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Farli tardi diventa mai così l'Italia ha perso centomila bambini
L'Istat fotografa un Paese che non riesce a contrastare il calo delle nascite. Aumentano le nozze ma i figli sono sempre di meno
Chiara Saraceno
I primi passi di uscita dalla crisi riaccendono la voglia di sposarsi, spesso ufficializzando una convivenza già in essere. Ma non riescono a contrastare il calo delle nascite, ormai diventato strutturale e in qualche misura irreversibile nel breve- medio periodo. La riduzione della fecondità, in atto ormai da decenni con poche interruzioni, ha infatti progressivamente ridotto la numerosità delle generazioni più giovani, ovvero quelle in grado di procreare. Secondo i dati Istat, quasi tre quarti della differenza nel numero di nascite tra il 2008 e il 2016 (circa 100.000 nati in meno) è dovuta alla modificazione della struttura per età della popolazione femminile. Allo stesso tempo, i giovani, specie se donne, scoraggiate dalle incertezze economiche e da persistenti asimmetrie di genere sia nel mercato del lavoro sia nel lavoro domestico e di cura, rimandano e riducono al minimo le scelte di fecondità. Una sorta di tempesta perfetta: chi è in grado di procreare diminuisce numericamente e per giunta è ostacolato a farlo anche quando lo desidererebbe.
Il tasso di fecondità aveva raggiunto il suo punto più basso (ed uno dei più bassi al mondo) già a metà degli anni Novanta, quindi ben prima della crisi, senza che ciò destasse particolare riflessione a livello delle policies, salvo rituali rimproveri ai giovani « che non vogliono impegnarsi » e in particolare alle donne « egoiste » che anteporrebbero la carriera e l'autonomia economica al lavoro. Rimproveri che glissano (glissavano) — si pensi agli stucchevoli dibattiti sui “ mammoni”, i choosy e simili — sulle difficoltà a trovare un lavoro stabile e ad accedere ad una abitazione senza doversi affidare ai risparmi di famiglia o a mutui ventennali e sulla necessità, per le donne, ad avere un reddito proprio per proteggere sé e i propri figli dal rischio di povertà. La crisi, che ha colpito in modo particolare le opportunità dei giovani nel mercato del lavoro, reso ancora più vulnerabili a licenziamenti più o meno legali le donne che vanno in maternità e ridotto le risorse per i servizi, ha interrotto la piccola ripresa che aveva caratterizzato i primi anni duemila, invertendo di nuovo la tendenza. Ma che altro ci si può aspettare in un paese in cui una donna lavoratrice su 5 è costretta a lasciare il lavoro quando ha un figlio e dove, secondo gli ultimi dati dell'Ispettorato del lavoro, il 78% delle dimissioni “ volontarie” ha riguardato lavoratrici madri, con un aumento, nel 2016, del 45% rispetto all'anno prima di coloro che hanno dichiarato di non farcela a tenere insieme tutto?
Il calo delle nascite riguarda innanzitutto gli italiani. Sta avendo esiti, non solo demografici, drammatici soprattutto al Sud, dove i tassi di fecondità sono ormai stabilmente più bassi che nel Centro-Nord e dove, come ha documentato l'ultimo Rapporto Svimez, i giovani più istruiti hanno ripreso numerosi ad emigrare non solo fuori Italia, ma al Nord. Il veloce invecchiamento della popolazione che sta caratterizzando le regioni meridionali si somma quindi anche ad un depauperamento del capitale umano, ad una perdita di risorse che può rendere ancora più difficile la ripresa in quelle regioni. Il calo delle nascite riguarda anche, sia pure in minor misura, anche gli stranieri, che tradizionalmente hanno un tasso di fecondità più alto. In parte è l'esito di un processo di integrazione culturale, nella misura in cui i migranti tendono ad avere un comportamento più simile a quello del paese di arrivo che a quello di partenza, per quanto riguarda la fecondità. Ma l'entità del calo segnala che la crisi e i suoi effetti di lungo periodo ha colpito anche i migranti, modificandone le aspettative rispetto alle opportunità che vedono per sé e per i figli.
