A GUARDARE ALLE COLLINE PAGINA 1125 DEL 05 NOVEMBRE 2019
























































Di cosa parliamo in questa pagina.



















STORIA E GEOGRAFIA FANNO CAPIRE
PERCHÉ È FINITA LA STORIA
DELL’ACCIAIO A TARANTO
1 - L’impianto di Taranto è stato il primo grande progetto di creare industria al Sud, la localizza zione viene decisa nel 1959 dall’ente che gestiva l’indus- tria pubblica, l’Iri. Per prepa- rare l’area vennero abbattuti 20.000 alberi di ulivo e anti- che masserie, la produzione del  primo altoforno comincia nel 1964. Per vendere l’ex Italsider di Taranto, nel 1993, il gruppo Iri guidato da Romano Prodi crea una nuova società, l’Ilva Laminati piani, ripulita dalla zavorra dei debiti, circa 7000 miliardi di vecchie lire che restano nella vecchia Ilva messa in liquidazione alla fine del 1993. Con l’Ilva venduta a Riva entra in possesso di un gruppo con impianti nuovi che in seguito al boom dei prezzi produce utili al ritmo di 100 miliardi di lire al mese. Per tutto questo Riva paga un prezzo di 1460 miliardi di lire «salvo con- guaglio» stabilisce il con- tratto messo a punto dopo un serrato braccio di ferro con lo Stato venditore rappresen- tato dall’Iri, dove nel frat- tempo è tornato come presi-dente Michele Tedeschi. Dentro l’Ilva ci sono anche debiti finanziari netti per 1500 miliardi di lire, un indebitamento basso rispetto alle dimensioni della società, e il fatturato è di quasi 9000 miliardi di lire. Con l’acquisizione il gruppo Riva triplica la produzione e quadruplica il giro d’affari a circa 11.500 miliardi.
(...)

IL PAESE REALE NTATO
Scriveva Bergamo news ai primi di marzo 2019: Ripulire i fiumi dalla plastica per ridurre l'inquinamen to nei mari. È questo l'obietti- vo di “Puliamo il mare, partendo dal nostro Brembo”, l'iniziativa ideata dalle Guardie Ecologiche Volontarie del Plis Basso Brembo e che sabato 9 e domenica 10 marzo vedrà protagonista il fiume bergamasco.  “Ogni anno ci occupiamo della pulizia di parchi e aree verdi, tuttavia, notando quanto sia forte il problema della plastica nei mari, abbiamo pensato che fosse necessario fare qualcosa anche noi – spiega Roberto Doneda, membro delle Guardie Ecologiche Volontarie -. Abbiamo così deciso di ripulire i nostri fiume, poiché parte della plastica presente nei mari giunge da questa”.
Ed anche le madamine della giunta Serra ieri e Gamba oggi si sono precipitate assieme ai volontari nel fiume Brembo a raccattare plastica e rumenta varia. Come tutte le persone ignoranti  -nel senso che NON CONOSCONO i problemi- questi volontari non vedono che la vegetazione  e i sassi del fiume sono generosamente orlati di merda secca – vale a dire batteri fecali in dosi massicce seppure essicati- proveniente dalle fogne che si scaricano nei fiumi ad onta di coloro che pretendono di far crede che non ci siano fogna che vi si scaricano. Quest'anno “tirava” la plastica salvo che come al solito arriva chi è un po' più informato e competente delle madamine and company –Antonio Marfella*- che scrive: Le microplastiche sono piccoli pezzi di plastica invisibili all'occhio umano senza l'ausi- lio di un microscopio. I biologi marini concordano che la maggior parte delle microplastiche che stanno danneggiando la biosfera, il mare e la salute umana provengano non già dalle macroplastiche che in modo ben evidente ormai infestano tutti i mari del mondo (bottiglie di plastica, contenitori, ecc, non riciclati) ma dal lavaggio dei tessuti sintetici nelle nostre lavatrici. Un solo indumento sintetico può rilasciare fino a 1.900 microfibre quando viene lavato in lavatrice. Così le microplastiche entrano nella catena alimentare, con impatto chiaramente negativo sul pianeta e di grave danno sulla salute umana. I ricercatori dell'Università di Plymouth hanno scoperto che un carico di lavatrice di 6 kg può rilasciare più di 700mila microplastiche….Combattere l'uso eccessivo ed indiscriminato di un bene prezioso ma sottovalutato in termini di pericolosità come le plastiche è perciò un dovere di qualunque governo in qualunque parte del mondo.

