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C'è un'evidente ansia da campagna elettorale permanente, ben più che una preoccupazione per la sicurezza dei correntisti bancari e dei risparmiatori, nell'offensiva di Matteo Renzi contro il governatore della Banca d'Italia Visco.
Non c'è alcun dubbio che il tema del risparmio, del credito e della solidità delle nostre banche agiti la pubblica opinione, che dopo i casi Monte Paschi, Etruria e Vicenza si sente esposta, raggirata e ben poco tutelata dai meccanismi e dagli istituti di salvaguardia del sistema.
Quindi è comprensibile e persino doveroso che i leader trattino la questione in vista del voto, quando è il momento del rendiconto sul passato e degli impegni per il futuro.
Ma Bankitalia non è l'Anas o la Cassa del Mezzogiorno: e delle banche si può discutere, e anzi si deve, ma senza gettare un'istituzione di garanzia nel tritacarne del vortice elettorale.
Che ci sia stato un problema di vigilanza allentata e di sorveglianza miope sulle fragilità che le banche italiane camuffavano è ormai fuori dubbio, perché tutti abbiamo sentito per troppi anni i controllori garantire sulla solidità certa dell'impianto, a partire da via Nazionale, e dallo stesso Governatore.
Ma se si considera che questa miopia viene da lontano, anche prima di Visco, nasce una domanda obbligatoria: dov'era la politica nel frattempo, che cosa capiva e che cosa faceva?
Soprattutto, l'interrogativo è se la politica era dalla parte dei cittadini e dunque dell'inte resse generale o piuttosto se era coinvolta negli ingranaggi più bassi che hanno rallentato e deviato il corretto procedere del mercato bancario: con una commistione insieme provinciale e onnipotente, che considerava il credito come un prolungamento della politica con altri mezzi, impropri ma utili a creare consorterie, consolidare confraternite, insediare nomenklature locali. Comperando consenso e potere, e inseguendo il conflitto d'interessi certificato dallo slogan "abbiamo una banca", piuttosto che la cornice di garanzia costruita con l'obiettivo di poter dire "abbiamo una regola".
Se si apre il libro delle responsabilità - in ritardo, con tutti i buoi già scappati e nutriti da un buon pascolo abusivo nel prato dei risparmiatori - il rendiconto deve essere dunque a 360 gradi e ogni soggetto politico e istituzionale della lunga stagione della crisi deve rispondere.
A partire dalla Banca centrale, certamente, ma anche da chi ha avuto in questi anni responsabilità di governo e di indirizzo. Altrimenti si trasmette l'idea di un piccolo cortocircuito elettorale, con il giglio appassito che appicca l'incendio a via Nazionale perché non riesce a spegnere il fuoco che lo perseguita ad Arezzo.
E qui nasce un'altra questione, che va al di là della campagna elettorale e della stessa vicenda bancaria. Di fronte all'isolamento di cui ha parlato su Repubblica Stefano Folli, alla "biografia" civile di Bankitalia rievocata da Scalfari, Renzi ha infatti risposto ricordando che lui nasce rottamatore, e non intende cambiare.
Forse non si è accorto che in questo modo ha evocato una natura più che una cultura, addirittura una postura mimetica invece che una politica. A parte la distorsione concettuale per cui la cosiddetta rottamazione per il segretario Pd si applica agli uomini, alle persone fisiche, e non ai loro progetti e alle loro azioni politico-programmati che, viene da domandarsi quale sia l'universo di riferimento culturale di un leader se dopo tre anni di guida del governo è ancora prigioniero del ring agonistico di un wrestling sceneggiato che non finisce mai: dove lui e coloro che eleva di volta in volta ad avversari indossano maschere di comodo, sostituendo l'azione fisica all'azione politica.
Quando passa in rassegna il drappello d'onore della Repubblica, dopo aver ricevuto dal Quirinale l'incarico di formare il governo, anche lo sfidante più outsider si deve trasformare in uomo di Stato, facendosi carico di una responsabilità complessiva, che naturalmente interpreterà secondo la sua cultura e la sua vocazione politica.
Renzi sembra fermo al ground zero della sua avventura nazionale. Senza avvertire che quella sfida iniziale ha portato nel sistema una fortissima tensione per il cambiamento, ma quando il cambiamento non si è realizzato la sfida permanente ha lasciato sul campo soltanto la tensione, che Gentiloni sta stemperando a fatica.
