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SALVINI & DIMAIO GIOCANO COL MES E L’ART.96
DELLA LEGGE DI BILANCIO PER FAR CRESCERE
LO SPREAD E SPAVENTARE I CITTADINI
All’Assemblea
dell’ANCI (Associazione Nazionale Comuni Italiani) ad Arezzo dei giorni
scorsi dove è stato rieletto presidente il sindaco di Bari il piddino
Antonio Decaro si sono rimandate alla prossima riunione con i sindaci
del 27 novembre a Palazzo Chigi due questioni molto importanti, come il
fondo sui crediti di dubbia esigibilità e la partita delle
semplificazioni. Il PdC Conte ha anche accennato alla riforma del
Tuel su cui ha chiesto “di condividere eventuali proposte” e alla
partita dei segretari comunali. Nei prossimi giorni (forse)
leggeremo qualcosa (sui giornali nazionali) del sentiment dei sindaci
ma dopo l’esperienza subita (male, in danno) dai comuni col fiscal
compact (ormai abolito) , il caos introdotto con le varie leggi
sui lavori pubblici (dove la semplificazione introdotta è stata
applicata al contrario dalla stragrande maggioranza dei dirigenti dei
comuni) il problema della presenza nei bilanci dei “crediti di
dubbia esigibilià” viene letta in maniera opposta dallo stato centrale
rispetto agli enti locali. Questi crediti comprendono le multe la tari
la tasi l’imu le rate dei condoni e moltissimi altri
tributi locali che cittadini e imprese non hanno pagato a tempo debito
agli enti locali. Ci sarebbero in ballo 19 miliardi di euro (di
crediti degli enti locali.
In merito tira sostanzialmente quest’aria: i comuni non si lamentino
dei tagli o delle poche risorse che lo Stato Regioni e Province
trasferiscono loro ma si diano da fare per riscuotere dai loro
cittadini evasori ed elusori questi crediti. Oggi i Comuni che
vorrebbero riscuotere una multa non pagata dovrebbero fare una causa
civile che potrebbe durare fino al terzo grado di giudizio e magari nel
frattempo il soggetto muore, resta senza soldi e beni e al comune
restano i danni e la beffa.
Per esempio ci sono enti locali che non pagano altri enti locali: i
comuni “dovrebbero” ricevere i rimborsi dei servizi prestati ai
disabili dopo la scuola dell’obbligo ma prima le province e poi
le regioni non hanno più pagato o pagano a spizzichi e bocconi.
Poi è arrivato l’articolo 96 della Riforma della riscossione enti
locali e da li è venuta a galla la questione. La fake news nasce
da un copia e incolla dell’articolo di apertura de Il Giorno, che
titola Occhio alle multe, pignoramenti veloci e parla di “una nuova
grana inserita sottotraccia nella legge di Bilancio che rischia di
esplodere”. In realtà però la novità è contenuta nella legge di
Bilancio, fin dalla bollinatura arrivata a fine ottobre, dove c’è un
articolo ad hoc (il 96 appunto).
Salvini e l’intero centrodestra hanno avuto buon gioco nel passare alla
stampa l’idea che gli enti locali potranno rivalersi direttamente sui
soldi dei debitori attingendo svuotando i loro conti, salari stipendi
pensioni.
Evidente come questa soffiata diventi esplosiva nel momento in
cui è in corso sia l’approvazione della legge di Stabilità e sono
all’orizzonte importanti scadenze elettorali regionali.
Il leader della Lega Matteo Salvini si manifesta esterrefatto:
"Se entrano nel tuo conto corrente per pignorare, secondo me siamo
all'Unione sovietica fiscale, lo stato di polizia fiscale".
Dimenticando che già oggi succede. E che lo stesso viceministro
leghista all'Economia Massimo Garavaglia nel governo Conte 1
sponsorizzava la riforma della riscossione degli enti locali, visto che
il non riscosso degli enti locali è pari a 19 miliardi. Riforma portata
avanti dalla sua collega, riconfermata viceministra all'Economia nel
Conte 2, la pentastellata Laura Castelli.
