schermata 1900 pixels












































             L'articolo sui contratti a Milano é di Gianpiero Rossi
          L'articolo completo sull'welfare italino lo trovate qui: http://www.ilpost.it/2017/12/09/rei-protezione-sociale-italia/




MILANO
Mini-contratti da pochi giorni
I lavori precari del commercio
Dai camerieri alle colf: nel 2016 a termine il 99% delle assunzioni

Precari a tempo indeterminato. Potrebbe essere questo ossimoro a definire la vita di molti lavoratori del settore del commercio. Perché a Milano, nel 2016, nel terziario 80 contratti su cento hanno avuto durata da uno a dieci giorni e quelli che hanno superato l'anno sono soltanto lo 0,25 per cento.
I dati che fotografano la realtà del comparto che — secondo i manuali di Storia economica — ha preso il posto dell'industria nel trainare l'economia ambrosiana, emergono da una ricerca realizzata dall'università Statale per la Filcams, la sigla della Cgil che rappresenta i lavoratori del commercio. Sotto osservazione sono finiti i 116.475 avviamenti al lavoro segnalati ai centri per l'impiego della Città metropolitana dalle imprese con meno di 15 dipendenti. Si tratta, dunque, in buona parte di occupati nel commercio al dettaglio (39,4 per cento), di lavoratori domestici (23,5), di addetti a bar e ristoranti (14,2) o di portinai, addetti alle pulizie e alla manutenzione dei giardini negli edifici (11,3). All'interno di questo mondo, secondo i dati elaborati dal gruppo di ricerca della Statale, più della metà dei contratti (55,3 per cento) sono a tempo determinato, l'altra fetta consistente riguarda i rapporti di lavoro domestico (43,6), mentre il tempo indeterminato rappresenta una quota minima (1,01 per cento).
Per quanto riguarda la durata dei singoli contratti i numeri sono eloquenti: nel 38 per cento dei casi (36.533 avviamenti) durano un solo giorno e se a questi si sommano i 40.727 contratti da 10 giorni si raggiunge l'80 per cento dei rapporti di lavoro del 2016. Aggiungendo i 9.622 contratti da 1 mese si arriva al 90 per cento del totale e con i 7.200 accordi semestrali e 1.354 annuali si raggiunge il 99,75 per cento. Quindi, l'anno scorso, tra commercio e servizi, le imprese con meno di 15 dipendenti dell'area metropolitana di Milano hanno offerto soltanto 235 contratti (0,25 per cento) con durata superiore ai 365 giorni. va da sé, quindi, che in molti casi quei contratti siano stati sottoposti alla firma dello stesso lavoratore, che nell'arco di un anno può arrivare a sommarne qualche decina, spesso co lo stesso datore di lavoro, per lo stesso tipo di attività.
«È evidente che si tratta di rapporti di lavoro che hanno tutte le caratteristiche della continuità — spiega il professor Luciano Fasano, docente di Istituzioni politiche e processi decisionali alla Statale — e quindi che attraverso queste forme contrattuali avviene la precarizzazione di lavori sostanzialmente stabili. E pur vivendo situazioni molto diverse presentano profili contrattuali molto simili».
In questo scenario, almeno sotto il profilo della durata contrattuale media, appaiono più fortunati i lavoratori domestici (in prevalenza stranieri) rispetto a commessi, camerieri, baristi e portinai. Ma per il sindacato resta molto complicato offrire risposte che vadano oltre la tutela individuale. «Si tratta di lavoratori estremamente ricattabili — sottolinea Marco Beretta, segretario generale della Filcams Cgil di Milano — che se reclamano i propri diritti rischiano di essere allontanati. Ma in molti casi, per esempio nel settore dell'abbigliamento — aggiunge il sindacalista —, le aziende esigono una rotazione di “facce nuove” a prescindere, quindi esigono la massima flessibilità e disponibilità». E come si vive con un contratto che scade al massimo tra dieci giorni? «In sospeso, te la puoi cavare finché sei giovane e magari lavori per pagarti gli studi — spiega Beretta — dopodiché ci si ritrova a vivere alla giornata, senza prospettive».
