MILANO
Mini-contratti da pochi giorni
I lavori precari del commercio
Dai camerieri alle colf: nel 2016 a termine il 99% delle assunzioni
Precari a tempo indeterminato. Potrebbe essere questo ossimoro a
definire la vita di molti lavoratori del settore del commercio. Perché
a Milano, nel 2016, nel terziario 80 contratti su cento hanno avuto
durata da uno a dieci giorni e quelli che hanno superato l'anno sono
soltanto lo 0,25 per cento.
I dati che fotografano la realtà del comparto che — secondo i manuali
di Storia economica — ha preso il posto dell'industria nel trainare
l'economia ambrosiana, emergono da una ricerca realizzata
dall'università Statale per la Filcams, la sigla della Cgil che
rappresenta i lavoratori del commercio. Sotto osservazione sono finiti
i 116.475 avviamenti al lavoro segnalati ai centri per l'impiego della
Città metropolitana dalle imprese con meno di 15 dipendenti. Si tratta,
dunque, in buona parte di occupati nel commercio al dettaglio (39,4 per
cento), di lavoratori domestici (23,5), di addetti a bar e ristoranti
(14,2) o di portinai, addetti alle pulizie e alla manutenzione dei
giardini negli edifici (11,3). All'interno di questo mondo, secondo i
dati elaborati dal gruppo di ricerca della Statale, più della metà dei
contratti (55,3 per cento) sono a tempo determinato, l'altra fetta
consistente riguarda i rapporti di lavoro domestico (43,6), mentre il
tempo indeterminato rappresenta una quota minima (1,01 per cento).
Per quanto riguarda la durata dei singoli contratti i numeri sono
eloquenti: nel 38 per cento dei casi (36.533 avviamenti) durano un solo
giorno e se a questi si sommano i 40.727 contratti da 10 giorni si
raggiunge l'80 per cento dei rapporti di lavoro del 2016. Aggiungendo i
9.622 contratti da 1 mese si arriva al 90 per cento del totale e con i
7.200 accordi semestrali e 1.354 annuali si raggiunge il 99,75 per
cento. Quindi, l'anno scorso, tra commercio e servizi, le imprese con
meno di 15 dipendenti dell'area metropolitana di Milano hanno offerto
soltanto 235 contratti (0,25 per cento) con durata superiore ai 365
giorni. va da sé, quindi, che in molti casi quei contratti siano stati
sottoposti alla firma dello stesso lavoratore, che nell'arco di un anno
può arrivare a sommarne qualche decina, spesso co lo stesso datore di
lavoro, per lo stesso tipo di attività.
«È evidente che si tratta di rapporti di lavoro che hanno tutte le
caratteristiche della continuità — spiega il professor Luciano Fasano,
docente di Istituzioni politiche e processi decisionali alla Statale —
e quindi che attraverso queste forme contrattuali avviene la
precarizzazione di lavori sostanzialmente stabili. E pur vivendo
situazioni molto diverse presentano profili contrattuali molto simili».
In questo scenario, almeno sotto il profilo della durata contrattuale
media, appaiono più fortunati i lavoratori domestici (in prevalenza
stranieri) rispetto a commessi, camerieri, baristi e portinai. Ma per
il sindacato resta molto complicato offrire risposte che vadano oltre
la tutela individuale. «Si tratta di lavoratori estremamente
ricattabili — sottolinea Marco Beretta, segretario generale della
Filcams Cgil di Milano — che se reclamano i propri diritti rischiano di
essere allontanati. Ma in molti casi, per esempio nel settore
dell'abbigliamento — aggiunge il sindacalista —, le aziende esigono una
rotazione di “facce nuove” a prescindere, quindi esigono la massima
flessibilità e disponibilità». E come si vive con un contratto che
scade al massimo tra dieci giorni? «In sospeso, te la puoi cavare
finché sei giovane e magari lavori per pagarti gli studi — spiega
Beretta — dopodiché ci si ritrova a vivere alla giornata, senza
prospettive».
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(...)
