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Dunque la legge elettorale omologa Camera e Senato é stata approvata in mezzo al solito gran caos di questo Parlamento. Voteremo con due schede: per la Camera e per il Senato.. Votando il candidato  unico del collegio (che sta a sinistra) si vota in proporzione tutte le liste e i capilista dei partiti elencati sulla destra.Se votiamo uno di quelli indicati per ciascuna lista  (cioè uno che sta scritto sulla destra) votiamo per il partito di cui fa parte ed anche per  il candidato unico del collegio. Un terzo sono eletti quelli  elencati a sinistra e due terzi quelli elencati sulla destra della scheda. Più o meno. Qualche forza politica ha fatto grande chiasso perchè voleva il "voto distinto" vale a dire la possibilità di disporre di due schede per la Camera e due schede per il Senato. Su una scheda voleva indicare il candidato unico del collegio. Sulla seconda scheda poteva scegliere uno "anche" di un altro partito o coalizione differente da quello votato sulla prima scheda. Gran bella idea (anzi: buona) peccato che (1) consegnare quattro schede a un elettore significa far un gran casino ed occorrevano cinque o sei o sette giorni tra votazione e scrutinio perchè... siamo italiani. (2) Contrariamente a quanto starnazzano le opposizioni di qualunque parte, il sistema va bene per tutti, anzi!. Va benissimo non ai soli Renzi o Berlusconi o Salvini o DiMaio perchè in questo modo controllano perfettamente chi mettere in lista e fare eleggere.
Non vanno bene a nessuno le doppie liste perchè dalla votazione  potrebbe venir fuori una delegittimazione del capo che ha fatto le liste. Immaginate 100 voti per il candidato unico giallo e 70 voti per i preferiti nelle liste collegate: dove sono andati i 30 voti differenti? O viceversa. I nominati. Questo é il punto più alto dell'ipocrisia da parte di tutti i partiti. O si fanno liste di 30 o 50 candidati potenziali nelle preferenze inserendo i raccomandati di ciascuna corrente dentro il partito oppure se ne mettono quei pochi permessi dalla legge. Che sono comunque TUTTI nominati dal segretario, nessuno dalla base degli iscritti a attraverso primarie. Noi la doppia scheda per il voto disgiunto comunque l'avremmo messa a costo di subire l'onta degli scrutini nel meridione che sarebbero durati una settimana. Adesso aspettiamo i programmi. Ci sarà da ridere. Intanto portiamo la tenda a lavare: magari invece di votare andiamo in montagna. E quando andremo a votare sapremo che fine  ha fatto il QE.









































L’11 per cento delle 99.750 offerte di lavoro previste tra settembre e novembre, cioè circa 10mila ruoli, non potranno esser soddisfatte per mancanza di candidati. Un dato che arriva al 39 per cento nel caso di progettisti, ingegneri e professioni assimilate — se ne cercano 1.600 — ma anche, nel 15 per cento dei casi, di metalmeccanici o, nell’8 per cento dei casi, di cuochi e camerieri.
I numeri sono quelli elaborati dalla Camera di commercio di Milano, Monza, Brianza e Lodi sui dati del sistema informativo Excelsior che tiene sotto controllo puntualmente l’andamento del mercato del lavoro. Nel trimestre in corso, appunto, il rapporto stima 99.750 entrate previste nelle imprese milanesi, considerando contratti di lavoro a tempo indeterminato (il 32 per cento) e determinato o con altre formule. La metà delle richieste arriva dalle piccole e medie imprese, quelle fino a 50 dipendenti. «In Italia c’è una mancanza strutturale di laureati in discipline tecniche — spiega Graziano Dragoni, direttore generale del Politecnico — anche se, come nel nostro caso, c’è un aumento degli iscritti: tanti scelgono altro, penso alle discipline umanistiche, per seguire le proprie inclinazioni o spaventati dalla difficoltà, però così non intercettano le richieste del mercato del lavoro». Pesa, anche, la mancata valorizzazione della laurea triennale nelle selezioni di personale: «In Germania, per esempio, è molto più facile essere assunti subito, senza dover proseguire con la biennale, che scoraggia tanti studenti». Una conferma arriva ancora dai numeri della Camera di commercio: per le 510 assunzioni previste di specialisti in discipline artistiche e in scienze umane e sociali, non c’è differenza tra domanda delle aziende e offerta del mercato, e la difficoltà di reperire personale è pari a zero. Aggiunge però Dragoni: «Dei nostri studenti il 10 per cento va all’estero, dopo la laurea, perché considera quell’esperienza più attrattiva rispetto a una nelle piccole imprese». Che, però, rappresentano un elemento importante del tessuto economico lombardo.