*Antonio Marfella: Dirigente Responsabile SSD Farmacoeconomia c/o Direzione Sanitaria Aziendale dell'IRCCS Fondazione Sen. G. Pascale.
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le immagini sottostanti possono essere abbastanza grandi: pazienza!
































MURI1



MURI2






























































































































https://www.corriere.it/dataroom-milena-gabanelli/ilva-che-fine-ha-fatto-miliardo-sequestrato-riva/50d7c960-91e5-11e9-81ea-34a7d4819417-va.shtml




































































COMMENTO


C'è un evidente parallelo tra la vicenda del viadotto Morandi a la storia o la fine dell'ILVA di Taranto. Magari alla politica ed ai giornaloni regime fa comodo non vedere che a Taranto –come a Genova- non c'è “solo il problema ILVA che sicuramente è maggiore e il più impellente ma Taranto significa acciaio (ILVA), cemento (CEMENTIR),  industria chimica (raffineria ENI), estrazione materiali lapidei  e discariche (ITALCAVE: dove finiscono anche gli scarti delle industrie tarantine, Ilva compresa ) senza dimenticare i tre maxi moli civili e quello militare.
A Genova cosa é successo? Mettendo in fila le date degli eventi ci si rende conto che i problemi del viadotto Morandi (erano SEI, due per ciascuna delle tre pile) vennero trattati sulla prima pila finchè non cominciò a circolare la voce della privatizzazione delle autostrade  e quando accadde l'evento (la privatizzazione) , nonostante fosse evidente che i problemi rilevati (e risolti) sulla prima pila esistessero anche sulla seconda e terza la manutenzione delle due pile venne dimenticata e rimandata mentre comunque i pedaggi ingrassavano il nuovo padrone. Anche li sostanzialmente chi vendette  le autostrade rifilò al neo acquirente qualcosa che  doveva essere già stato messo in sicurezza facendo leva sull'omertoso silenzio  tra venditore affrettato ed affamato che sapeva di dovere sbolognare un mezzo bidone e compratore che sapeva di poter fare il bello e il cattivo tempo. E se le cordonature in testata delle tre pile dovevano essere rifatte del tutto una dopo l'altra e in tempi stretti , ne venne rifatta una (1993-95) e per le altre… aspettiamo. La privatizzazione avvenne nel 1999 ma sostanzialmente lo staff tecnico dirigenziale ed amministrativo non cambiò  passando dal pubblico al privato.
A Taranto è successo lo stesso coll'ITALSIDER. Una fabbrica governata non da principi economici ed ecologici  minimamente corretti ma da una connivenza-convivenza  abbastanza criminale  di interessi tra  politica sindacato cittadini prima ha portato al fallimento l'impresa che è stata sbolognata per disperazione se non per connivenza a un privato che s'è messo di buzzo  a farla rendere finchè nel 2012 il bubbone salute-lavoro è scoppiato per merito di una coraggiosa gip Patrizia Todisco  che ha ordinato il sequestro senza facoltà d'uso sei impianti. Meno male senza una strage come a Genova. Si legga anche l'interessante link del Corriere.

