Profughi,
debiti, disoccupazione: la crisi dell'Europa sembra non aver fine. Per
una parte crescente della popolazione, la sola risposta leggibile è
quella del ripiegamento nazionale: usciamo dall'Europa, torniamo allo
Stato-nazione e tutto andrà meglio. Di fronte a questa promessa
illusoria — ma che ha il merito della chiarezza — il campo progressista
non fa che tergiversare: certo, la situazione non è brillante, ma
bisogna persistere e attendere che le cose migliorino, e in ogni caso è
impossibile cambiare le regole europee. Questa strategia mortifera non
può durare. È venuto il momento che i Paesi più importanti della zona
euro riprendano l'iniziativa e propongano la costituzione di un
nocciolo duro in grado di prendere decisioni e rilanciare il nostro
continente.
Bisogna cominciare facendo piazza pulita di quell'idea secondo cui lo
stato dell'opinione pubblica impedirebbe di toccare i trattati europei:
i cittadini detestano l'Europa attuale, quindi non cambiamo nulla. Il
ragionamento è assurdo, e soprattutto falso. Per essere più preciso:
rivedere l'insieme dei trattati conclusi dai 28 Paesi per istituire
l'Unione Europea, in particolare in occasione del trattato di Lisbona
del 2007, probabilmente è prematuro; il Regno Unito e la Polonia, per
citarne solo due, hanno programmi che non sono i nostri. Ma questo non
significa che si debba restare inoperosi: ci sono tutte le condizioni
per concludere, parallelamente ai trattati esistenti, un nuovo trattato
intergovernativo fra i Paesi della zona euro che lo desiderano.
La prova migliore è quello che è stato fatto nel 2011-2012. In pochi
mesi, i Paesi dell'Eurozona negoziarono e ratificarono due trattati
intergovernativi con pesantissime conseguenze sui bilanci pubblici: uno
istituiva il Mes (Meccanismo europeo di stabilità, un fondo provvisto
di 700 miliardi di euro per venire in aiuto ai Paesi dell'Eurozona);
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l'altro,
chiamato«trattato sulla stabilità, sul coordinamento e sulla governance
nell'Unione economica e monetaria », e volgarmente noto come fiscal
compact, fissava le nuove regole di bilancio e prevedeva sanzioni
automatiche da applicare agli Stati membri.
Il problema è che questi due trattati sono serviti solo ad aggravare la
recessione e la deriva tecnocratica dell'Europa. I Paesi che richiedono
il sostegno del Mes devono firmare un «protocollo di intesa» con i
rappresentanti della famigerata «trojka» (articolo 13 del trattato del
Mes). In poche righe è stato concesso a un pugno di tecnocrati della
Commissione europea, della Banca centrale europea e del Fondo monetario
internazionale, a volte competenti e a volte molto meno, il potere di
supervisionare la riforma dei sistemi sanitari, pensionistici, fiscali
e così via di interi Paesi, il tutto nella quasi totale assenza di
trasparenza e controllo democratico. Quanto al fiscal compact (articolo
3), fissa un obbiettivo assolutamente irrealistico di disavanzo
strutturale massimo dello 0,5 per cento del Pil. Precisiamo che si
tratta di un obbiettivo di disavanzo secondario, che quindi tiene conto
anche degli interessi sul debito: quando i tassi di interesse
risaliranno, significherà che per decenni tutti i Paesi che avranno
accumulato debiti significativi in seguito alla crisi (cioè la quasi
totalità dei Paesi della zona euro) dovranno mantenere un avanzo
primario enorme, del 3-4 per cento del Pil.
Ci si dimentica, en passant, che l'Europa fu costruita negli anni
Cinquanta proprio sulla cancellazione dei debiti passati (di cui
beneficiò in particolare la Germania), e che furono quelle scelte
politiche a consentire di investire nella crescita e nellenuove
generazioni.
Aggiungiamo a tutto ciò che questo bell'edificio — Mes e fiscal compact
— è sottoposto al controllo del consiglio dei ministri dell'Economia
della zona euro,che si riusnisce a porte
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chiuse
e ci annuncia regolarmente, nel pieno della notte, di aver salvato
l'Europa, salvo poi renderci conto, il giorno seguente, che i suoi
membri non sanno neppure loro cosa hanno deciso. Bel successo per la
democrazia europea del XXI secolo.
La soluzione è evidente: bisogna rimettere in cantiere quei due
trattati e dotare la zona euro di istituzioni democratiche autentiche,
in grado di prendere decisioni chiare a seguito di discussioni condotte
alla luce del sole. L'opzione migliore sarebbe costituire una camera
parlamentare dell'Eurozona, composta di rappresentanti dei Parlamenti
nazionali, in proporzione alla popolazione di ciascun Paese e ai
diversi gruppi politici. Questa camera dovrebbe deliberare su tutte le
decisioni finanziarie riguardanti direttamente l'Eurozona, a cominciare
dal Mes, il controllo dei disavanzi e la ristrutturazione dei debiti.
Potrebbe votare anche un'imposta comune sulle società e un bilancio
dell'Eurozona che consenta di investire nelle infrastrutture e nelle
università.
Questo nocciolo duro europeo sarà aperto a tutti i Paesi, ma nessuno
deve poter bloccare chi desidera avanzare più in fretta. Concretamente
parlando, se la Francia, la Germania, l'Italia e la Spagna, che
rappresentano insieme più del 75 per cento della popolazione e del Pil
della zona euro, pervengono a un accordo, questo nuovo trattato
intergovernativo deve poter entrare in vigore.
In un primo momento, la Germania probabilmente avrà paura di essere
messa in minoranza in questo Parlamento. Ma non potrà rifiutare
apertamente la democrazia se non vuole correre il rischio di rafforzare
in modo irrimediabile il campo anti-euro. Soprattutto, questo nuovo
sistema rappresenta una proposta equilibrata: si apre la strada a
cancellazioni del debito, ma nello stesso tempo si obbliga coloro che
ne vogliono beneficiare — come la Grecia — a sottomettersi per il
futuro alla legge della maggioranza. Un compromesso è a portata di
mano, se solo si accetterà di mettere da parte conservatorismi ed
egoismi nazionali.
Thomas Piketty è un economista francese specializzato sui temi dell'ineguaglianza sociale. (Traduzione di Fabio Galimberti)
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