Sempre di queste ore la polemica innescata da DiMaio sul “Mes”.Da
settimane sui social spopola l’hashtag #StopMes e molti accusano il
Governo di aver firmato una riforma segreta del meccanismo europeo di
stabilità che ruberà i soldi agli italiani. Ma la firma non c’è ancora
stata e il Parlamento può bloccarla. «Pare che nei mesi passati Conte
abbia firmato di nascosto, magari di notte, un accordo in Europa per
trasformare il Fondo Salva Stati in fondo ammazza Stati» ha accusato
Matteo Salvini su Facebook. Il segretario della Lega e la leader di
Fratelli d’Italia Giorgia Meloni hanno chiesto a Conte di riferire in
aula per difendersi dall’accusa di Alto Tradimento.
Primo, la riforma non è stata ancora approvata.
La firma è prevista per il Consiglio europeo di dicembre, ma dovrà
essere ratificata dai 19 Parlamenti nazionali dei Paesi con l’Euro.
Secondo, lo scorso 19 giugno Conte ha informato la Camera sullo stato
dei lavori e ha accettato una risoluzione in cui si impegnava a dare
l’ok su un pacchetto completo di riforme che oltre al Mes comprendesse
lo Schema europeo di garanzia sui depositi (Edis) e il budget dell’area
Euro. E soprattutto non penalizzasse l’Italia. «Non si proceda con
singole approvazioni o singoli approfondimenti senza procedere
unitariamente» aveva spiegato in azzeccagarbugliese Conte.
Già, a giugno, quando Matteo Salvini era vicepresidente del Consiglio e
governava con il Movimento Cinque Stelle. Perché la Lega non ha
denunciato la riforma a quel tempo? Non solo. Secondo il MeF prima che
scoppiasse il caso mediatico, il ministro dell’Economia Roberto
Gualtieri aveva chiesto il 7 novembre al presidente della Commissione
Finanze Alberto Bagnai di essere ascoltato sulla riforma. Sarà sentito
il 27 novembre.
Una più puntale descrizione del problema la trovate qui:
https://www.linkiesta.it/it/article/2019/11/20/mes-riforma-conte-parlamento-salvini/44433/
.
Ed anche questo:
https://www.lavoce.info/archives/54036/nuove-clausole-per-le-crisi-del-debito-si-rischia-il-circolo-vizioso/.
Salvini era partito lancia in resta e subito dopo la scimmietta
avellinese si è aggregata al coro: Luigi Di Maio si è subito schierato
con i suoi deputati e oggi ha detto al Corriere della Sera che «una
riforma del MES che stritola l’Italia non è accettabile».
Gli attacchi di Salvini e Di Maio al PdC Conte sono arrivati in maniera
abbastanza inaspettata, non solo perché in questo momento non ci sono
novità particolari su questo fronte, ma anche poiché è la prima volta
che i due leader politici – prima avversari, poi alleati, oggi di nuovo
avversari – criticano una riforma con cui hanno avuto a che fare sin
dall’inizio del suo percorso, nel giugno del 2018. I principi su cui si
basa il testo in discussione, per esempio, sono stati approvati dai
capi di governo europei, Conte compreso, nel dicembre 2018, quando
Salvini e Di Maio erano in maggioranza, mentre i dettagli sono stati
approvati a giugno 2019 dai ministri dell’Economia dell’eurozona
(sempre con Salvini e Di Maio alleati).
Ma cosa spaventa le banche del MES? Le banche sono in possesso di 400
miliardi in titoli e un taglio comporterebbe ovvie penalizzazioni.
Accusano il governo di averle tenute fuori dalla discussione, che per
la verità si è svolta a Bruxelles (dove l’Abi ha un ufficio) in sedute
non segrete. La stessa Abi comunque si è detta tranquillizzata dalle
precisazioni di Gualtieri.
Debolezza tanto più evidente quando si parla di riforme, come il Mes,
in cui il convitato di pietra è il nostro debito pubblico: immenso e
sotto la spada di Damocle di una possibile ristrutturazione, totale o
parziale, come pre-requisito per accedere eventualmente ai benefici del
fondo, in caso di necessità.
La novità è l’euroscetticis- mo di ritorno del M5S. È il ministro degli
Esteri Luigi Di Maio che dice al Corriere di non volere altri «colpi
bassi» da Bruxelles contro l’Italia, smentendo di fatto Conte.