(...) L’introduzione del REI è particolarmente importante perché il resto della spesa sociale italiana – quella destinata a combattere la povertà, per cui spendiamo ogni anno più di 70 miliardi di euro – versa in uno stato disastroso. È una situazione conosciuta e studiata dagli esperti, che da decenni chiedono che l’intero sistema sia sottoposto a una riforma complessiva. Le critiche che sono state fatte in questi anni sono state spesso estremamente severe. La sociologa Chiara Saraceno, per esempio, ha scritto su laVoce.info: «Si tratta di uno dei sistemi più frammentati, più pieni di buchi, più esposti a manipolazioni e imbrogli tra quelli europei». “Frammentato”, in questo caso, è la parola chiave. Per capire cosa significa basta dare uno sguardo alla tabella che riassume le principali voci di spesa per la politica sociale e contrasto alla povertà, elaborata da Emanuele Ranci Ortigosa e Daniela Mesini, due ricercatori dell’Istituto per la Ricerca Sociale, nell’articolo “Costruiamo il Welfare dei Diritti: ridefinire le politiche sociali su criteri di equità ed efficacia”, pubblicato sulla rivista Prospettive Sociali e Sanitarie.
Quello che è chiaro è chi eroga e dove va il grosso di questa spesa: l’80 per cento viene pagato dall’INPS ad anziani, invalidi e persone che hanno una storia contributiva alle spalle (cioè che hanno lavorato e messo da parte contributi).
L’Italia, infatti, ha una spesa sociale che per dimensioni è paragonabile a quella degli altri grandi paesi europei, ma che è molto sbilanciata a favore delle pensioni e degli anziani in generale. Secondo l’ultimo rapporto pubblicato dall’OCSE, per ogni 100 euro spesi nella protezione sociale, 64,3 sono rivolti alla popolazione anziana, sotto forma soprattutto di spesa per pensioni, mentre la media dei paesi OCSE è di 11 euro inferiore: 53,5 (a questa situazione probabilmente non è estraneo il fatto che l’Italia ha i sindacati dei pensionati più forti del mondo). La spesa per combattere la disoccupazione vale il 5,5 per cento della spesa sociale (contro una media OCSE del 7, la Germania 9,2 e la Spagna addirittura 11,8). La lotta all’esclusione sociale impegna appena l’1,2 per cento della spesa sociale, cioè circa un quinto di quanto si spende nei paesi più avanzati. Per case popolari e abitazioni, poi, in Italia sostanzialmente non si spendono soldi: l’OCSE conteggia appena il 2 per mille della spesa sociale in Italia contro il 2,6 per cento degli altri paesi sviluppati.
Ma il problema dell’Italia non è soltanto una bassa spesa per assistenza sociale, è anche una spesa usata male. Uno dei difetti principali del sistema è che i vari strumenti di contrasto alla povertà che abbiamo visto prima vengono erogati sulla base di requisiti diversi. Alcuni utilizzano l’ISEE (un indicatore economico che si usa per valutare la situazione economica dei nuclei familiari), altri utilizzano il reddito del singolo richiedente della misura, altri ancora il reddito del nucleo familiare; altri ancora, come gli assegni per la non autosufficienza, sono erogati senza nessuna considerazione sulla situazione economica della persona che li riceve. Secondo i calcoli dell’IRS, il 20 per cento delle famiglie più povere (secondo l’indicatore ISEE) riceve soltanto il 35 per cento della spesa sociale. «Queste categorie molto povere dovrebbero ricevere almeno l’80 per cento dell’assistenza» spiega Mesini al Post.
Un’altra caratteristica del sistema italiano è che è altamente centralizzato. Dei 72 miliardi spesi per l’assistenza sociale (escluse quindi le pensioni vere e proprie) solo 7 miliardi di euro su 72 vengono erogati dagli enti locali. «I comuni sono gli enti più vicini al bisogno, più sensibili e più in grado di governare gli aiuti in maniera efficiente», spiega Mesini: «In un sistema più efficiente la quota degli aiuti che distribuiscono dovrebbe essere più alta». Questa situazione è in parte il prodotto di successive “stratificazioni normative”: leggi che sono andate ad accumularsi negli anni senza un chiaro progetto. Questo ha prodotto situazioni apparentemente inspiegabili.
