A GUARDARE ALLE COLLINE PAGINA 1136 DEL 29 NOVEMBRE 2019
























































Di cosa parliamo in questa pagina.



















COSÌ COM’É CON L’ESM  VIENE TOLTO DI MEZZO
IL PARLAMENTO EUROPEO E AFFIDATO TUTTO A UN UFFICIO TEDESCO
(...)
La riforma sposta l’asse del potere verso l’organismo e il suo direttore (attualmente il tedesco Klaus Regling), che dovrà avere con il Parlamento Ue un “dialogo”, ma senza alcun vincolo o controllo da parte degli eletti Ue sull’operato del Fondo Salva-Stati e dei suoi membri. D’altronde al direttore viene riconosciuta e maggiormente esplicitata l’“indipendenza” così come quella “del personale del MES” (16. Preambolo). Al Mes viene poi conferita la possibilità di “seguire e valutare la situazione macroeconomica e finanziaria dei suoi membri, compresa la sostenibilità del debito pubblico, e analizzare informazioni e dati pertinenti” - ruolo che ad oggi spetta solo alla Commissione - insieme a quest’ultima e alla Bce (art. 3).
E sempre il direttore, insieme alla Commissione e all’Eurotower, ha il compito di negoziare le condizioni di politica economica necessarie per l’erogazione dell’aiuto al Paese in difficoltà. Ancora: all’articolo 7 viene aggiunto che il “direttore esecutivo e il personale del Mes rispondono unicamente al Mes ed esercitano le loro funzioni in piena indipendenza”. Infine, gli articoli sulle modalità di erogazione dell’assistenza finanziaria riconoscono al Mes un più ampio margine di azione sia nell’apertura delle linee di credito - con la proposta del direttore al Consiglio dei governatori di concessione degli aiuti - sia nel negoziato sulle condizionalità e nella scrittura del Memorandum, sia nella valutazione della sostenibilità del debito, nell’ottica del prestatore (e quindi dei creditori di un Paese in difficoltà).
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STATALIZZARE DI NUOVO
GENIALATE A RAFFICA
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Non c’è niente da fare: se un paese vuole avere un ruolo nel contesto mondiale deve adeguare la sua organizzazione ai modelli in vigore dalla concorrenza mondiale. Metà nord-est d’Italia  è uscito dalla crisi perché s’è riorganizzato adottando modelli nuovi di produzione per fare fronte al modello imperialista della Germania che adotta nella sua area di riferimento (paesi dell’ex impero sovietico). L’altra metà non si è ancora capito che strada voglia prendere: dove va il Piemonte? Dove va la Liguria? Dove va la Toscana turismo di serie B a parte? Dove va il Sud da Roma a Lampedusa? In Libia? In Marocco o Tunisia? Magari qualcosa della Campania e della Puglia è approdato in Albania ma tutta l’Albania è grande come mezza Milano.
Dove può andare una ILVA  grande cinque volte la città dov’è insediata e che costa  di spesa per la salute e invalidità procurate al Paese più di quanto pagano di tasse i suoi dipendenti? Dove può andare un paese con quasi 400 imprese che vendono-rivendono energia e almeno duecento che vendono-rivendono telefonia mobile? Un paese di parassiti che si fanno del male uno all’altro e lo stato osserva inerte.


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le immagini sottostanti possono essere abbastanza grandi: pazienza!































































































































































































































































COSÌ COM’É CON L’ESM
VIENE TOLTO DI MEZZO
IL PARLAMENTO EUROPEO
E AFFIDATO TUTTO A UN UFFICIO TEDESCO
Le mani di Berlino e Parigi sul futuro Mes
Germania e Francia "azionisti" privilegiati del Fondo Salva Stati. Potere di veto e niente segreto per i tedeschi. Le decisioni del MES non passeranno nel Parlamento Europeo.

Ci saranno due azionisti privilegiati nel futuro Mes, il Fondo Salva-Stati aumentato di potere e competenze a discapito della Commissione Europea. Sempre loro: Germania e Francia. Sono loro gli ispiratori d’altro canto con la dichiarazione di Meseberg di giugno 2018 della riforma del Meccanismo Europeo di Stabilità che in Italia sta tenendo sulle spine il Governo Conte. Al di là dei rischi messi in evidenza da Bankitalia e Abi, e da economisti come Carlo Cottarelli, Giampaolo Galli e Lorenzo Codogno sulle possibili agevolazioni per la ristrutturazione dei debiti pubblici inserite implicitamente nella riforma, ci sono altri aspetti non meno meritevoli di attenzione. Uno su tutti: i rapporti di forza in un organismo esterno al quadro giuridico dell’Ue e quindi basato su equilibri intergovernativi e regolati in base alla partecipazione al capitale del Mes.
Va premesso che questi rapporti restano uguali, ma cambia il loro peso in virtù dei maggiori poteri che vengono riconosciuti al Mes a detrimento, giocoforza, di quelli di Bruxelles.