Provenendo dalla formazione maggiore dell’esecutivo, si tratta di un
segnale non da poco. L’aspetto positivo attribuito alla coalizione tra
M5S e Pd, nata in modo rocambolesco dopo la crisi agostana provocata da
Salvini, è il riaggancio con l’Ue.
La ricomposizione è stata certificata quando i grillini a Strasburgo
hanno contribuito all’elezione della presidente della Commissione,
Ursula von der Leyen; e con la scelta dell’ex premier del Pd, Paolo
Gentiloni, come commissario europeo agli Affari economici.
Conte é stretto tra due fuochi: quello di Bruxelles - era stato lui con
l’allora ministro Giovanni Tria a lavorare alla trattativa sul Mes - e
quello interno, sempre più incandescente. Non cita Salvini, ma è a lui
che si riferisce partecipando ad Arezzo all’assemblea Anci e
sottolineando come «da marzo a giugno 2019 abbiamo avuto quattro
incontri con i massimi esponenti della Lega, in cui abbiamo affrontato
tutti i risvolti. Oggi - dice - la stessa persona e lo stesso partito,
scopre l’esistenza del Mes e grida allo scandalo. Quando si partecipa
ai tavoli a propria insaputa e poi si disconosce quanto deciso, si
assume un atteggiamento irresponsabile ». E Salvini, a stretto giro:
«Il signor Conte è bugiardo o smemorato. A quei tavoli abbiamo sempre
detto di no al Mes». La partita è tutt’altro che chiusa.
La mossa della coppia SalviMaio va inquadrata non tanto osservando il
dettaglio ma inserendola nella situazione nazionale. Appare evidente
come da un lato ci sia un Salvini che ha mollato il governo immaginando
una strada in discesa verso la presidenza del consiglio e dall’altro
lato DiMaio si stia ancora mangiando le unghie per avere rifiutato la
promessa salviniana di fargli fare il PdC.
Salvini adesso si trova davanti al serio problema che se perde le
elezioni in Romagna la sua storia comincerà a ruotare al
contrario e i suoi possibili alleati gliene faranno una colpa non
proprio di quelle leggere. DiMaio ormai si rende conto che
la bugia del non presentarsi alle elezioni regionali
fingendo una verginità anche rispetto al PD la bevono solo i suoi
scagnozzi (forse neanche la metà dei parlamentari 5S) che lo
sopportano soltanto per tirare a riscuotere il più a lungo possibile la
prebenda parlamentare.
Del resto anche Salvini ha dentro la Lega una figura molto solida e
ingombrante: Giorgetti che -quand’anche la Lega vincesse le prossime
elezioni politiche anticipate- sarebbe il candidato PdC. Non certo
Salvini che l’ha subito stoppato quando il Giorgetti se ne è uscito col
“proporre un «tavolo» alla maggioranza sui nodi più intricati del
Paese” perché «qui tutti fanno i fenomeni e nessuno si occupa del
sistema nazionale», ha spiegato: «La Fiat se n’è andata. whirlpool se
ne va. ArcelorMittal sta per farlo. Le imprese italiane ormai faticano
persino a esportare. La grande finanza internazionale sembra volerci
mollare. Lo spread sta risalendo. Fra tre mesi vanno in scadenza
miliardi di obbligazioni delle più grandi aziende di Stato, e non oso
pensare cosa accadrebbe se quelle obbligazioni non venissero rinnovate.
Insomma, qui viene giù tutto», e il rischio in prospettiva è di vincere
le elezioni mentre nel frattempo si è perso il Paese. Fine della
citazione.
Salvini è anche a corto di cartucce da sparare sia sulla Legge di
Stabilità che sull’immigrazione e quindi ecco le due trovate
“geniali” che mirano a fare molto male agli italiani e
soprattutto cercano di mettere in crisi il governo.
La sparata della coppia infame SalviMaio riedito sul MES ha
mirato e mira a mettere in allarme i mercati e quindi a fare salire lo
spread che già si è mosso sia pure –per adesso- per ragioni esterne
alle vicende ed all’economia nazionale. Se la reazione del governo
giallo verde non fosse più che certa e stabile e unanime -DiMaio s’è
sfilato salvo fare marcia indietro senza confessarlo e chiedere
scusa- era probabile che lo spread sarebbe arrivato a quota 200,
mettendo in seria crisi il governo con la Legge di Stabilità in
fieri.