In questo ribellismo delle élite c'è la sciagurata illusione di inseguire il grillismo sui suoi temi, impiegando il suo linguaggio e mimando la sua riduzione della politica a continua performance, in una sollecitazione perenne dell'elettorato contro nemici ogni volta diversi, ma che evocano costantemente il fantasma della casta. È la costruzione succube di un universo gregario. Anche se in realtà Renzi insegue il se stesso delle origini, senza capire che proprio l'esperienza di governo dovrebbe aver arricchito il rottamatore trasformandolo in ricostruttore.
Resta una domanda: il Pd tutto questo lo sa?
Ha mai discusso di questi temi?
Ha mai chiesto al segretario di illustrare politicamente la sua cultura invece di limitarsi a esibire la sua natura? Ma arrivati a questo punto, proprio qui, si dovrebbe aprire la questione decisiva della natura del Pd: che resta l'unico segreto davvero custodito in Italia.
Oramai non appena il Renzi muove un sopracciglio, subito si scatena un’Irma di reazioni. Tutti a dargli consigli fino a nonno Scalfari che gli ha consigliato un buon neurologo. Che il fiorentino non dia ascolto a nessuno non è novità ma che oggi si levi un coro di cerchiobottisti per cui non si comprende se Visco sia criticabile o meno e come lo sia più e come lo sia meno, é francamente il segno che più di politica ormai i media praticano la caccia a qualcuno.
Questo ce lo rende più simpatico perché quando la casta e gli intellettuali che pascolano i grassi pascoli industriali prendono di mira qualcuno, vuol dire che sono stati toccati. Anzi: hanno ricevuto un cazzotto ma non possono rivelarlo in pubblico. Per esempio en passant sarebbe interessante sapere se qualcuno degli attori principali nei media non sia stato tra gli acquirenti di quelle obbligazioni che rendevano alla grande e le abbiano vendute «prima che» diventassero carta straccia... . Lo stesso dicasi per qualche (qualche? molti!) politico e relative parentele.
Tra poche ore con un complesso giro di valzer ci sarà la nomina del successore. La nomina è disposta con decreto del presidente della Repubblica, su proposta del presidente del Consiglio, previa deliberazione del consiglio dei Ministri, sentito il parere del Consiglio superiore della Banca d'Italia. Lo stesso procedimento si applica anche per la revoca.
Renzi ha già dichiarato che prenderà atto della decisione del governo e qualsiasi decisione sarà presa quella non intaccherà minimamente i suoi rapporti col PdC e il Governo.
Naturalmente non ci crede nessuno così come tutti sanno che arriveranno  «adeguate» reazioni nel caso Visco fosse  riconfermato: perché il nocciolo del problema sta tutto nel fatto che  tutti criticano il governatore ma poi ritraggono tutti sulla «forma».
I soggetti partecipanti al capitale della Banca d’Italia sono 119 per complessive 300mila  quote su un capitale di 7.500 milioni di euro. Una ricerca in internet squaderna chi siano gli azionisti e fa comprendere una delle ragioni per cui la vigilanza è stata com’è stata.
Ma su questo ci siamo già espressi due volte.
È sconvolgente l’omertà della stampa per il modo come è stata data la notizia della liberazione di Raqqa da parte delle Forze democratiche siriane con in prima fila le kurde del Ypj. È stata liberata la «capitale» dello Stato islamico, dove l’Isis di al Baghdadi è nato è cresciuto, dove la barbarie è stata consumata per diffondersi in Siria e in Iraq.

La liberazione è costata molto sia alla popolazione civile che ai combattenti, certo hanno avuto l’aiuto degli Usa, ma i marine non erano sul terreno. È forse questo il motivo che ha impedito ai media (soprattutto alle tv nostrane) di dare il dovuto risalto alla notizia? Certo non c’era la bandiera a stelle e strisce come a Baghdad e non è stata possibile una foto che esaltasse la potenza americana.

Certo però le foto erano belle, con le combattenti donne radiose, immagini insolite per uno scenario di guerra e così la stampa se l’è cavata con una foto-notizia in prima pagina. Ma le comandanti, con il viso deciso e orgoglioso, hanno dichiarato: «combattiamo per liberare le donne del Rojava». Un altro motivo per esaltare le foto ma non le parole di queste donne. La rivoluzione è femmina e fa paura a tutti e soprattutto ai paesi confinanti, come la Turchia, dove Erdogan fa insegnare a scuola che le donne devono obbedire al marito.