Ricorda Carlo Edoardo Valli, vice presidente della Camera di commercio: «La dispersione di questi posti di lavoro rispetto alle potenzialità di assunzione ha conseguenze negative per le imprese, che non riescono a far fronte ai loro bisogni organizzativi con le figure professionali più adatte, e questo vale anche per professioni importanti e caratteristiche del territorio, come gli operai specializzati nelle industrie tessili». È difficile trovare un operaio specializzato ma, dall’altra parte, c’è una sovrabbondanza di personale non qualificato: dal tuttofare dei cantieri ai servizi di pulizia e facchinaggio, «mestieri di facile accesso — spiega Valli — , spesso presidiati dalle imprese straniere, cresciute negli ultimi anni».
Anche qui c’è una spiegazione: soprattutto considerando i lavoratori stranieri, la difficoltà nella lingua, la mancata equiparazione di titoli di studio o della patente di guida del paese d’origine porta a far crescere sul mercato il numero di lavoratori generici.

Oriana Liso /La Repubblica
ll’ultimo trimestre di quest’anno in Lombardia occorrono circa centomila lavoratori. Purtroppo mancheranno specialisti: 10mila offerte di lavoro restano senza risposta
Troppi i ruoli generici in offerta , pochi i profili chiesti dal mercato. Le imprese non riescono a strutturare l’organizzazione. Troppo da un lato , e troppo poco dall’altro lato.
Troppe domande di lavoro, rispetto all’offerta, per manovali, facchini, laureati in discipline artistiche, umane e sociali. E, all’estremo opposto, pochi ingegneri, fisici, chimici, autisti, operai specializzati nei settori dell’edilizia, nel tessile, nel calzaturiero rispetto alle necessità delle aziende del territorio. Cose che tutti vogliono fare e altre che piacciono a pochi.
Una Regione che vuole fare da se ma le sue genti non riescono a fare da sole. Siamo troppo poveri per potercela fare: acqua luce metano benzina telefono pedaggi  tari trasporti pubblici sanità: costi eccessivi per l’utenza e servizi spesso del tutto inadeguati.
Non giriamo attorno al problema. Queste spese addosso ai lombardi sono frutto del malgoverno lombardo o piemontese o veneto. Non abbiamo i soldi per mandare i giovani all’università vera e severa perché  i trasporti  dalle-nelle nostre valli fano pietà come  non brillano tra città e città. Tra città e metropoli.
Bergamo va fiera della sua università  e l’ha dispersa sul territorio come se le sue facoltà fossero tanti istituti tecnici superiori: un autogol determinato da un’idea oratoriana e cattolica dell’istruzione. Provate a cercare un tecnico  per il mantenimento e la manutenzione di un impianto di riscaldamento raffrescamento e pannelli solari di un edificio in Classe A se riuscite a trovarlo. Più facile trovare per terra un 500 euro semmai siano esistiti.
Osservate come sono costruite le villette a schiera che ancora -nonostante la crisi- vengono edificate e resterete sconcertati dai macroscopici errori compiuti dai progettisti in ordine alle strutture e all’impiantisti ca.
Se poi  date una scorsa agli albi pretori dei comuni vi viene il dubbio che sia la bacheca della Caritas o della mai dimenticata SanVicenzo. Comuni scambiati per onlus.
Paesi di sette diecimila abitanti nella fascia pedemontana non ancora raggiunti dalla fibra ottica. Stiamo scontando e li sconteremo per ancora qualche lustro una arretratezza complessiva che non ci consente di uscire dalla società operaia e contadina del primo e secondo dopoguerra mentre ci illudiamo -con lo smartfono in mano- di essere come Milano e Londra. Siamo ridotti così perché l’abbiamo scelto noi e se non risponderemo da soli alla domanda per cui i SI  milanesi al recente referendum sono stati un decimo di quelli delle province lombarde, hai voglia di sperare nel sol dell’avvenir caro lumbard.
C'è un lato oscuro, un maleficio che aleggia su quel lembo di terra a Nord-Est dell'Italia dove è tornato a soffiare il vento della destra. Un'ambiguità tutta padana, un fantasma che si aggira nelle stanze impolverate che furono la Casa delle libertà, ma non spaventa gli abitanti del maniero, non viene notato, è incapace di intimorire quel popolo che anzi si muove in massa per ribadire il primato politico ed economico della Padania di Salvini e Berlusconi nell'Italia della grande crisi.
Non si spiega, storia e dati alla mano, questa mitologia del buongoverno di centrodestra. Una favola propinata al Paese, che ha spinto la sinistra a darsi alla ritirata, varando una legge elettorale che, di fatto, favorirà il ritorno nel Nord delle insegne del centrodestra, spaccando l'Italia in due e relegando il Pd fuori dai confini della parte più ricca e produttiva del Paese, che Matteo Renzi aveva promesso di infatuare.
Proprio lassù Lega e Forza Italia crescono invece ogni giorno nei sondaggi. E basta passare al bar per tastare con mano lo tsunami elettorale di colore verde e azzurro che sta per abbattersi sulla Padania: dalla Brianza alle foci dell'Isonzo.
