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Migranti, se di colpo tutto ci riguarda
di Gad Lerner
Un'emergenza tira l'altra, nel nostro formicaio impazzito. Ci
ricordiamo all'improvviso che Idlib dista da Roma poco più di Aosta da
Trapani. Che la guerra siriana dura ininterrottamente da nove anni,
provocando centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. Che
sciami di miliardi di cavallette capaci di spostarsi in volo di 150 km
in 24 ore stanno divorando le colture in Africa orientale, col rischio
concreto di provocare una carestia tale da mettere a repentaglio la
vita di 19 milioni di africani. Saranno migranti economici pure loro?
Di colpo, tutto questo ci riguarda. Sembra una beffa, ma l'Iraq, non
solo Israele, respinge gli italiani alle frontiere considerandoci
potenzialmente infetti. La carneficina mediorientale ha spalancato le
frontiere turche, via di fuga per i profughi del nord-est siriano
(quasi un milione) rimasti intrappolati nel conflitto che oppone Ankara
a Damasco. Ma ora sono la Grecia e la Bulgaria a tentare di respingerli
coi lacrimogeni prima che imbocchino a piedi le strade che da Salonicco
e Sofia immettono sulla rotta balcanica verso il centro Europa. Mentre
l'isola di Lesbo, la Lampedusa dell'Egeo, non sembra più in grado di
reggere la percentuale di un profugo ogni quattro abitanti. E il
presidente della regione Sicilia, Nello Musumeci, riesuma la formula
stantia del “falso buonismo” per sostenere che le navi delle Ong devono
tenersi a bordo i naufraghi e, a buon peso, anche i settentrionali
italiani farebbero meglio a restare a casa loro.
(...)
USA & NATO SI RITIRANO SCONFITTI DALL'AFGANISTAN
Precisiamo che dal 2014 formalmente la NATO non affianca più gli USA
nella guerra in Alfganistan dove c'è la Resolute Support Mission (vedi
tabella) che ha un diverso ingaggio per conto dell'ONU. Ma è una di
quelle ipocrisie su cui galleggia l'ONU e il resto del mondo se non
altro per una questione di costi dell'assicurazione delle truppe
impegnate. Se un soldato della RSM viene ferito e resta invalido
provvede una assicurazione privata (incidente sul lavoro!) mentre se è
in guerra tocca allo Stato provvedervi.
Attualmente ci sono circa 12.000 soldati statunitensi in Afghanistan
[Operazione Enduring Freedom]e circa 17.000 in più da 39 paesi della
NATO e dei suoi alleati [Resolute Support Mission (RSM)]. In base
all'accordo di dichiarazione, visto da The National, gli Stati Uniti
ridurranno le forze militari a 8.600 e attueranno altri impegni
nell'accordo entro 135 giorni. Diciotto anni dopo, con 2.300 vittime
statunitensi, mezzo milione di morti afgani e mille miliardi di dollari
spesi, la trattativa per la conclusione delle ostilità si svolge con
quegli stessi taliban. Che non sono –la storia passa e insegna a tutti-
neanche più quelli delle origini.
Secondo il documento firmato sabato, ufficialmente chiamato la
"Dichiarazione congiunta tra la Repubblica islamica dell'Afghanistan e
gli Stati Uniti d'America per portare la pace in Afghanistan",
Washington ha dichiarato che collaborerà con partner, compresa la NATO,
per ridurre le loro forze al contemporaneamente. L'evacuazione finale
avverrà entro 18 mesi.
(...)
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PDF: 7,7Mb
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Migranti, se di colpo tutto ci riguarda
di Gad Lerner
Un'emergenza tira l'altra, nel nostro formicaio impazzito. Ci
ricordiamo all'improvviso che Idlib dista da Roma poco più di Aosta da
Trapani. Che la guerra siriana dura ininterrottamente da nove anni,
provocando centinaia di migliaia di morti e milioni di profughi. Che
sciami di miliardi di cavallette capaci di spostarsi in volo di 150 km
in 24 ore stanno divorando le colture in Africa orientale, col rischio
concreto di provocare una carestia tale da mettere a repentaglio la
vita di 19 milioni di africani. Saranno migranti economici pure loro?