Infine, un altro problema è che i legislatori italiani hanno sempre preferito percorrere la strada più semplice per aiutare i più poveri, e cioè dargli dei soldi. Esperti e accademici concordano nel dire che i trasferimenti monetari sono soltanto una parte della lotta alla povertà. Accanto alle integrazioni al reddito sono necessarie politiche attive di contrasto alla povertà: corsi di formazione, centri per l’impiego e di collocamento, edilizia popolare. Ma l’assistenza sociale italiana è basata quasi esclusivamente sui trasferimenti monetari: su 72 miliardi di euro soltanto 10 vengono spesi in servizi, il resto sono trasferimenti diretti oppure detrazioni fiscali. E questo può essere un problema, soprattutto quando le risorse sono scarse. Facciamo l’esempio del nuovo REI, che nel caso di una famiglia di quattro persone può arrivare fino a 485 euro. È praticamente impossibile che chi si trova in uno stato di grave povertà possa far fronte alle esigenze di una famiglia numerosa
Jerusalem
Al-Monitor Staff December 7, 2017

ARTICLE SUMMARY
Some Iranian media outlets believe that Trump’s decision to recognize Jerusalem as Israel’s capital will make forming resistance groups easier.
 REUTERS/Kevin Lamarque
After signing, US President Donald Trump holds up the proclamation that the United States recognizes Jerusalem as the capital of Israel and will move its embassy there, during an address from the White House in Washington, Dec. 6, 2017.
Iran’s Supreme Leader Ayatollah Ali Khamenei and President Hassan Rouhani have both condemned US President Donald Trump's move to recognize Jerusalem as Israel’s capital. Their condemnations were to be expected. However, they did not offer a window into how Iran would likely respond to such a move. At moments like these, it is helpful to study the reaction of influential analysts, who will write and speak with more details.
Sa’adollah Zaeri, an analyst who often writes for hard-line Kayhan newspaper and is believed to be linked ideologically to the Islamic Revolutionary Guard Corps (IRGC), wrote that Trump’s decision to recognize Jerusalem as Israel’s capital has certain advantages. “This situation in reality under these conditions makes Iran’s work in forming a resistance front with a focus on defending Palestine easier,” Zaeri wrote in Tasnim News Agency.
One of the biggest groups that Iran has helped form in the Middle East is the Lebanese group Hezbollah. The deputy secretary-general of Hezbollah, Naim Qassem, presented a similar analysis as Zaeri. “America has made clear what it has always hidden,” Qassem said of Trump’s move on Jerusalem. “Now, the option of resistance must be supported at various levels.” He continued, “South Lebanon was freed through resistance, and it became clear that Israel can be defeated.”
Fars News Agency published a list of Palestinian condemnations in reaction to Trump’s decision on Jerusalem. The first two groups on the list were Hamas and Islamic Jihad, two groups Iran has supported militarily. Although Iran had a falling out with Hamas over differences involving the civil war in Syria, Iran has maintained contact with the group. In their statements, Hamas and Islamic Jihad both echoed similar statements by Iranian officials saying that the move has removed any doubt about US impartiality regarding the Israel-Palestine issue. Ahmad Al Mudallal, a member of Islamic Jihad, which has stronger ties to Iran than Hamas, called on the Palestinian Authority to end peace negotiations being mediated by the United States, saying, “America cannot establish peace in the world because it is the cause of instability in the region.”
Iran has had success in setting up armed groups throughout the Middle East, particularly in Syria and Iraq, in recent years. Iran’s support for Palestinian groups, however, dates back to the early days of the 1979 Islamic Revolution and has continued to varying degrees since.
The idea of “resistance” is often in reference to American and Israeli hegemony and their regional allies. It still has a strong resonance with conservatives and hard-liners, particularly the IRGC, which favors countering US influence rather than compromising. For instance, neither Rouhani, Vice President Eshaq Jahangiri, Secretary of the Supreme National Security Council Ali Shamkhani nor the Ministry of Foreign Affairs statement referenced “resistance” in their condemnations of Trump’s decision.
There was also heavy social media reaction. Many Iranians joined Arab users with the Arabic-language hashtag “Jerusalem is ours” and “Quds.” Javan Online, which is linked to the IRGC, headlined an article “Trump has opened the doors of hell to Israel.” The article, which contained world reactions to Trump's announcement, began, “A Middle East after Daesh [Islamic State] apparently will not see calm.”