Così in Padania l'inganno si fa voto. E Silvio Berlusconi corre al galoppo verso il 2018 alleato con quel Matteo Salvini che, pur fra ultimatum e litigi furibondi sui giornali, in televisione e in Parlamento, strizza l'occhio a un elettorato che non riconosce diversità sostanziali fra Lega Nord e Forza Italia. Si tratta di litigi che incuriosiscono politologi e sondaggisti, ma che non sfiorano il cuore politico del popolo a Nord-Est. Lassù si può fare, il Cavaliere lo ricorda bene, perché conosce l'indole di quelle terre. Sa che la promessa di un modello di governo simile a quello che ha conquistato Lombardia e Veneto dal 1994 in avanti non avrebbe rivali. Soprattutto con una legge elettorale che consenta al centrodestra di fare cartello e presentarsi unito.
A guardarsi un po' in giro sembra che abbia ragione lui. Basti pensare che da queste parti nemmeno Beppe Grillo, con il suo bavaglio sugli occhi, in piazza del Pantheon, in parata contro la fiducia posta dal governo Gentiloni sulla legge elettorale è davvero passato all'incasso. Non sfondano i Cinque stelle nella Padania del grande inganno. Né sfonda la tiepida simpatia del popolo di Silvio per il fu Matteo Renzi, non certo quello di adesso, tutto voglia di Palazzo Chigi e vendette a sinistra, ma quel Renzi rottamatore della prima ora che per qualche mese solleticò la pancia degli elettori del Nord-Est. Ora è tutto finito. La sua fama è evaporata, archiviata come anticaglia politica, anzi si è rovesciata in astio. L'emblema di questa metamorfosi è proprio Ettore Rosato, il diligente capogruppo del Pd alla Camera, natali triestini e cuore democristiano. Rosato è uno che fa politica da quando portava i calzoncini corti ed è colui che dà il nome alla riforma elettorale, al voto in Senato fra caos e proteste. Nemmeno il padre della riforma ha il coraggio di candidarsi con la propria riforma. Perché sa che il Nord-Est lo caccerà. E così spera di fuggire da Trieste, luogo dove — stando al suo Rosatellum che dovrebbe garantire ai cittadini di poter scegliere il loro deputato — i sondaggi dicono che vinceranno i berlusconiani doc.
Eppure le cronache ci dicono che quel modello di governo che il centrodestra rivendica è figlio di due decenni di imbrogli, cricche e potere familistico. La cronaca ce lo ricorda ogni giorno. Ma lassù nessuno pare sentirlo. Roberto Formigoni che fu il padre padrone della Lombardia fino ad aspirare alla poltrona di premier è stato rispedito a processo. Le accuse sono le solite: cene di lusso e vacanze pagate al cattolicissimo membro dei Memores Domini ciellini il quale, sussurrano maligni gli ex compagni di partito, avendo fatto voto di povertà, evidentemente spendeva soldi altrui, come dice la prima condanna dopo l'inchies ta sulla Fondazione Maugeri.
Scendendo verso Est, la musica non cambia. Lungo la vecchia ferrovia che porta a Venezia per poi spingersi fino sul Golfo di Trieste s'è rifugiato Giancarlo Galan, il Doge decaduto, l'uomo più potente della Serenissima, laico e liberale fu colui che pontificò per quasi vent'anni onestà e sviluppo in una delle terre più ricche d'Europa, un posto dove le fabbrichette intorno a Vicenza facevano il Pil della Grecia, gestendo invece potere e malaffare dal Canal Grande. Roba che, in un altro posto d'Europa, avrebbe ipotecato la vittoria del centrosinistra per una generazione ma che, lassù, al contrario, ha consolidato la classe dirigente e trasferito il potere nelle mani di successori che, pur estranei ai fatti, avevano condiviso e sposato quel patto politico.
Significa che la sinistra non ha saputo toccare le corde di quel pezzo di Italia, quel lembo di ricchezza nella crisi da cui poteva ripartire un progetto riformista capace di scaldare il Nord deluso dalla caduta, neppure troppo onorevole, del Cavaliere.
Non è così. Nemmeno oggi che le cene al caminetto di Arcore fra Silvio e il Senatùr, con il cuoco Michele e i manicaretti rigorosamente senza aglio, non ci sono più. L'inganno padano continua e al governo torneranno loro, prosecutori di un modello di sviluppo che porta con sé una macchia, un peccato originale che il Pd non è stato capace di far emergere. Anzi, di cui è vittima sacrificale: il centrodestra ha già riconquistato grandi città, a partire dalla difficilissima Trieste nel feudo di Debora Serracchiani, e s'è preso le roccaforti rosse come Monfalcone. Ma ora punta dritto alla tripletta, dopo la Lombardia e il Veneto di Maroni e Zaia, cercando di imporre anche alle regionali del Friuli Venezia Giulia un candidato della Lega Nord, il giovane capogruppo padano Massimiliano Fedriga. Spinto dalla crisi della pasionaria piddina Debora le cui riforme (sanità ed enti locali) non riescono a fermare il vento in poppa del Carroccio, spinto anche dal referendum sull'autonomia, una consultazione che da queste parti odora più di schei, di soldi, che di modello catalano. Senza che a Roma possano fare molto per fermarlo.

Tommaso Cerno