L’11 per
cento delle 99.750 offerte di lavoro previste tra settembre e novembre,
cioè circa 10mila ruoli, non potranno esser soddisfatte per mancanza di
candidati. Un dato che arriva al 39 per cento nel caso di progettisti,
ingegneri e professioni assimilate — se ne cercano 1.600 — ma anche,
nel 15 per cento dei casi, di metalmeccanici o, nell’8 per cento dei
casi, di cuochi e camerieri.
I numeri sono quelli elaborati dalla Camera di commercio di Milano,
Monza, Brianza e Lodi sui dati del sistema informativo Excelsior che
tiene sotto controllo puntualmente l’andamento del mercato del lavoro.
Nel trimestre in corso, appunto, il rapporto stima 99.750 entrate
previste nelle imprese milanesi, considerando contratti di lavoro a
tempo indeterminato (il 32 per cento) e determinato o con altre
formule. La metà delle richieste arriva dalle piccole e medie imprese,
quelle fino a 50 dipendenti. «In Italia c’è una mancanza strutturale di
laureati in discipline tecniche — spiega Graziano Dragoni, direttore
generale del Politecnico — anche se, come nel nostro caso, c’è un
aumento degli iscritti: tanti scelgono altro, penso alle discipline
umanistiche, per seguire le proprie inclinazioni o spaventati dalla
difficoltà, però così non intercettano le richieste del mercato del
lavoro». Pesa, anche, la mancata valorizzazione della laurea triennale
nelle selezioni di personale: «In Germania, per esempio, è molto più
facile essere assunti subito, senza dover proseguire con la biennale,
che scoraggia tanti studenti». Una conferma arriva ancora dai numeri
della Camera di commercio: per le 510 assunzioni previste di
specialisti in discipline artistiche e in scienze umane e sociali, non
c’è differenza tra domanda delle aziende e offerta del mercato, e la
difficoltà di reperire personale è pari a zero. Aggiunge però Dragoni:
«Dei nostri studenti il 10 per cento va all’estero, dopo la laurea,
perché considera quell’esperienza più attrattiva rispetto a una nelle
piccole imprese». Che, però, rappresentano un elemento importante del
tessuto economico lombardo.
Ricorda Carlo Edoardo Valli, vice presidente della Camera di commercio:
«La dispersione di questi posti di lavoro rispetto alle potenzialità di
assunzione ha conseguenze negative per le imprese, che non riescono a
far fronte ai loro bisogni organizzativi con le figure professionali
più adatte, e questo vale anche per professioni importanti e
caratteristiche del territorio, come gli operai specializzati nelle
industrie tessili». È difficile trovare un operaio specializzato ma,
dall’altra parte, c’è una sovrabbondanza di personale non qualificato:
dal tuttofare dei cantieri ai servizi di pulizia e facchinaggio,
«mestieri di facile accesso — spiega Valli — , spesso presidiati dalle
imprese straniere, cresciute negli ultimi anni».
Anche qui c’è una spiegazione: soprattutto considerando i lavoratori
stranieri, la difficoltà nella lingua, la mancata equiparazione di
titoli di studio o della patente di guida del paese d’origine porta a
far crescere sul mercato il numero di lavoratori generici.
Oriana Liso /La Repubblica
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ll’ultimo
trimestre di quest’anno in Lombardia occorrono circa centomila
lavoratori. Purtroppo mancheranno specialisti: 10mila offerte di lavoro
restano senza risposta
Troppi i ruoli generici in offerta , pochi i profili chiesti dal
mercato. Le imprese non riescono a strutturare l’organizzazione. Troppo
da un lato , e troppo poco dall’altro lato.
Troppe domande di lavoro, rispetto all’offerta, per manovali, facchini,
laureati in discipline artistiche, umane e sociali. E, all’estremo
opposto, pochi ingegneri, fisici, chimici, autisti, operai
specializzati nei settori dell’edilizia, nel tessile, nel calzaturiero
rispetto alle necessità delle aziende del territorio. Cose che tutti
vogliono fare e altre che piacciono a pochi.
Una Regione che vuole fare da se ma le sue genti non riescono a fare da
sole. Siamo troppo poveri per potercela fare: acqua luce metano benzina
telefono pedaggi tari trasporti pubblici sanità: costi eccessivi
per l’utenza e servizi spesso del tutto inadeguati.