L’introduzione del REI è particolarmente importante perché il resto
della spesa sociale italiana – quella destinata a combattere la
povertà, per cui spendiamo ogni anno più di 70 miliardi di euro – versa
in uno stato disastroso. È una situazione conosciuta e studiata dagli
esperti, che da decenni chiedono che l’intero sistema sia sottoposto a
una riforma complessiva. Le critiche che sono state fatte in questi
anni sono state spesso estremamente severe. La sociologa Chiara
Saraceno, per esempio, ha scritto su laVoce.info: «Si tratta di uno dei
sistemi più frammentati, più pieni di buchi, più esposti a
manipolazioni e imbrogli tra quelli europei». “Frammentato”, in questo
caso, è la parola chiave. Per capire cosa significa basta dare uno
sguardo alla tabella che riassume le principali voci di spesa per la
politica sociale e contrasto alla povertà, elaborata da Emanuele Ranci
Ortigosa e Daniela Mesini, due ricercatori dell’Istituto per la Ricerca
Sociale, nell’articolo “Costruiamo il Welfare dei Diritti: ridefinire
le politiche sociali su criteri di equità ed efficacia”, pubblicato
sulla rivista Prospettive Sociali e Sanitarie.
Quello che è chiaro è chi eroga e dove va il grosso di questa spesa:
l’80 per cento viene pagato dall’INPS ad anziani, invalidi e persone
che hanno una storia contributiva alle spalle (cioè che hanno lavorato
e messo da parte contributi).
L’Italia, infatti, ha una spesa sociale che per dimensioni è
paragonabile a quella degli altri grandi paesi europei, ma che è molto
sbilanciata a favore delle pensioni e degli anziani in generale.
Secondo l’ultimo rapporto pubblicato dall’OCSE, per ogni 100 euro spesi
nella protezione sociale, 64,3 sono rivolti alla popolazione anziana,
sotto forma soprattutto di spesa per pensioni, mentre la media dei
paesi OCSE è di 11 euro inferiore: 53,5 (a questa situazione
probabilmente non è estraneo il fatto che l’Italia ha i sindacati dei
pensionati più forti del mondo). La spesa per combattere la
disoccupazione vale il 5,5 per cento della spesa sociale (contro una
media OCSE del 7, la Germania 9,2 e la Spagna addirittura 11,8). La
lotta all’esclusione sociale impegna appena l’1,2 per cento della spesa
sociale, cioè circa un quinto di quanto si spende nei paesi più
avanzati. Per case popolari e abitazioni, poi, in Italia
sostanzialmente non si spendono soldi: l’OCSE conteggia appena il 2 per
mille della spesa sociale in Italia contro il 2,6 per cento degli altri
paesi sviluppati.
Ma il problema dell’Italia non è soltanto una bassa spesa per
assistenza sociale, è anche una spesa usata male. Uno dei difetti
principali del sistema è che i vari strumenti di contrasto alla povertà
che abbiamo visto prima vengono erogati sulla base di requisiti
diversi. Alcuni utilizzano l’ISEE (un indicatore economico che si usa
per valutare la situazione economica dei nuclei familiari), altri
utilizzano il reddito del singolo richiedente della misura, altri
ancora il reddito del nucleo familiare; altri ancora, come gli assegni
per la non autosufficienza, sono erogati senza nessuna considerazione
sulla situazione economica della persona che li riceve. Secondo i
calcoli dell’IRS, il 20 per cento delle famiglie più povere (secondo
l’indicatore ISEE) riceve soltanto il 35 per cento della spesa sociale.
«Queste categorie molto povere dovrebbero ricevere almeno l’80 per
cento dell’assistenza» spiega Mesini al Post.
Un’altra caratteristica del sistema italiano è che è altamente
centralizzato. Dei 72 miliardi spesi per l’assistenza sociale (escluse
quindi le pensioni vere e proprie) solo 7 miliardi di euro su 72
vengono erogati dagli enti locali. «I comuni sono gli enti più vicini
al bisogno, più sensibili e più in grado di governare gli aiuti in
maniera efficiente», spiega Mesini: «In un sistema più efficiente la
quota degli aiuti che distribuiscono dovrebbe essere più alta». Questa
situazione è in parte il prodotto di successive “stratificazioni
normative”: leggi che sono andate ad accumularsi negli anni senza un
chiaro progetto. Questo ha prodotto situazioni apparentemente
inspiegabili.