A maggior ragione i loro figli, come i nostri, dovrebbero essere considerati un bene prezioso su cui investire, cui dare riconoscimento e un futuro come membri a tutti gli effetti della nostra società. Senza di loro saremmo ancora più vecchi e poveri di risorse uma
La ripresa non frena la fuga dei giovani
di Federico Fubini
In aumento i ragazzi che si sono trasferiti a Londra. Anche in tempo di Brexit

Se gli anni avessero nomi e non solo dei numeri, il 2017 andrebbe definito quello della doppia velocità: la ripresa accelera, e il numero di italiani che se ne vanno per cercare di farsi una vita all'estero continua a crescere verso livelli mai raggiunti prima. Il ritmo al quale l'economia italiana ha iniziato a produrre nuovi posti di lavoro, per ora, non ha intaccato la voglia dei giovani di voltare le spalle al Paese e andarsene.
Non sarebbe scontato, a giudicare dal mercato del lavoro. Nell'ultimo paio d'anni la velocità di creazione di nuovi posti netti in Italia si sta dimostrando rapida come mai prima: 200 mila in più nell'anno che si è chiuso a giugno scorso, 370 mila in più in quello precedente. In media l'occupazione è aumentata di 550 unità al giorno nell'anno concluso a giugno, di oltre mille nell'anno prima.
Si tratta senz'altro di un primato favorevole. All'inizio della ripresa nel 2014 l'Italia generava due-trecento posti netti al giorno, una velocità a sua volta dieci volte superiore alle medie di lungo periodo dell'ultimo quarantennio. Questa nuova occupazione non composta necessariamente di attività da poche ore alla settimana e sottopagati: il numero medio di ore lavorate non cala, secondo l'Istat, e i nuovi contratti restano abbastanza stabili a poco meno 1.900 euro lordi al mese secondo l'Inps.
Eppure, niente di tutto questo sta fermando i giovani. Per molti di loro resta più attraente l'uscita dal sistema, proprio mentre in Spagna, Portogallo e altri Paesi europei colpiti dalla Grande recessione i deflussi ormai stano scemando. Un segnale recente è arrivato quando il dipartimento del Lavoro di Londra ha pubblicato le cifre sugli stranieri che nell'anno chiuso a giugno 2017 avevano attivato un «National Insurance Number» per vivere e lavorare nel Regno Unito. Fra i principali Paesi europei, solo Italia, Grecia e Bulgaria registrano flussi in aumento rispetto all'anno prima e solo l'Italia (con 60 mila iscrizioni) lo fa fra i grandi Paesi di origine delle migrazioni verso la Gran Bretagna (vedi grafico). Spaventati dalla Brexit o incoraggiati dalla ripresa nei loro Paesi, spagnoli, portoghesi, irlandesi, polacchi, ungheresi o slovacchi fanno tutti segnare crolli a doppia cifra degli afflussi verso il Regno Unito. Ma né l'uscita di Londra dall'Unione Europea, né il rallentamento dell'economia britannica, né l'accelerazione di quella italiana intaccano gli arrivi di italiani.
Si tratta in gran parte di giovani. Destatis, l'ufficio statistico tedesco, nel caso degli italiani in arrivo nel 2016 registra un'età media di trent'anni (meno di 29 per le donne). I più recenti italiani che si stabiliscono in Germania tendono persino a essere più giovani dei loro omologhi greci, portoghesi, polacchi o ungheresi. Come se avessero concluso subito che è meglio non provare neanche davvero a farsi una vita nel proprio Paese di origine.
L'emigrazione italiana verso la Germania nel 2016 segna un rallentamento, ma molto lieve: l'ufficio statistico tedesco registra 50 mila arrivi; sono meno dei 74 mila del 2014, eppure più degli arrivi di italiani del 2012 quando in Italia c'era stata una distruzione netta di oltre 200 mila posti di lavoro. Anche la Svizzera, terza grande destinazione degli emigranti di casa nostra, non riporta continui aumenti: 19 mila nel 2016, che pure è stato l'anno di maggiore creazione di lavoro in Italia da decenni. Secondo l'anagrafe del Viminale gli italiani all'estero sono ormai oltre 5 milioni, due in più che nel 2006 e quasi un decimo della popolazione nazionale. Anche l'ultimo «Migration Outlook» dell'Ocse, il centro studi di Parigi, mostra flussi che continuano a crescere mentre frenano per spagnoli o portoghesi.
La recessione ha scatenato tutto questo, ma la ripresa (per ora) non vi sta ponendo rimedio. Si direbbe che sia la struttura della società italiana e non solo la congiuntura dell'economia a alimentare l'esodo: la ripresa non fa posto ai giovani. Guido Tintori, un ricercatore del centro studi Fieri, indica il basso numero di manager professionali nelle imprese familiari, la bassissima quota di laureati alla guida delle imprese e la chiusura del mondo delle professioni. Questa struttura si dimostra fondamentalmente incompatibile con un'Europa nella quale votare con i piedi e andarsene diventa la scelta più facile del mondo.