STORIA E GEOGRAFIA FANNO CAPIRE
PERCHÉ È FINITA LA STORIA
DELL’ACCIAIO A TARANTO

1 - L’impianto di Taranto è stato il primo grande progetto di creare industria al Sud, la localizza zione viene decisa nel 1959 dall’ente che gestiva l’indus- tria pubblica, l’Iri. Per prepa- rare l’area vennero abbattuti 20.000 alberi di ulivo e anti- che masserie, la produzione del  primo altoforno comincia nel 1964. Per vendere l’ex Italsider di Taranto, nel 1993, il gruppo Iri guidato da Romano Prodi crea una nuova società, l’Ilva Laminati piani, ripulita dalla zavorra dei debiti, circa 7000 miliardi di vecchie lire che restano nella vecchia Ilva messa in liquidazione alla fine del 1993. Con l’Ilva venduta a Riva entra in possesso di un gruppo con impianti nuovi che in seguito al boom dei prezzi produce utili al ritmo di 100 miliardi di lire al mese. Per tutto questo Riva paga un prezzo di 1460 miliardi di lire «salvo con- guaglio» stabilisce il con- tratto messo a punto dopo un serrato braccio di ferro con lo Stato venditore rappresen- tato dall’Iri, dove nel frat- tempo è tornato come presi-dente Michele Tedeschi. Dentro l’Ilva ci sono anche debiti finanziari netti per 1500 miliardi di lire, un indebitamento basso rispetto alle dimensioni della società, e il fatturato è di quasi 9000 miliardi di lire. Con l’acquisizione il gruppo Riva triplica la produzione e quadruplica il giro d’affari a circa 11.500 miliardi.

2 - Il gruppo ILVA nacque nel dopoguerra con lo stabilimento di Genova Cornigliano ma è con la realizzazione del centro siderurgico di Taranto, numero 1 in Europa, che rafforza la sua posizione diventando un grande produttore di acciaio. La prima pietra del sito di Taranto viene posta il 9 luglio del 1960. Segue, negli anni ’70, il raddoppio che configura la fabbrica-colosso: cinque altiforni, due acciaierie, parchi minerali, pontili portuali, treni nastri e tubifici. Acquistata nel 1995 dalla famiglia Riva, l’azienda colosso della siderurgia finisce sotto inchiesta nel 2012 per disastro ambientale. Poi il commissariamento e l’assegnazione ad ArcelorMittal.

3 - Una acciaieria è sempre una formidabile consumatrice di acqua e la nascita  dell’acciaieria non resta opera solitaria. Gli anni ’60-’70 vedono la creazione di numerosi invasi (dighe) sui fiumi della Basilicata tutti progetti che avengono venduti come idea per lo sviluppo dell’irrigazione delle campagne lucane e pugliesi con la favoletta che diventeranno una “Calinfornia del Sud” mentre in realtà le grandi tubazioni corrono tutte verso Taranto e quella acciaieria. Alla gente della Basilicata e della Puglia vennero vendute le promesse di una rinascita che avrebbe combinato  orticultura frutticoltura e industria cui si unì anche la scoperta del petrolio nel Basentano. Dimenticando  dei particolari molto importanti: la distanza di quelle terre dai luoghi di produzione e consumo e senza sviluppo di infrastrutture per i trasporti rapidi e refrigerati e di mercati all’ingrosso capaci di raggiungere il nord Europa. L’acciaio di Taranto DEVE  essere portato tutto al nord per le lavorazioni intermedie e finali. La frutta e la verdura (e i fiori) delle campagne pugliesi e lucane devono arrivare ai grandi mercati dell’Emilia Romagna per essere smistati poi ai centri di lavorazione della GdO. Tutti trasporti su gomma.

4 - Quelli – gli anni ‘60-‘70-furono anche gli anni dei c.d. Piani Verdi uno e due che  fecero la fortuna della Fiat trattori assieme a quelli della Fiat autocarri.
I braccianti e i mezzadri lucani già usciti stremati dalla prima assegnazione delle terre agli ex combattenti  post prima guerra mondiale; usciti stremati dalla seconda Riforma Agraria del 1950 che li aveva visti tutti abbandonare le terre ed approdare  al Nord, adesso vengono nuovamente illusi che abbandoneranno il ciuco o l’ape (l’asinello e l’ape.car erano i mezzi con cui i contadini degli anni ’50-’60 andavano a coltivare le terre lasciando i paesi per le campagne)  e prenderanno le corriere per Taranto, colà assunti in base alla fedeltà politica ed a una rigida suddivisione (lottizzazione) tra partiti e sindacati. Sono assolutamente convinto che tutto il mondo politico e sindacale sapesse allora come oggi come esistessero  -sottintese- tra le condizioni di vendita ci fosse quella per cui lo stabilimento avrebbe «tirato avanti» fin quando possibile. Lo Stato si liberava di un “debito” e faceva “cassa” salvo che in mano ai privati non costituiva più un debito per quelli.