Infine, un altro problema è che i legislatori italiani hanno sempre
preferito percorrere la strada più semplice per aiutare i più poveri, e
cioè dargli dei soldi. Esperti e accademici concordano nel dire che i
trasferimenti monetari sono soltanto una parte della lotta alla
povertà. Accanto alle integrazioni al reddito sono necessarie politiche
attive di contrasto alla povertà: corsi di formazione, centri per
l’impiego e di collocamento, edilizia popolare. Ma l’assistenza sociale
italiana è basata quasi esclusivamente sui trasferimenti monetari: su
72 miliardi di euro soltanto 10 vengono spesi in servizi, il resto sono
trasferimenti diretti oppure detrazioni fiscali. E questo può essere un
problema, soprattutto quando le risorse sono scarse. Facciamo l’esempio
del nuovo REI, che nel caso di una famiglia di quattro persone può
arrivare fino a 485 euro. È praticamente impossibile che chi si trova
in uno stato di grave povertà possa far fronte alle esigenze di una
famiglia numerosa
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Jerusalem
Al-Monitor Staff December 7, 2017
ARTICLE SUMMARY
Some Iranian media outlets believe that Trump’s decision to recognize
Jerusalem as Israel’s capital will make forming resistance groups
easier.
REUTERS/Kevin Lamarque
After signing, US President Donald Trump holds up the proclamation that
the United States recognizes Jerusalem as the capital of Israel and
will move its embassy there, during an address from the White House in
Washington, Dec. 6, 2017.
Iran’s Supreme Leader Ayatollah Ali Khamenei and President Hassan
Rouhani have both condemned US President Donald Trump's move to
recognize Jerusalem as Israel’s capital. Their condemnations were to be
expected. However, they did not offer a window into how Iran would
likely respond to such a move. At moments like these, it is helpful to
study the reaction of influential analysts, who will write and speak
with more details.
Sa’adollah Zaeri, an analyst who often writes for hard-line Kayhan
newspaper and is believed to be linked ideologically to the Islamic
Revolutionary Guard Corps (IRGC), wrote that Trump’s decision to
recognize Jerusalem as Israel’s capital has certain advantages. “This
situation in reality under these conditions makes Iran’s work in
forming a resistance front with a focus on defending Palestine easier,”
Zaeri wrote in Tasnim News Agency.
One of the biggest groups that Iran has helped form in the Middle East
is the Lebanese group Hezbollah. The deputy secretary-general of
Hezbollah, Naim Qassem, presented a similar analysis as Zaeri. “America
has made clear what it has always hidden,” Qassem said of Trump’s move
on Jerusalem. “Now, the option of resistance must be supported at
various levels.” He continued, “South Lebanon was freed through
resistance, and it became clear that Israel can be defeated.”
Fars News Agency published a list of Palestinian condemnations in
reaction to Trump’s decision on Jerusalem. The first two groups on the
list were Hamas and Islamic Jihad, two groups Iran has supported
militarily. Although Iran had a falling out with Hamas over differences
involving the civil war in Syria, Iran has maintained contact with the
group. In their statements, Hamas and Islamic Jihad both echoed similar
statements by Iranian officials saying that the move has removed any
doubt about US impartiality regarding the Israel-Palestine issue. Ahmad
Al Mudallal, a member of Islamic Jihad, which has stronger ties to Iran
than Hamas, called on the Palestinian Authority to end peace
negotiations being mediated by the United States, saying, “America
cannot establish peace in the world because it is the cause of
instability in the region.”
Iran has had success in setting up armed groups throughout the Middle
East, particularly in Syria and Iraq, in recent years. Iran’s support
for Palestinian groups, however, dates back to the early days of the
1979 Islamic Revolution and has continued to varying degrees since.
The idea of “resistance” is often in reference to American and Israeli
hegemony and their regional allies. It still has a strong resonance
with conservatives and hard-liners, particularly the IRGC, which favors
countering US influence rather than compromising. For instance, neither
Rouhani, Vice President Eshaq Jahangiri, Secretary of the Supreme
National Security Council Ali Shamkhani nor the Ministry of Foreign
Affairs statement referenced “resistance” in their condemnations of
Trump’s decision.
There was also heavy social media reaction. Many Iranians joined Arab
users with the Arabic-language hashtag “Jerusalem is ours” and “Quds.”
Javan Online, which is linked to the IRGC, headlined an article “Trump
has opened the doors of hell to Israel.” The article, which contained
world reactions to Trump's announcement, began, “A Middle East after
Daesh [Islamic State] apparently will not see calm.”
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