La riforma sposta l’asse del potere verso l’organismo e il suo direttore (attualmente il tedesco Klaus Regling), che dovrà avere con il Parlamento Ue un “dialogo”, ma senza alcun vincolo o controllo da parte degli eletti Ue sull’operato del Fondo Salva-Stati e dei suoi membri. D’altronde al direttore viene riconosciuta e maggiormente esplicitata l’“indipendenza” così come quella “del personale del MES” (16. Preambolo). Al Mes viene poi conferita la possibilità di “seguire e valutare la situazione macroeconomica e finanziaria dei suoi membri, compresa la sostenibilità del debito pubblico, e analizzare informazioni e dati pertinenti” - ruolo che ad oggi spetta solo alla Commissione - insieme a quest’ultima e alla Bce (art. 3).
E sempre il direttore, insieme alla Commissione e all’Eurotower, ha il compito di negoziare le condizioni di politica economica necessarie per l’erogazione dell’aiuto al Paese in difficoltà. Ancora: all’articolo 7 viene aggiunto che il “direttore esecutivo e il personale del Mes rispondono unicamente al Mes ed esercitano le loro funzioni in piena indipendenza”. Infine, gli articoli sulle modalità di erogazione dell’assistenza finanziaria riconoscono al Mes un più ampio margine di azione sia nell’apertura delle linee di credito - con la proposta del direttore al Consiglio dei governatori di concessione degli aiuti - sia nel negoziato sulle condizionalità e nella scrittura del Memorandum, sia nella valutazione della sostenibilità del debito, nell’ottica del prestatore (e quindi dei creditori di un Paese in difficoltà).

In sintesi: il Fondo Salva-Stati incrementa notevolmente il suo potere, ma non cambiano i criteri di voto che sono lo specchio dei rapporti di forza all’interno dell’organismo. E ciò di fatto riconosce ad alcuni Paesi delle condizioni di “palese vantaggio”, per citare un contributo personale scritto ad agosto per Aspenia da Luigi Gianniti. Si tratta al solito di Berlino e Parigi. Nel Mes infatti il diritto di voto non è capitario, ma è diretta conseguenza del valore della propria quota versata al fondo. La Germania ha quote per il 27% del capitale, la Francia del 20% e l’Italia del 17%.
Tutte le decisioni (articolo 4) devono essere prese all’unanimità, anche quelle sul se e come concedere assistenza finanziaria ai Paesi in difficoltà. Tuttavia, chiarisce il comma 2, “per tutte le decisioni è necessaria la presenza di un quorum di due terzi dei membri aventi diritto di voto che rappresentino almeno i due terzi dei diritti di voto”. Di qui, scrive Gianniti, la facoltà per la “Germania insieme a un altro Paese più piccolo di bloccare qualunque decisione, anche quelle adottabili a maggioranza semplice”. Non solo: Germania, Francia e Italia possono bloccare le decisioni d’urgenza, per le quali è necessaria una maggioranza dell′85% dei voti, mentre solo le prime due hanno potere di veto sulle decisioni a maggioranza qualificata (80%), come l’elezione del presidente del Consiglio dei Governatori, la nomina del Direttore generale e l’approvazione dello Statuto del Mes (articolo 5 comma 7).

Detto in altri termini: la riforma incrementa a dismisura i poteri del Direttore, del quale viene rimarcata l’autonomia rispetto al quadro giuridico dell’Ue e sulla cui nomina hanno potere discrezionale assoluto Berlino e Parigi in un’ottica puramente intergovernativa.