5 - “Quando, nel 1882, lo Stato italiano decise di impiantarvi l’Arsenale militare e la più grande base navale militare del Paese, Taranto – neppure 25mila abitanti – cedette un pezzo di affaccio a mare sul Mar Piccolo. Pressappoco novanta ettari vennero destinati all’insediamento con cui la Difesa mise radici nella città”. Poi negli anni ’60 fu la volta di Italsider “si è portata via, con la nascita dell’Italsider (diventata in seguito Ilva, poi venduta al Gruppo Riva nel 1995, infine passata a ArcelorMittal nel 2018), poco più di 1500 ettari, cancellando vigneti, uliveti, masserie. Ai quindici chilometri quadrati si sono aggiunti quasi contestualmente i 275 ettari della raffineria e i 31 del cementificio Cementir”.
 “Lo stabilimento siderurgico annaspa, fermo a poco più di 4 milioni di tonnellate di acciaio liquido prodotto nel 2019”, scrive ancora la Gazzetta del Mezzogiorno. “Dal mercato dell’acciaio arrivano pessime notizie in prospettiva. Dopo un buon 2018, il 2019 è molto difficile per l’acciaio italiano: la produzione dell’intero anno è vista in calo del 4,1%, contro un ribasso medio per i Paesi dell’Unione europea del 3,1%. Per l’Italia male le previsioni di vendita dei prodotti piani (i principali dell’ArcelorMittal ex Ilva di Taranto, ad esempio), che quest’anno dovrebbero essere in calo del 2,5%. Tutto ancora a vantaggio – secondo i dati di Siderweb – della Cina: nei primi otto mesi il gigante asiatico ha già incassato un aumento di produzione del 9%. Secondo i dati forniti da Eurofer, l’associazione europea dei produttori, il consumo di acciaio è diminuito del 7,7% nel secondo trimestre del 2019, dopo un calo dell’1,6% nel primo trimestre. L’andamento negativo della domanda di acciaio è il risultato della crisi in corso nel settore manifatturiero dell’Unione Europea e gli indicatori principali prevedono una continuazione della flessione per il resto dell’anno, senza rimbalzo prima del secondo trimestre del 2020”.

6 - Ma perché una eventuale chiusura dell’azienda, la più grande di questo tipo in Europa, potrebbe causare un vero e proprio allarme sociale? “Sono 10.700 i dipendenti che ArcelorMittal ha assunto in tutta Italia, a partire dall’1 novembre 2018, da Ilva in amministrazione straordinaria. Di questi, 8.200 sono a Taranto e si tratta di dipendenti diretti – si legge sul sito Rainews.it -. Di questi dipendenti a Taranto, attualmente, dal 30 settembre scorso, 1.276 sono in cassa integrazione ordinaria per crisi di mercato, e ci resteranno per 13 settimane. Prima di questa fase di cassa, ve ne era stata già un’altra, sempre di 13 settimane, dal 2 luglio al 28 settembre scorso per 1.395 addetti. Prima del subentro di ArcelorMittal, lo stabilimento di Taranto contava 10.300 dipendenti. Di questi, 8.200 sono appunto stati assunti da AM, gli altri invece sono rimasti in Ilva in amministrazione straordinaria, proprietaria degli impianti: erano 2.600 dipendenti, che poi si sono ridotti a circa 1.700 perché una parte ha interrotto il rapporto di lavoro con Ilva accettando l’esodo agevolato e incentivato che era previsto dal contratto firmato con i sindacati da ArcelorMittal a settembre 2018”. Non solo. “A Taranto l’indotto di ArcelorMittal vale circa 3.000-3.500 dipendenti. Si occupano di lavori, rifacimenti impianti, manutenzioni, servizi e pulizie industriali e civili. Per una parte di queste aziende, quelle delle pulizie, ArcelorMittal ha avviato nelle scorse settimane una revisione dei contratti con un sensibile taglio dei costi- si legge ancora su Rainews.it -. L’indotto vive una situazione di difficoltà pesante perché sperava che con ArcelorMittal si sarebbero aperte delle opportunità di lavoro con gli investimenti industriali e ambientali annunciati dalla multinazionale, pari a poco più di 2 miliardi complessivi”.