Di colpo, tutto questo ci riguarda. Sembra una beffa, ma l'Iraq, non
solo Israele, respinge gli italiani alle frontiere considerandoci
potenzialmente infetti. La carneficina mediorientale ha spalancato le
frontiere turche, via di fuga per i profughi del nord-est siriano
(quasi un milione) rimasti intrappolati nel conflitto che oppone Ankara
a Damasco. Ma ora sono la Grecia e la Bulgaria a tentare di respingerli
coi lacrimogeni prima che imbocchino a piedi le strade che da Salonicco
e Sofia immettono sulla rotta balcanica verso il centro Europa. Mentre
l'isola di Lesbo, la Lampedusa dell'Egeo, non sembra più in grado di
reggere la percentuale di un profugo ogni quattro abitanti. E il
presidente della regione Sicilia, Nello Musumeci, riesuma la formula
stantia del “falso buonismo” per sostenere che le navi delle Ong devono
tenersi a bordo i naufraghi e, a buon peso, anche i settentrionali
italiani farebbero meglio a restare a casa loro.
Un formicaio impazzito, appunto, nel quale migranti e turisti vengono
respinti nel doppio senso di marcia. I sovranisti non si raccapezzano e
sproloquiano tutto e il contrario di tutto: che bisogna ripristinare le
frontiere di Schengen ma nel contempo incentivare l'arrivo dei turisti
stranieri nel paese più bello del mondo. Che dobbiamo dare una lezione
al sultano turco Erdogan colpevole di spalancare le porte d'Europa ai
migranti (il suo paese ne ospita già 3,5 milioni, affari suoi) ma nel
contempo dobbiamo interrompere i finanziamenti miliardari previsti
dall'accordo stipulato fra Ue e Turchia nel 2016.
Cosa non si fa pur di rifiutare l'evidenza: guerre, epidemie,
catastrofi naturali, crisi economiche, sono fenomeni tali da rendere
impensabile fronteggiarli chiedendo i documenti ai confini e
dispiegando la flotta in un blocco navale.
Per anni abbiamo delegato ai peshmerga curdi e ai pasdaran sanguinari
dell'iraniano Soleimani la guerra sul terreno contro i jihadisti
dell'Isis che esportavano il terrore in Europa, supportandoli al
massimo con la copertura aerea e l'addestramento. Le destre europee,
minacciose a parole, si sono ben guardate dal rispolverare le loro
tradizioni militariste quando a morire nei bombardamenti erano i
bambini dei nostri vicini di casa. “Andiamo via di lì”, titolavano i
loro giornali, come a voler ignorare quanto dipendano l'uno dall'altro
quel “lì” e il nostro “qui”. Di fronte al pericolo, abbiamo nascosto la
testa sotto la sabbia.
Una scelta opportunistica che — dopo l'imponente ondata migratoria
dalla Siria, nell'estate 2015 — è stata fatta propria non solo dalle
destre, ma dal concerto dei vertici europei impauriti. La decisione di
finanziare con 6 miliardi la Turchia purché trattenesse i profughi,
l'anno successivo, ricopiava in grande il modello fallimentare del
trattato fra il governo italiano e la Libia di Gheddafi, stipulato nel
2008 e replicato nel 2017 con l'unico intento di contenere il flusso
migratorio.
Come se a originarlo fossero solo i racket dei trafficanti.
Oggi la tragedia siriana viene a chiudere la bocca ai nostalgici che
rimpiangono Gheddafi dopo aver contribuito malvolentieri ad abbatterlo
quando erano al governo. I dittatori non sono mai la soluzione, a
Tripoli come a Damasco. Là dove il sostegno di Putin ha consentito al
rais Assad di asserragliarsi al potere per nove lunghi anni, il numero
dei profughi si è moltiplicato anziché diminuire. E ora che siamo noi a
soffrire l'isolamento provocato dal coronavirus, il cordone sanitario
che ci illudevamo di aver predisposto sul confine turco si rivela
inefficace, né più né meno del Memorandum italo-libico. I tappi prima o
poi saltano, quando si tratta di persone e non di bottiglie.
Presi come siamo dall'emergenza sanitaria che affligge i nostri
concittadini, passano sotto silenzio gli appelli dell'Unicef che invoca
soccorso per la popolazione civile della regione di Idlib. Eppure
dovremmo aver imparato che non si tratta solo di una questione
umanitaria, di civiltà (scusate se vi sembra poco), ma di un interesse
geopolitico vitale dell'Europa paralizzata nell'inazione.
Per paura della guerra, abbiamo finto che fosse lontana.