Non è finita qui. Perché la famosa sentenza della Corte Costituzionale tedesca del 12 settembre 2012, pur riconoscendo la conformità del Mes alla Legge Fondamentale, ha posto alcune riserve unilaterali alla ratifica da parte di Berlino e tuttora in vigore ai sensi della Convenzione di Vienna del 1969. Primo: che l’impegno della Germania non vada al di là dei 190 miliardi di capitale sottoscritto e che un ulteriore esborso sia approvato preliminarmente dal Bundestag. E poi, che l’obbligo di riservatezza sui lavori del Fondo Salva-Stati, stabilito dall’articolo 34 del Trattato, non si applica nei confronti del Parlamento federale per i membri tedeschi.
Il primo punto ripercorre una prassi normativa tedesca consolidata, quella di non aderire a trattati che abbiano conseguenze di bilancio imprevedibili o non quantificabili, e per questo resta sempre e comunque in capo al Bundestag il potere decisionale su ogni singola misura di importo “large-scale”. La questione è dirimente: il nuovo Mes si propone come “prestatore di ultima istanza”, pur disponendo tuttavia di risorse non illimitate, 700 miliardi in tutto.
Il secondo punto invece riguarda l’indipendenza e autonomia dei membri del Mes stabilita dal Trattato, ma non valida per i tedeschi: come scrive ancora Gianniti, il ruolo dei componenti è considerato “una proiezione diretta della rappresentanza politica nazionale”. Per questo, sono tenuti a informare il Bundestag o la Commissione Bilancio, senza tener conto dell’obbligo di riservatezza. E ancora: “Senza l’approvazione preventiva dell’Aula o della Commissione bilancio del Bundestag, il rappresentante del governo tedesco non può assumere nessuna decisione rilevante nel Consiglio dei governatori o in quello di amministrazione”. Ricorda Gianniti che questo modello è stato seguito anche da altri Paesi come Finlandia e Lettonia. Ma solo la Germania ha potere di veto, e ciò la pone in una posizione di indubbio privilegio nel futuro Mes rafforzato.
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Claudio Paudice

STATALIZZARE  DI NUOVO
GENIALATE A RAFFICA


A evocare la nazionalizzazione di Alitalia come rimedio alla crisi dell’ex compagnia di bandiera è stato il ministro dello Sviluppo Economico, Stefano Patuanelli. «Una soluzione si troverà», dice, ipotizzando così un intervento diretto per mano pubblica, esercitato da un supercommissario o un manager di Stato. «La nazionalizzazione può non essere per forza un evento negativo. Il problema — osserva Patuanelli — è capire se la politica sarà in grado di individuare manager in grado di guidare l’azienda o solo trombati. Tra le ipotesi quella di fare una struttura commissariale che abbia come obiettivo la ristrutturazione e poi la remissione sul mercato o la nazionalizzazione». (Andrea Ducci)
Ad applaudire subito c'è la Cgil: « Accogliamo con favore le dichiarazioni del ministro Patuanelli: è innegabile che per ricostruire le politiche industriali, oggi in evidente crisi, serva istituire un'Agenzia che, come l'Iri, possa rilanciare lo sviluppo del paese. Finalmente – prosegue la Cgil – anche esponenti del governo evidenziano la necessità della partecipazione dello Stato in alcuni tipi di produzione. Serve un coordinamento per lo sviluppo industriale in grado di definire le specializzazioni produttive, governare i processi di innovazione e attuare una strategia nazionale di sviluppo, con una visione unitaria e di medio periodo».

Congelata la questione legale tra ArcelorMittal e l’ex Ilva, la trattativa procede sul piano tecnico e su quello politico. Rimandata al prossimo 20 dicembre l’udienza con al centro il ricorso cautelare dei commissari dell’ex Ilva contro il recesso di ArcelorMittal, la data non sarà comunque risolutiva. Sufficiente, però, «per capire se c’è un percorso da fare insieme», come ha spiegato ieri il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli. Aggiungendo che, «se poi si riuscirà a impostare bene un ragionamento con Mittal, magari sarà necessario avere un tempo un po’ piu’ lungo». In pratica, le parti proveranno entro il 20 dicembre a stilare un memorandum di massima sulle parti del contratto da modificare, restando però entro il margine tra l’offerta di ArcelorMittal e quella di Jindal, per evitare che quest’ultima possa fare ricorso. Se ci riusciranno, quel memorandum verrà successivamente ratificato. I punti chiave da modificare sono quelli relativi all’occupazione e alla più spinta ambientalizzazione chiesta dal governo ad ArcelorMittal. Come ha ribadito ieri anche il premier Giuseppe Conte: «Vogliamo che l’attività produttiva sia assicurata, ma con le nuove tecnologie pulite. E con il massimo livello di occupazione possibile», ovvero esuberi non oltre 2.000-2.500 unità. Quanto al coinvolgimento pubblico, il veicolo individuato è Invitalia — si attende la conferma ufficiale dell’ad Domenico Arcuri, attesa per lunedì — con Cdp e Snam (potrebbe investire fino a 40 milioni in progetti per la città) eventualmente coinvolte nel «Cantiere Taranto», ma non nel capitale di Am Investco, la cordata vincitrice in cui è presente Intesa Sanpaolo con il 5,6%. «Speriamo che il progetto vada avanti. Noi possiamo soltanto sostenerlo», ha sottolineato ieri Gian Maria Gros-Pietro, presidente dell’istituto. (Michelangelo Borrillo)