7 - Ma quanto vale in concreto economicamente l’Ilva? “Se lo stabilimento ex Ilva venisse chiuso, con il conseguente azzeramento della produzione di acciaio — ossia la perdita di 6 milioni di tonnellate a regime, anche se quest’anno non si raggiungeranno i 5 milioni – la perdita sarebbe di circa 24 miliardi di euro. È quanto emerge da un’analisi econometrica dello Svimez, l’Associazione per lo sviluppo dell’industria nel Mezzogiorno, commissionata a giugno scorso dal Sole 24 Ore – evidenzia Corriere.it -. Dal momento che nel 2017, secondo i dati Istat, il Pil italiano era stimato intorno ai 1.725 miliardi di euro – evidenzia l’analisi di Svimez — la chiusura dell’ex Ilva e il blocco della produzione avrebbe un valore pari a circa l’1,4 per cento del Pil”. Non solo. A questo conto “bisognerebbe aggiungere i mancati investimenti (ArcelorMittal si è impegnata a fare investimenti ambientali per 1,1 miliardi e industriali per 1,2 miliardi, oltre al pagamento dell’azienda per 1,8 miliardi, al netto dei canoni di affitto già versati). Al conto, ovviamente, andrebbe aggiunta la perdita di occupazione”.

8 - Oggi lo stabilimento ILVA di Taranto ha una superficie di 15 milioni di metri quadri che corrisponde  al doppio dello spazio urbanizzato del Città di Taranto.
Inimmaginabile che si possa risanare un territorio di questa grandezza e pretendere di continuare a produrre acciaio
Un’occhiata a Google earth basta ed avanza per farlo comprendere. Secondo quanto riportato dall’Ilva nel 2013, il consumo di acqua del fiume Sinni (che è della Basilicata ma pesca anche in Campania) si è attestato a circa 7 milioni di metri cubi. Secondo i dati riportati nell’AIA del 2011, nel 2005 erano 16,6 milioni di metri cubi che scendono a 13,6 milioni nel 2007. La diminuzione fu spiegata da Ilva in questo modo: “Gli impianti sono raffreddati in modo indiretto con acqua di mare (prelevata dal Mar Piccolo tramite le idrovore). L’acqua del Sinni viene utilizzata come acqua di processo tal quale o dopo trattamento di demineralizzazione. Da tempo il consumo di acqua del Sinni si è ridotto sempre più in quanto, in alternativa, ILVA effettua la dissalazione dell’acqua dei pozzi interni autorizzati che hanno un contenuto salino elevato“.

9 - Se non basta Google earth basta visitare il sito del Commissario Bonifiche di Taranto (http://commissariobonificataranto.it/)  e osservare le varie tavole pubblicate per rendersi conto di come l’INTERA città di Taranto sia immersa dentro un vastissimo sito  interamente da bonficare.
In un quadro come questo,  lo stabilimento ILVA  non può che essere chiuso e smantellato. Molto serenamente un Paese come il nostro dovrebbe trovare tempo idee e risorse per decidere la demolizione dell’acciaieria e della raffineria  di Taranto dando lavoro a quegli operai nel caso e nel contempo decidere dove  fabbricare l’acciaio di cui il Paese ha bisogno. Mettersi davanti a un decennio in cui si cancella la bufala criminale dell’industrializzazione selvaggia del territorio tarantino e si trovano e si creano le debite alternative.