Abbiamo lasciato marcire il conflitto mediorientale come se si
trattasse di una contesa tra barbari, sciiti e sunniti, delegabile alla
gestione di sultani, zar, ayatollah e califfi. È una lezione storica.
Il pacifismo dei sazi si rivela un morbo che deve ancora trovare un
vaccino efficace, politico, economico e se necessario ahimè militare,
per essere debellato.
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USA & NATO SI RITIRANO SCONFITTI DALL'AFGANISTAN
Precisiamo che dal 2014 formalmente la NATO non affianca più gli USA
nella guerra in Alfganistan dove c'è la Resolute Support Mission (vedi
tabella) che ha un diverso ingaggio per conto dell'ONU. Ma è una di
quelle ipocrisie su cui galleggia l'ONU e il resto del mondo se non
altro per una questione di costi dell'assicurazione delle truppe
impegnate. Se un soldato della RSM viene ferito e resta invalido
provvede una assicurazione privata (incidente sul lavoro!) mentre
se è in guerra tocca allo Stato provvedervi.
Attualmente ci sono circa 12.000 soldati statunitensi in Afghanistan
[Operazione Enduring Freedom]e circa 17.000 in più da 39 paesi della
NATO e dei suoi alleati [Resolute Support Mission (RSM)]. In base
all'accordo di dichiarazione, visto da The National, gli Stati Uniti
ridurranno le forze militari a 8.600 e attueranno altri impegni
nell'accordo entro 135 giorni. Diciotto anni dopo, con 2.300
vittime statunitensi, mezzo milione di morti afgani e mille miliardi di
dollari spesi, la trattativa per la conclusione delle ostilità si
svolge con quegli stessi taliban. Che non sono –la storia passa e
insegna a tutti- neanche più quelli delle origini.
Secondo il documento firmato sabato, ufficialmente chiamato la
"Dichiarazione congiunta tra la Repubblica islamica dell'Afghanistan e
gli Stati Uniti d'America per portare la pace in Afghanistan",
Washington ha dichiarato che collaborerà con partner, compresa la NATO,
per ridurre le loro forze al contemporaneamente. L'evacuazione finale
avverrà entro 18 mesi.
Dopo quasi vent’anni l’America subisce un’altra sconfitta assimilabile
a quella del Vietnam ed anche la NATO subisce la sua prima sconfitta
militare sul campo. Non vedremo le immagini dell’esercito USA travolto
dai Vietcong ma stavolta la fuga è ancora più evidente: non sono stati
in grado di combattere ed hanno sempre subito. USA e Nato hanno
lasciato sul campo oltre cinquemila soldati caduti e le vittime delle
forze avversarie sono almeno due milioni di agfani. I quali sono
37-38milioni su una superficie poco più che doppia dell’Italia. La
posizione geografica dell’Afghanistan è di straordinaria importanza; da
qui si tengono sotto controllo le principali risorse energetiche del
pianeta, ben quattro potenze nucleari (Pakistan, India, Russia, Cina) e
le linee di rifornimento di carburante indirizzate alla Cina.
Questo accordo (bidone) tra gli USA e i telebani significherà una
strage di donne, il ritorno alla schiavitù delle stesse, e di
tutti quegli afgani che credendo in una soluzione democratica,
adesso saranno passati per le armi dai telebani.
Nei prossimi 18 mesi, i talebani e il governo di Kabul inizieranno i
colloqui sul futuro del paese e gli Stati Uniti faciliteranno le
discussioni e mireranno a misure di rafforzamento della fiducia come il
rilascio di prigionieri da entrambe le parti.
Al tavolo di Doha i Talebani hanno capito di aver in mano un potere
immenso e che accelerando il ritiro delle truppe occidentali possono
impadronirsi di tutto l’Afghanistan e tornare davvero in auge. I
Talebani ritengono “illegittima” l’attuale Costituzione afghana e la
considerano un vero ostacolo alla pace. C’è poi un dato di fatto che
sembra essere sfuggito agli americani e cioè che i Talebani non sono
più quelli degli anni 90, quando erano un gruppo di natura nazionale
impegnati a difendere il proprio territorio dai possibili occupanti.
Oggi i Talebani sono inseriti in un network più allargato e
preoccupante che parte dal cosiddetto Pashtunistan i cui abitanti
parlano un’unica lingua, hanno tradizioni comuni e vivono fra le aree
tribali e le province autonome del Pakistan, il turbolento Kashmir
indo-pakistan e ancora la frontiera con l’Iran, etc.