In parallelo è stata gettata in pasto ai media la notizia che
dall’anno prossimo gli enti locali svuoteranno i conti correnti,
pensioni e salari di chi non ha pagato multe stradali e tasse locali.
Visto che nel BelPaese assieme ai 200 miliardi di evasione
elusione ci sono 19 liardi di tributi agli enti locali non
pagati, di cittadini e imprese hanno qualche cartella non onorata
alle spalle, stando alle statistiche: salvo che poi fanno tutti la voce
grossa sul… contrario.
Insomma siamo di fronte ad una coppia di nuovi “fronti” della battaglia
politica e adesso si vedrà come reagisce il governo giallo rosso. Che
di testicoli ne annoverano parecchi pure i rossi.
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IL BUON GIORGETTI OGNI TANTO RIAPPARE
Cominciamo coloratisismi Graffi di Francesco D’Amato. Sia pure molto
fuori stagione rispetto alla Pasqua ma forse spinti dal continuo
aggravamento delle condizioni della maggioranza giallorossa -tra
Venezia che affonda, Taranto che si vede spegnere gli altiforni dai
gestori indiani passati almeno in questo dalla parte dei magistrati
impegnati da tempo sullo stesso percorso, i mercati che tornano ad
essere dubbiosi sull’Italia, se mai avevano davvero smesso di esserlo,
il Pd tentato dalla rottura e Beppe Grillo sempre più sconcertato e
silenzioso di fronte al “marasma” del suo movimento raccontato ormai
anche dal quotidiano al quale lui affida ogni tanto le sue ispirazioni
giornalistiche – al Corriere della Sera hanno pensato di fare risorgere
il vice segretario leghista ed ex sottosegretario a Palazzo Chigi
Giancarlo Giorgetti. Del quale non più tardi di martedì scorso avevano
sepolto a pagina 10 nel “gelo” attribuito a Matteo Salvini la proposta
di un “tavolo” o di una maggioranza “costituente” per realizzare una
serie di riforme necessarie a garantire un minimo di governabilità a
questo Paese sfinito da una lunghissima crisi di sistema. La proposta
del buon Giorgetti è stata riesumata a pagina 13, ancora più avanti
della pagina 10, da Francesco Verderami ma questa volta con l’onore, la
dignità e quant’altro di un richiamo in prima composto e titolato senza
spirito liquidatorio, tradotto in una “mossa per non governare sulle
macerie”, chiunque dovesse riuscire a vincere le elezioni, quando
riusciremo a tornarvi, ottenere dal capo dello Stato le chiavi di
Palazzo Chigi e strappare la fiducia delle Camere.
Oggi 22 novembre Marco Cremonesi sul Corriere torna a intervistare il
Giorgetti e si legge che in ordine alla legge elettorale il mattarellum
ha dimostrato di funzionare. Ovvio visto che il centrodestra potrebbe
aspirare col 40% dei voti ad avere ¾ dei parlamentari. Una presa per i
fondelli ad ogni ragionamento.
Della prima intervista di Giorgetti e delle sua proposte ne ha parlato
anche Beniamino Caravita professore ordinario di diritto pubblico
alla Sapienza che ha concluso: “la scelta di riforme organiche e
onnicomprensive della legge elettorale e della riforma costituzionale è
stata bocciata due volte dagli italiani. Quella delle cd. riforme
puntuali ha partorito il mostriciattolo di una demagogica e incoerente
riduzione del numero dei parlamentari. Siamo sicuri che non c’è una
strada intermedia? E, soprattutto, siamo sicuri che la proposta
lanciata da Giorgetti di un “tavolo per le riforme”, per quanto appaia
politicamente “irrealistica” (ma di realismo si può morire...), non
debba essere approfondita con più attenzione? E ciò nell’interesse
comune a non trovarsi a governare un Paese di cui Taranto e Venezia
sembrano essere la drammatica rappresentazione”.