Giuliano Pisapia, ex sindaco di Milano e ora leader di Campo Progressista, è stato intervistato da Bianca Berlinguer durante la puntata di ieri del programma di Rai Tre #cartabianca e ha risposto molto duramente a Massimo D’Alema, che aveva tirato in ballo la sua coscienza sulla questione delle alleanze elettorali. Pisapia è da settimane al centro delle trattative tra i molti partiti e movimenti di sinistra per formare un’alleanza in vista delle prossime elezioni e Berlinguer gli ha chiesto di come fossero andate le trattative con MDP, il partito di Pier Luigi Bersani e Massimo D’Alema, che sembra aver escluso di volersi alleare con il Partito Democratico, come invece auspicava Pisapia e come sembrava possibile qualche mese fa.
Berlinguer, in particolare, ha chiesto a Pisapia di commentare una frase di D’Alema, che durante la puntata di ieri di Otto e Mezzo, su La7, lo aveva accusato di aver cambiato lui stesso idea sull’alleanza con il Partito Democratico, dicendo che avrebbe dovuto risponderne alla sua coscienza (intorno al 12esimo minuto della puntata). D’Alema aveva detto:
Io ho sentito Pisapia – come tutti noi – dire in piazza che per ricostruire il centrosinistra occorre una forte discontinuità di contenuti e di leadership e dire che lui si sarebbe alleato con il PD solo a condizione che il PD accettasse le primarie di coalizione. Se poi Pisapia farà tutto il contrario con quello che ha detto è un problema che dovrà risolvere con la sua coscienza, non con me.
Pisapia, a #cartabianca, ha risposto (nel video, dopo 1 ora e 46 minuti):
Lui dovrebbe rispondere alla coscienza degli italiani, quando lui faceva bombardare il Kosovo io ero nei campi profughi del Kosovo. Quindi, riferisco che sulla coscienza D’Alema non dia insegnamenti a nessuno e tantomeno a me.
Pisapia ha fatto riferimento a quando nel 1999 D’Alema, allora presidente del Consiglio, diede l’autorizzazione all’uso dello spazio aereo italiano per le missioni della NATO contro la Serbia di Slobodan Milosevic, che stava conducendo una violenta campagna militare contro le milizie e i civili del Kosovo, una regione serba abitata da una maggioranza di lingua albanese. L’Italia mise a disposizione basi e aerei militari. Dopo circa un mese e mezzo di bombardamenti, la Serbia fu costretta a ritirare le sue truppe e a riconoscere l’indipendenza di fatto del Kosovo.


Il custode delLa Latrina di Nusquamia, tale ing. Claudio Piga di origine sardAgnole ma abduano di Trezzo d'Adda con ascendenze garibaldine in Valcamonica, uno che ha fatto il classico dai preti nell'ex liceo di A. Gramsci, ingegnere laureato al Politecnico di Milano s'è messo a fare il piangina oppure il calimero di turno. E per darsi un briciolo di importanza adotta il suo abituale schema: il travestimento. Quelle che erano le normali disfide tra ragazzini  quando  c'erano ancora le strade sterrate –le battaglie a sassate o col tirasassi tra ragazzi di quartieri diversi-  lui le trasforma  nella lapidazione pratica che è propria di certe religioni non proprio civili ma sempre attuali.
Non si tratta di mistica  mongo identitaria ma di cervello andato in pappamolla-a una certa età può accadere…- soprattutto quando si  pretende di  essere il deposito dell'universale scienza ma non si conosce il prezzo di un chilo di sale.
L'operazione montata dal custode delLa Latrina, l'ing. Claudio Piga è addirittura blasfema vista la differenza tra il giocare e l'uccidere come indicato proprio dalle religioni. Ignorante perché non è vero che basti (e avanzi) la lingua di Dante per esprimere tutto dal momento che proprio la lingua di Dante è nata DOPO la nascita di mille dialetti che li ha in parte riassunti ma non del tutto. Ma tanto vale. Qualche volta oltre leggere l'Utopia di Tommaso Moro vale la pena di dilettarsi de “i ragazzi della via Pal” di Ferenc Molnàr. Magari su youtube ci trova perfino un film. Se da piccolo il custode delLa Latrina di Nusquamia avesse letto quel libro, da adulto sarebbe stato più intelligente nel capire il mondo e come uomo perfino migliore. Ma forse lui leggeva già Le Ore, visto quel che sbologna sulLa Latrina.