"Siamo impegnati ad avviare negoziati diretti dopo la firma della
dichiarazione di Doha. Abbiamo inviato un team di contatto a Doha per
discutere i dettagli e l'ordine del giorno dei negoziati diretti tra
governo e talebani, ma i preparativi sono generalmente completi ", ha
dichiarato il consigliere senior del Ministero della pace dello Stato
afgano Shoaib Rahim, aggiungendo che una trattativa di 15 membri il
team è stato creato mesi fa dopo una serie di consultazioni. "Sono
pronti a iniziare i colloqui ogni volta che lo decidono.”
Gli Stati Uniti e il governo afghano rilasceranno fino a 5.000
prigionieri mentre i talebani rilasceranno fino a 1.000 prigionieri
entro il 10 marzo.
Un Paese in cui i gruppi estremisti si stanno diffondendo attirando
l’attenzione dei combattenti più giovani, con la delegazione talebana
di Doha che non rappresenta la totalità delle parti coinvolte nella
lotta per il territorio. “Un ritiro entro 12 o 18 mesi come è stato
ipotizzato – commenta Claudio Bertolotti, analista esperto di
Afghanistan per Ispi – non sarebbe che l’ufficializzazione di una
sconfitta di cui avevamo certezza già nel 2012”. “Il problema –
continua l’analista – è che a Doha è rappresentata soprattutto la
vecchia leadership che fa capo alla Shura di Quetta, composta dagli
anziani mujaheddin che si sono arricchiti dopo la cacciata dell’Unione
Sovietica e che oggi cercano di spartirsi il Paese”. Ma tra i Taliban
sono emersi e si sono ingranditi nuovi gruppi di giovani combattenti,
mossi da una forte ideologia rispetto ai vecchi signori della guerra e
con l’aspirazione di trarre profitti economici dai traffici illegali e
dal controllo del territorio che un accordo del genere renderebbe
impossibili. “Il rischio è che questi combattenti escano dalle
organizzazioni di cui fanno parte per andare tra le braccia di gruppi
più radicali e che sposano la causa del jihad globale, come al-Qaeda e
Isis”, dice Bertolotti.
Altro elemento che complica il processo di pacificazione nel Paese è la
sempre più massiccia presenza di jihadisti stranieri tra le fila dei
Taliban, tanto che anche al-Qaeda nel subcontinente indiano (Aqis) ha
iniziato a collaborare nuovamente con loro fornendo combattenti per
sferrare attacchi contro le forze di sicurezza. “L’Afghanistan sta
vivendo l’effetto boomerang del jihadismo di ritorno – spiega
l’analista – Molti mujaheddin che si erano fatti le ossa cacciando i
sovietici negli anni Ottanta erano poi emigrati sposando altre cause,
come la guerra in Bosnia o, più recentemente, il conflitto
siro-iracheno. Oggi, l’Afghanistan rappresenta nuovamente una meta per
aspiranti jihadisti, così nel Paese si sono riversati da fuori numerosi
miliziani afghani, ma anche uzbeki, uiguri, ceceni, arabi e anche
europei che non possono tornare nel vecchio continente. Sono qui per
‘liberare’ l’Afghanistan sotto la bandiera di Isis, al-Qaeda o del
Movimento islamico dell’Uzbekistan (Imu)”. È anche a causa loro se
negli ultimi anni, a fronte di un calo dei singoli attacchi suicidi, si
sono registrati un incremento delle vittime, un aumento del potenziale
offensivo degli attentatori e del numero di persone impiegate per una
singola operazione, passando dall’utilizzo di un singolo shahid a dei
commando armati formati da più combattenti.
Tenendo conto di tutte queste variabili, il presidente Ghani ha
invitato tutti alla prudenza: “Vogliamo la pace rapidamente, la
vogliamo presto, ma con prudenza. La prudenza è importante, non
ripetiamo gli errori del passato”. “Dovremo vedere chi aderirà
all’accordo di pace – conclude l’analista -, chi invece passerà tra le
fila di movimenti più radicali e continuerà a combattere nel Paese.
Vedremo anche se i Taliban saranno disposti ad accettare un cessate il
fuoco e il dialogo diretto con Kabul. Quello che sappiamo, almeno dal
2012, è che abbiamo perso la guerra”.
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