Roberto
Mania su LaRepubblica a proposito della assemblea di
Confindustria per l'insediamento del neo presidente ricorda che
l'Istat nell'ultimo Rapporto annuale sull'Italia ha scritto: «Tra il
2010 e il 2013, per un'impresa su due il numero di addetti è diminuito
(complessivamente di almeno 143 mila unità pari a circa l'1 per cento)
e il valore aggiunto aumentato (di almeno lo 0,8 per cento). Il gruppo
delle imprese internazionalizzate spinte è l'unico a crescere per
entrambe le grandezze (con variazioni mediane pari rispettivamente a
+0,6 e +6 per cento)». L'82 per cento
del valore aggiunto dell'industria è prodotto dal 21,4 per cento delle
imprese esportatrici.
Ancora:
le imprese con elevata propensione all'export (cioè quelle che
esportano oltre il 50 per cento del proprio fatturato) producono il
31,2 per cento del valore dell'intero comparto manifatturiero. Il
contributo delle piccole imprese con meno di 10 addetti (circa il 35
per cento del totale delle imprese) non raggiunge il 10 per cento. E le
piccole imprese (quelle con meno di 50 dipendenti) e le microimprese
(quelle sotto i dieci dipendenti) rappresentano oltre il 99 per cento
delle totale delle aziende italiane occupando circa i due terzi della
forza lavoro. Anche così, con queste caratteristiche dell'imprenditoria
nazionale, si spiegano le difficoltà nell'uscire dal fondo in cui ci ha
cacciati la lunga crisi.
Le piccole imprese non hanno la
forza per investire in ricerca e
innovazione.
Così — sempre dal Rapporto annuale dell'Istat — siamo sotto la media
europea in investimenti in ricerca e sviluppo da parte delle aziende:
lo 0,7 del Pil contro l'1,3 per cento della media Ue. Dato
significativo anche quello relativo ai brevetti sempre in rapporto
all'Europa: i brevetti per milione di abitanti sono 73,7 contro i 112,8
europei. All'e-commerce ricorre solo il 7 per cento contro il 17 della
media europea. Questa è ancora la crisi italiana. E Boccia l'ha detto:
«Le imprese vanno ripensate».
Sempre nello stesso giorno (Roberto Mania) raccontando e commentando
la stessa assemblea confindustriale elenca tre messaggi che sarebbero
venuti dall'intervento
|
|
|
|
del nuovo presidente e il secondo messaggio è quello rivolto al sindacato, e la parola
chiave è la produttività. È questo il vulnus che ha provocato la lenta
decrescita italiana, e la responsabilità non è solo del sistema
industriale. Il sindacato deve sedersi assieme ai datori di lavoro per
riscrivere assieme le regole della contrattazione collettiva, non dando
più la priorità a quella nazionale. Lo scambio salario-produttività è
l'unico praticabile, cosa che si traduce in una semplice equazione:
saranno pagati salari più alti se aumenterà la quantità di beni e servizi forniti dal dipendente.
E le nuove regole, quando il
confronto interrotto con le organizzazioni sindacali ripartirà, dovrà
avere una diversa stella polare: a scriverle dovranno esssere le parti sociali e non il legislatore.
Ci pare che siano due posizioni del tutto contraddittorie perché é
evidente che in paese non può avere due tipi di industrie e nemmeno due
livelli salariali. Collegare il salario alla produttività ha un senso
se il livello delle imprese é pressoché identico ma siccome l'ISTAT ci
dice che il sistema regge per una minoranza di imprese
internazionalizzate rispetto a una maggioranza di imprese asfittiche e
senza futuro, é evidente che porre il problema salario solo nei
termini di produttività vuol dire ammettere che “anche” le imprese da
rottamare ci possono stare e possono andare avanti: basta che sia loro
concesso di pagare un salario assolutamente inferiore alle imprese leader in danno
non solo dei dipendenti ma anche del sistema (Paese) stesso.
Perchè sviluppo e futuro del Paese non
si possono caricare solo addosso a
quelle imprese con elevata propensione all'export (cioè quelle che esportano oltre il 50 per
cento del proprio fatturato) e producono il 31,2 per cento del valore
dell'intero comparto manifatturiero. Mentre il contributo delle piccole
imprese con meno di 10 addetti (circa il 35 per cento del totale delle
imprese) non raggiunge il 10 per cento. E le piccole imprese (quelle
con meno di 50 dipendenti) e le microimprese (quelle sotto i dieci
dipendenti) rappresentano oltre il 99 per cento delle totale delle
aziende italiane occupando circa i due terzi della forza lavoro.
|