Autostrade, Grillo: “È tempo di cambiare”. Il Movimento Cinque Stelle torna alla carica sulla revoca delle concessioni ad Autostrade. In giorni in cui anche il Pd sembra aprire alla possibilità di ‘sfilare’ alla società la gestione di una parte della rete italiana, Beppe Grillo e Luigi Di Maio rilanciano il tema. E Giuseppe Conte concorda ricordando che il procedimento amministrativo è in arrivo: “Capisco. Siamo in dirittura d’arrivo e non faremo sconti”, assicura. Per il fondatore del M5s venne assegnata a “condizioni di favore senza eguali” e ora “è tempo di cambiare”. Il leader pentastellato, invece, annuncia che sulla revoca “non faremo un passo indietro” e assicura che “tutto il Movimento 5 Stelle, da me a Beppe Grillo ad ogni singolo eletto e attivista, è determinato in questa battaglia”.  (Fatto Quotidiano).
La decisione annunciata dal Governo Conte di procedere alla revoca della concessione ad Autostrade per l'Italia (gruppo Atlantia) della rete autostradale italiana dopo il crollo del ponte sull'A10, a Genova, dovrà seguire il procedimento previsto dalla Convenzione stipulata da Aspi e Anas nel 2008 che riguarda oltre 2.800 chilometri di autostrada del nostro paese e scade nel 2038 anche se è prevista una proroga di 4 anni (al 2042) dopo il via libera della Ue agli investimenti per fare altre opere, come la Gronda di Genova, a patto di applicare incrementi tariffari limitati. Avviata la procedura c'è il capitolo penali. Se si arriva alla decadenza, infatti, sempre l'articolo 9 della convenzione, stabilisce che «il concedente subentra in tutti i rapporti attivi e passivi, di cui è titolare il Concessionario» ma tale trasferimento «è subordinato al pagamento da parte del concedente al concessionario decaduto di un importo corrispondente al valore attuale netto dei ricavi della gestione, prevedibile alla data del provvedimento di decadenza sino alla scadenza della concessione, al netto dei relativi costi, oneri, investimenti ed imposte prevedibili nel medesimo periodo...».
Il che tradotto in numeri, secondo le stime degli analisti che si basano sui ricavi di gestione di Aspi di circa 1 miliardo l'anno, lo Stato subentrando dovrebbe pagare ad Atlantia una cifra stimata tra 15 e 20 miliardi. Una cifra, che si legge, sarebbe «decurtata, a titolo di penale, di una somma pari al 10%» e quindi si parla di una penale per la società sui 1,5-2 miliardi. (Alessandra Capozzi).

Fatto questo primo quadro potremmo mettere in fila anche altri casi di crisi industriali  (ce ne sono almeno 180 per quasi 200mila dipendenti diretti e indiretti coinvolti) che si stanno trascinando da decenni e nessuna delle quali è stata finora risolta una che sia una neanche dai governi coi 5S e Lega al centro del Parlamento. In buona sostanza il disegno di questa classe politica ormai   allo sbando è quello di caricare addosso ai cittadini tutto il peso di queste crisi, sia in termini di costo del lavoro della manodopera ormai inutile ed anche non più qualificabile se non cambiandogli del tutto posto di lavoro. Il tragico è che siamo in presenza do governi non di estrema sinistra bensì di destra se non di centrodestra sfegatato che torna agli albori del primo fascismo invocando una NEW IRI perché non ha uno straccio di politica industriale.
Noi abbiamo due certezze: se alle imprese  viene permessa una totale mobilità del personale (leggasi: libertà di licenziamento e messa in carico  dello Stato) gran parte di queste 180 crisi si risolvono “da sole” in meno di sei mesi. “Da sole” rispetto agli interessi delle imprese e dei loro padroni: ovviamente.

Non c’è niente da fare: se un paese vuole avere un ruolo nel contesto mondiale deve adeguare la sua organizzazione ai modelli in vigore dalla concorrenza mondiale. Metà nord-est d’Italia  è uscito dalla crisi perché s’è riorganizzato adottando modelli nuovi di produzione per fare fronte al modello imperialista della Germania che adotta nella sua area di riferimento (paesi dell’ex impero sovietico). L’altra metà non si è ancora capito che strada voglia prendere: dove va il Piemonte? Dove va la Liguria? Dove va la Toscana turismo di serie B a parte? Dove va il Sud da Roma a Lampedusa? In Libia? In Marocco o Tunisia? Magari qualcosa della Campania e della Puglia è approdato in Albania ma tutta l’Albania è grande come mezza Milano.
Dove può andare una ILVA  grande cinque volte la città dov’è insediata e che costa  di spesa per la salute e invalidità procurate al Paese più di quanto pagano di tasse i suoi dipendenti? Dove può andare un paese con quasi 400 imprese che vendono-rivendono energia e almeno duecento che vendono-rivendono telefonia mobile? Un paese di parassiti che si fanno del male uno all’altro e lo stato osserva inerte.