I nostri giovani in trappola
di Maurizio Ferrera
Sul disagio dei giovani e sull’urgente necessità di allargare le loro
opportunità si è creato un largo consenso. Comprensibilmente, la
priorità del governo è il lavoro. Nella fascia 25-29 anni in Italia la
quota di occupati è il 53,7%, in Francia il 74,1%, in Germania il 78,3%
(dati 2016). Persino la Grecia (56,1%) riesce a fare meglio di noi. La
crisi economica dell’ultimo decennio è solo in parte responsabile di
questa situazione. L’enorme divario che ci separa dal resto d’Europa
affonda le sue radici nel «modello di gioventù» che caratterizza
l’Italia.
Nei Paesi nordeuropei, la transizione alla vita adulta è rapida. Metà
dei ragazzi e delle ragazze escono di casa fra i 18 e i 25 anni. I
sostegni pubblici alle famiglie con figli sono generosi. Ma si
esauriscono al compimento dei vent’anni. In compenso lo Stato aiuta
direttamente i giovani. Chi studia ha un aiuto economico. Tutti possono
accedere a sussidi abitativi. Quando escono di casa i ventenni o poco
più hanno la possibilità di mantenersi, formare presto nuove unioni e
fare figli (in media entro i trent’anni). Anche l’inserimento
lavorativo è rapido e organizzato dai servizi pubblici. Gli studenti
combinano precocemente studio e lavoro, seguono programmi di formazione
e orientamento. È stata la Scandinavia a inventare, già vent’anni fa,
quella «garanzia giovani» poi sperimentata, con un limitato successo,
anche in Italia, grazie al co-finanziamento europeo.
Nel Regno Unito, l’85% degli studenti ha un contratto stabile entro un anno dalla laurea, in Danimarca l’80%.
I Paesi continentali come Germania e Francia hanno un modello più
imperniato sulla famiglia. I sostegni per i figli a carico possono
estendersi fino ai venticinque anni; la vita con i genitori dura un po’
più a lungo, anche se quasi mai oltre i trent’anni. Il familismo non
impedisce però l’inserimento lavorativo. La scuola è congegnata in modo
da accompagnare i giovani verso quelle professioni di cui le imprese
hanno maggior bisogno. Nei Paesi germanici più della metà dei ragazzi
segue percorsi di istruzione con una forte componente professionale già
nella scuola secondaria, poi entrano nelle imprese come apprendisti. La
transizione scuola lavoro è «governata» in modo efficiente ed efficace.
Rispetto a quelli stranieri, il modello di gioventù italiano ha due
spiccate anomalie: l’iperfamilismo e l’assenza di percorsi ordinati di
ingresso nel mercato del lavoro. L’ uscita dalla famiglia è molto
tardiva: fra i 25 e i 38 anni metà dei giovani italiani vive ancora in
casa, record assoluto in Europa. Il primo figlio arriva in media fra i
34 e i 36 anni. Per lo Stato, i ragazzi che continuano a studiare dopo
i 18 anni sono trattati come figli: i genitori mantengono il diritto
alle prestazioni e agevolazioni fino a 26 anni. Una volta c’era il
famoso «presalario» pagato dallo Stato agli studenti privi di risorse.
Ora sono rimasti solo i prestiti d’onore. Le famiglie preferiscono
tuttavia stringere la cinghia piuttosto che vedere i propri figli
indebitati. Le borse di studio pubbliche sono scarse. Le agevolazioni
per gli affitti di chi studia fuori sede (nel complesso alcune decine
di milioni l’anno in termini di meno imposte) vanno, di nuovo, ai
genitori.
Sul fronte dell’inserimento lavorativo la distanza rispetto agli altri
Paesi è colossale. Nelle nostre scuole si fa pochissimo orientamento,
soprattutto nello snodo cruciale fra medie inferiori e superiori.
L’alternanza obbligatoria fra scuola lavoro è stata introdotta nel
2015. Con una legge, ma senza risorse, senza organizzazione, sperando
nell’iniziativa spontanea e volontaria di insegnanti e imprese. I corsi
di prima formazione sono pochi e mal gestiti, questa funzione è
praticamente delegata alle aziende. Il costo del lavoro per i contratti
stabili resta fra i più alti del mondo. È anche per questo che la quota
di studenti che riescono a trovare un impiego dopo la maturità o la
laurea è inferiore al 50%. E solo a un terzo di questi viene offerto un
contratto stabile.
Si è così instaurato un circolo vizioso. I figli non trovano lavoro, la
famiglia ammortizza, i giovani-figli si scoraggiano, le famiglie
chiedono più ammortizzatori. Più che aver adottato un modello di
gioventù, l’Italia ha messo la propria gioventù in trappola. Il governo
si appresta a ridurre i contributi sociali per le aziende che
assumeranno giovani. Una misura utile, per carità, ma del tutto
insufficiente. Diventeremo il primo Paese al mondo senza vita adulta
autonoma: figli sussidiati dai genitori, con poco lavoro, fino alla
pensione «di garanzia», oggi chiesta a gran voce dai sindacati. Una
battuta? Sì, ma non troppo.
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