Non giriamo attorno al problema. Queste spese addosso ai lombardi sono
frutto del malgoverno lombardo o piemontese o veneto. Non abbiamo i
soldi per mandare i giovani all’università vera e severa perché i
trasporti dalle-nelle nostre valli fano pietà come non
brillano tra città e città. Tra città e metropoli.
Bergamo va fiera della sua università e l’ha dispersa sul
territorio come se le sue facoltà fossero tanti istituti tecnici
superiori: un autogol determinato da un’idea oratoriana e cattolica
dell’istruzione. Provate a cercare un tecnico per il mantenimento
e la manutenzione di un impianto di riscaldamento raffrescamento e
pannelli solari di un edificio in Classe A se riuscite a trovarlo. Più
facile trovare per terra un 500 euro semmai siano esistiti.
Osservate come sono costruite le villette a schiera che ancora
-nonostante la crisi- vengono edificate e resterete sconcertati dai
macroscopici errori compiuti dai progettisti in ordine alle strutture e
all’impiantisti ca.
Se poi date una scorsa agli albi pretori dei comuni vi viene il
dubbio che sia la bacheca della Caritas o della mai dimenticata
SanVicenzo. Comuni scambiati per onlus.
Paesi di sette diecimila abitanti nella fascia pedemontana non ancora
raggiunti dalla fibra ottica. Stiamo scontando e li sconteremo per
ancora qualche lustro una arretratezza complessiva che non ci consente
di uscire dalla società operaia e contadina del primo e secondo
dopoguerra mentre ci illudiamo -con lo smartfono in mano- di essere
come Milano e Londra. Siamo ridotti così perché l’abbiamo scelto noi e
se non risponderemo da soli alla domanda per cui i SI milanesi al
recente referendum sono stati un decimo di quelli delle province
lombarde, hai voglia di sperare nel sol dell’avvenir caro lumbard.
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C'è un lato
oscuro, un maleficio che aleggia su quel lembo di terra a Nord-Est
dell'Italia dove è tornato a soffiare il vento della destra.
Un'ambiguità tutta padana, un fantasma che si aggira nelle stanze
impolverate che furono la Casa delle libertà, ma non spaventa gli
abitanti del maniero, non viene notato, è incapace di intimorire quel
popolo che anzi si muove in massa per ribadire il primato politico ed
economico della Padania di Salvini e Berlusconi nell'Italia della
grande crisi.
Non si spiega, storia e dati alla mano, questa mitologia del
buongoverno di centrodestra. Una favola propinata al Paese, che ha
spinto la sinistra a darsi alla ritirata, varando una legge elettorale
che, di fatto, favorirà il ritorno nel Nord delle insegne del
centrodestra, spaccando l'Italia in due e relegando il Pd fuori dai
confini della parte più ricca e produttiva del Paese, che Matteo Renzi
aveva promesso di infatuare.
Proprio lassù Lega e Forza Italia crescono invece ogni giorno nei
sondaggi. E basta passare al bar per tastare con mano lo tsunami
elettorale di colore verde e azzurro che sta per abbattersi sulla
Padania: dalla Brianza alle foci dell'Isonzo.
Così in Padania l'inganno si fa voto. E Silvio Berlusconi corre al
galoppo verso il 2018 alleato con quel Matteo Salvini che, pur fra
ultimatum e litigi furibondi sui giornali, in televisione e in
Parlamento, strizza l'occhio a un elettorato che non riconosce
diversità sostanziali fra Lega Nord e Forza Italia. Si tratta di litigi
che incuriosiscono politologi e sondaggisti, ma che non sfiorano il
cuore politico del popolo a Nord-Est. Lassù si può fare, il Cavaliere
lo ricorda bene, perché conosce l'indole di quelle terre. Sa che la
promessa di un modello di governo simile a quello che ha conquistato
Lombardia e Veneto dal 1994 in avanti non avrebbe rivali. Soprattutto
con una legge elettorale che consenta al centrodestra di fare cartello
e presentarsi unito.
A guardarsi un po' in giro sembra che abbia ragione lui. Basti pensare
che da queste parti nemmeno Beppe Grillo, con il suo bavaglio sugli
occhi, in piazza del Pantheon, in parata contro la fiducia posta dal
governo Gentiloni sulla legge elettorale è davvero passato all'incasso.