In tutto questo chiacchierare di riforma della legge elettorale (e di
una riforma costituzionale) manca sempre il vero soggetto da
rispettare: l’elettore. Elettore cui va data VERA possibilità di essere
rappresentato, di potestà di scelta, di rispetto per i cinque anni
della legislatura delle scelte fatte. E il primo rispetto della classe
politica verso l’elettore dovrebbe essere quello di non fare una
dozzina di leggi elettorali in setta anni di repubblica salvo
prometterne una nuova ad ogni nuovo governo.
Ecco pertanto la nostra idea. Alle elezioni politiche del 94
marzo 2018 potevano votare 46,5 milioni di elettori ed hanno
invece votato solo 33,9 milioni.
Noi pensiamo a una sistema elettorale perfettamente proporzionale che
elegga un deputato ogni 100mila voti validi raccolti in tutti i collegi
d’Italia. Sistema perfettamente proporzionale ed eventualmente anche a
doppio turno. Il parlamento, formato quindi da una sola camera, poteva
essere formato potenzialmente da 465 componenti mentre in realtà ne
avrebbe visto eletti solo 340. In questo modo la decisione sul
numero dei componenti il parlamento resta nelle mani degli elettori.
Votano tutti gli italiani che hanno compiuto 18 anni com’è adesso per
la Camera.
Con questo sistema un governo poteva avere la maggioranza solo se
disponeva di 171 deputati che sarebbero appartenuti al partito o alla
coalizione –dichiarata quest’ultima prima della tornata elettorale- che
avessero raggiunto appunto 171 eletti.
Possono però accadere combinazioni differenti e quindi per dare
stabilità ad un esecutivo che abbia una dote di consensi sensatamente
maggioritaria, se un partito o una coalizione raggiungono alla
prima tornata elettorale il 40%+1 dei voti validi disporranno di 175
eletti (tra quelli che hanno raggiunto i numeri più elevati) e i
rimanenti saranno scelti nei rimanenti 340-175=165.
Nel caso che nessun partito o coalizione raggiunga alla prima tornata
elettorale il 40%+1 dei voti la domenica successiva si celebra il
secondo turno tra le due formazioni (partiti o coalizioni) che hanno
ottenuto maggiori consensi al primo turno. In questa situazione, anche
per incentivare la partecipazione al voto anche di quelli che
hanno votato diversamente al primo turno, il parlamento sarà
formato sempre da 165 componenti di minoranza e 175 componenti
assegnati al partito o coalizione uscito vincitore alla seconda
tornata. La maggioranza che si forma in questo modo non chiede la
votazione di fiducia alla camera essendo titolata dall’elettorato.
Assieme alla legge elettorale vanno però modificate anche alcune
regole coerenti con la stessa. Il governo per restare in
carica DEVE avere la maggioranza SOLO per alcune votazioni
fondamentali: il DEF, la Legge di Stabilità, il Bilancio Consuntivo, la
dichiarazione di guerra o l’invio di truppe all’estero, il piano
energetico e industriale nazionale (che vanno votati e aggiornati ogni
anno entro 90 giorni dalla Legge di Stabilità), il recepimento delle
leggi UE e internazionali. Per tutto il resto le leggi sono votate con
la sola maggioranza dei votanti ed è esclusa la possibilità di
legiferare attinente su temi etici.
Non è consentito agli eletti di cambiare partito (non esiste un gruppo
misto) e in tal caso perdono il seggio e vengono sostituiti dal
primo più votato del suo partito. Nell’assemblea dei capigruppo però
le votazioni tengono conto del peso politico reale guadagnato da
ciascun gruppo. Nelle commissioni possono essere immessi anche dei non
eletti scelti comunque tra quelli più votati in ordine numerico
Siccome le elezioni si tengono ogni cinque anni poichè questo è
l’impegno assunto dai vari candidati coi propri elettori se la
maggioranza in carica durante una delle nove votazioni fondamentali
finisce in minoranza, se entro due settimane ci sono partiti o
coalizioni che vanno dal presidente della repubblica per presentare un
nuovo governo, il relativo programma e una maggioranza coerente, la
composizione del parlamento cambia assegnando a questo partito o
coalizione la maggioranza dei 175 seggi. In questo caso la nuova
coalizione di maggioranza va in parlamento e chiede il voto di fiducia
sul programma.
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