Il Rojava è un mondo a parte, ma potrebbe contaminare i regimi più reazionari della regione, anche perché si è ispirato alle teorie di Ocalan. E la dittatura turca è la più vulnerabile perché il virus è già diffuso, le kurde e i kurdi provenienti dalla Turchia che hanno combattuto a fianco del Ypj e del Ypg non abbandoneranno la loro lotta. L’esistenza di un’entità come il Rojava – libero, democratico, laico, con parità di genere e rispettoso dell’ambiente – che non vuole l’indipendenza ma una autonomia dalla Siria - e questo è un altro punto di forza perché eviterà lo scontro ingaggiato dal Kurdistan iracheno con Baghdad – sarà una spina nel fianco di tutto il Medioriente. E le donne del Rojava sono un esempio anche per noi, hanno saputo combattere senza militarizzare la loro mente e senza perdere di vista l’obiettivo principale.

Giuliana Sgrena
La vicenda Weinstein è stata sviscerata ampiamente nelle sue implicazioni circa i rapporti di forza uomo-donna, ma forse merita attenzione anche per il modo in cui le donne hanno reagito: spaccandosi. Come sempre. Lo schema è quello consueto: scoppia uno scandalo, c'è una persona che abusa del suo potere e finisce sommerso dalle accuse ma nega fino alla morte. In un attimo però l'attenzione si sposta dal carnefice alle vittime per scandagliare fino a che punto lo siano. Quando questo schema vede l'uomo nella parte del carnefice e le donne in quello di vittime, regolarmente sono queste ultime a abboccare allo stratagemma di distogliere l'attenzione dai fatti. Sono le donne le accusatrici più feroci delle altre donne, come se non sapessero che il solo essere messe davanti a una scelta come quella proposta da Weinstein equivale a aver subito una violenza. Tornando ai fatti: c'è stato un abuso di potere, che dall'altra parte ci sia stato chi ha reagito e chi non lo ha fatto (magari intravedendo un sufficiente tornaconto) non toglie niente alla brutalità di una pratica che ancora nel 2017 risulta purtroppo attualissima. Anche se c'è stata chi ha accettato di subire, sempre di violenza si tratta.
Abbiamo provato a sostenere questa tesi in una tavolata tra amici single, trovando particolari resistenze tra gli uomini. Alcuni di loro si sono spinti a dire di sentirsi crocifiggibili senza nemmeno una prova perché alla fine la parola di una donna vale di più. E che questo andazzo sta finendo per mettere in discussione persino i rapporti quotidiani tra uomo e donna. Una tesi estrema, che evidenzia l'insofferenza che c'è rispetto al disvelamento dei rapporti di forza che ancora creano disparità negli affetti come sul lavoro, o nelle sedi di potere.
Un solo ragionamento ha indotto i single della tavolata a riconsiderare le posizioni, quando abbiamo avanzato l'ipotesi che domani, quando le donne avranno il potere di Weinstein nulla esclude che ne abusino contro di loro. È calato il silenzio. Chissà a co
I miei genitori, classe 1910 e 1915 si sono sposati il 7 gennaio ‘44, quindi a 34 e 29 anni. Lui era un piccolo allevatore e viticultore mentre lei era una sarta in casa. Tra di loro si davano del «lei» e questo approccio durò fino al 1970, quando eravamo a Curno ormai da oltre 25 anni.
Per noi figli era del tutto normale sentirli rivolgersi l’un l’altro «le Ninì» oppure «lu Grato». Dove il nome materno era un grazioso riduttivo di Carmela collegato al monte Carmelo e Grato ricordava il santo protettore dalla grandine dei raccolti dei contadini. Noi  non ci siamo mai posti e non l’abbiamo nemmeno posto ai nostri genitori come e perché di loro si rivolgessero col «lei» mentre tutti i genitori dei nostri compagni si trattavano col «tu». Quando il moroso di mia sorella si rivolse a mio padre per chiedergli informalo che insomma voleva fidanzarsi con sua figlia - più o meno l’anno 1964- mio padre cortesemente lo invitò ad usare il «lei» con la potenziale morosa «quando siete in casa mia». Alle medie coi compagni scoprimmo che una signorina della via prendeva il sole nuda nelle campagne della sua famiglia e quindi cominciarono gli «agguati visivi». Della faccenda fu informato mio padre e un giorno la tipa passò in bici sulla strada. Lui mi teneva una mano sul capo e giocando coi miei capelli mi raccomandò: «mei ardaga quando l’a’nda in bicicleta*» e mi strinse anche l’orecchio.
(*:meglio guarda