Non sfondano i Cinque stelle nella Padania del grande inganno. Né
sfonda la tiepida simpatia del popolo di Silvio per il fu Matteo Renzi,
non certo quello di adesso, tutto voglia di Palazzo Chigi e vendette a
sinistra, ma quel Renzi rottamatore della prima ora che per qualche
mese solleticò la pancia degli elettori del Nord-Est. Ora è tutto
finito. La sua fama è evaporata, archiviata come anticaglia politica,
anzi si è rovesciata in astio. L'emblema di questa metamorfosi è
proprio Ettore Rosato, il diligente capogruppo del Pd alla Camera,
natali triestini e cuore democristiano. Rosato è uno che fa politica da
quando portava i calzoncini corti ed è colui che dà il nome alla
riforma elettorale, al voto in Senato fra caos e proteste. Nemmeno il
padre della riforma ha il coraggio di candidarsi con la propria
riforma. Perché sa che il Nord-Est lo caccerà. E così spera di fuggire
da Trieste, luogo dove — stando al suo Rosatellum che dovrebbe
garantire ai cittadini di poter scegliere il loro deputato — i sondaggi
dicono che vinceranno i berlusconiani doc.
Eppure le cronache ci dicono che quel modello di governo che il
centrodestra rivendica è figlio di due decenni di imbrogli, cricche e
potere familistico. La cronaca ce lo ricorda ogni giorno. Ma lassù
nessuno pare sentirlo. Roberto Formigoni che fu il padre padrone della
Lombardia fino ad aspirare alla poltrona di premier è stato rispedito a
processo. Le accuse sono le solite: cene di lusso e vacanze pagate al
cattolicissimo membro dei Memores Domini ciellini il quale, sussurrano
maligni gli ex compagni di partito, avendo fatto voto di povertà,
evidentemente spendeva soldi altrui, come dice la prima condanna dopo
l'inchies ta sulla Fondazione Maugeri.
Scendendo verso Est, la musica non cambia. Lungo la vecchia ferrovia
che porta a Venezia per poi spingersi fino sul Golfo di Trieste s'è
rifugiato Giancarlo Galan, il Doge decaduto, l'uomo più potente della
Serenissima, laico e liberale fu colui che pontificò per quasi
vent'anni onestà e sviluppo in una delle terre più ricche d'Europa, un
posto dove le fabbrichette intorno a Vicenza facevano il Pil della
Grecia, gestendo invece potere e malaffare dal Canal Grande. Roba che,
in un altro posto d'Europa, avrebbe ipotecato la vittoria del
centrosinistra per una generazione ma che, lassù, al contrario, ha
consolidato la classe dirigente e trasferito il potere nelle mani di
successori che, pur estranei ai fatti, avevano condiviso e sposato quel
patto politico.
Significa che la sinistra non ha saputo toccare le corde di quel pezzo
di Italia, quel lembo di ricchezza nella crisi da cui poteva ripartire
un progetto riformista capace di scaldare il Nord deluso dalla caduta,
neppure troppo onorevole, del Cavaliere.
Non è così. Nemmeno oggi che le cene al caminetto di Arcore fra Silvio
e il Senatùr, con il cuoco Michele e i manicaretti rigorosamente senza
aglio, non ci sono più. L'inganno padano continua e al governo
torneranno loro, prosecutori di un modello di sviluppo che porta con sé
una macchia, un peccato originale che il Pd non è stato capace di far
emergere. Anzi, di cui è vittima sacrificale: il centrodestra ha già
riconquistato grandi città, a partire dalla difficilissima Trieste nel
feudo di Debora Serracchiani, e s'è preso le roccaforti rosse come
Monfalcone. Ma ora punta dritto alla tripletta, dopo la Lombardia e il
Veneto di Maroni e Zaia, cercando di imporre anche alle regionali del
Friuli Venezia Giulia un candidato della Lega Nord, il giovane
capogruppo padano Massimiliano Fedriga. Spinto dalla crisi della
pasionaria piddina Debora le cui riforme (sanità ed enti locali) non
riescono a fermare il vento in poppa del Carroccio, spinto anche dal
referendum sull'autonomia, una consultazione che da queste parti odora
più di schei, di soldi, che di modello catalano. Senza che a Roma
possano fare molto per fermarlo.
Tommaso Cerno
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