamento.
Dare semplicemente delle % sul PIL è dare davvero i... numeri!
C’è un ulteriore passo da fare.
L’welfare di un paese è composto da mille voci ma mentre tutte le spese
entrano nel conteggio del PIL in concreto p.e. mentre le erogazioni ai
cittadini da parte dell’INPS si calcolano pro capite invece non si
calcola per nulla quanto spendono i comuni per welfare: dal piano del
diritto allo studio al mantenimento delle scuole agli aiuti ai
disoccupati studenti affamati senza casa fino al mantenimento
degli anziani nei ricoveri ecc. ecc..
A fronte di tutto questo c’è che nel bilancio INPS ci sono anche le
pensioni sociali e di invalidità che con la pensione (da lavoro)
c’entrano nulla.
Resta comunque un fatto: che in Italia la spesa sociale é soprattutto
una distribuzione clientelare a fini di consenso politico, sia quella
centrale che quella periferica. Purtroppo l’Italia inciucista e
pensionata non vuole che si riordini il sistema anche perché quando un
Monti& Fornero unificano INPS+Inpdap senza sapere che lo stato era
il primo evasore c
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