IL PAESE REALE NTATO



Scriveva Bergamo news ai primi di marzo 2019: Ripulire i fiumi dalla plastica per ridurre l'inquinamen to nei mari. È questo l'obietti- vo di “Puliamo il mare, partendo dal nostro Brembo”, l'iniziativa ideata dalle Guardie Ecologiche Volontarie del Plis Basso Brembo e che sabato 9 e domenica 10 marzo vedrà protagonista il fiume bergamasco.  “Ogni anno ci occupiamo della pulizia di parchi e aree verdi, tuttavia, notando quanto sia forte il problema della plastica nei mari, abbiamo pensato che fosse necessario fare qualcosa anche noi – spiega Roberto Doneda, membro delle Guardie Ecologiche Volontarie -. Abbiamo così deciso di ripulire i nostri fiume, poiché parte della plastica presente nei mari giunge da questa”.
Ed anche le madamine della giunta Serra ieri e Gamba oggi si sono precipitate assieme ai volontari nel fiume Brembo a raccattare plastica e rumenta varia. Come tutte le persone ignoranti  -nel senso che NON CONOSCONO i problemi- questi volontari non vedono che la vegetazione  e i sassi del fiume sono generosamente orlati di merda secca – vale a dire batteri fecali in dosi massicce seppure essicati- proveniente dalle fogne che si scaricano nei fiumi ad onta di coloro che pretendono di far crede che non ci siano fogna che vi si scaricano. Quest'anno “tirava” la plastica salvo che come al solito arriva chi è un po' più informato e competente delle madamine and company –Antonio Marfella*- che scrive: Le microplastiche sono piccoli pezzi di plastica invisibili all'occhio umano senza l'ausi- lio di un microscopio. I biologi marini concordano che la maggior parte delle microplastiche che stanno danneggiando la biosfera, il mare e la salute umana provengano non già dalle macroplastiche che in modo ben evidente ormai infestano tutti i mari del mondo (bottiglie di plastica, contenitori, ecc, non riciclati) ma dal lavaggio dei tessuti sintetici nelle nostre lavatrici. Un solo indumento sintetico può rilasciare fino a 1.900 microfibre quando viene lavato in lavatrice. Così le microplastiche entrano nella catena alimentare, con impatto chiaramente negativo sul pianeta e di grave danno sulla salute umana. I ricercatori dell'Università di Plymouth hanno scoperto che un carico di lavatrice di 6 kg può rilasciare più di 700mila microplastiche….Combattere l'uso eccessivo ed indiscriminato di un bene prezioso ma sottovalutato in termini di pericolosità come le plastiche è perciò un dovere di qualunque governo in qualunque parte del mondo.

*Antonio Marfella: Dirigente Responsabile SSD Farmacoeconomia c/o Direzione Sanitaria Aziendale dell'IRCCS Fondazione Sen. G. Pascale.

La pagina face book i Vivere Curno ha reso noto un comunicato sull'Osservatorio partecipato per la sicurezza urbana e la cura del territorio a Curno
Domanda: Di cosa si occupa?
L'osservatorio per la sicurezza svolge un ruolo di monitoraggio, confronto e proposta per contribuire a migliorare la percezione di sicurezza da parte dei cittadini tramite azioni informative, formative, sinergiche e strumentali al fine di rendere più sicuro il nostro territorio nelle varie declinazioni del termine sicurezza. Si tratta di uno strumento che, unitamente allo stesso assessorato alla sicurezza, non è mai esistito in precedenza a Curno.
Vale a dire: non “migliora la sicurezza” bensiì “migliora la percezione”. Che è una presa per i fondelli nella sostanza.
Domanda: Da chi è composto? L'osservatorio è composto da: sindaco, assessore alla sicurezza, assessore alla Protezione Civile, consiglieri comunali delle due liste di minoranza, comandante della Polizia Locale, comandante della stazione dei Carabinieri di Curno, responsabile Nucleo Protezione Civile, un cittadino benemerito (Mondì, già comandante della stazione dei Carabinieri di Curno), rappresentante dell'Associazione Gruppi di vicinato.
Guarda caso hanno dimenticato di dire che lo nomina il sindaco… che è laureato in economia e dintorni.(...)
Domanda: Quali risultati sono stati ottenuti sinora?
Anzitutto è stato implementato uno strumento di confronto, di analisi e di proposta non presente in passato. Della serie: come i pensionati che parlano di tumore. Il confronto ha generato una serie di interessanti progetti, quali l'implementazione della rete di videosorveglianza. Il “Progetto varchi”, ad esempio, ha permesso il controllo, tramite 16 telecamere, di 8 postazioni dotate di due telecamere ciascuna (una legge la targa delle auto mentre l'altra è panoramica). Inoltre, tra il 2018 e il 2019, sono state posizionate sul territorio altre 8 telecamere fisse e ci si è dotati di una seconda telecamera mobile per il contrasto all'abban- dono dei rifiuti. Perché questo è il vero scopo dell'operazio- ne: i 300mila euro spesi dal comune finora per le tlc.
L'auto della polizia locale è stata dotata di un lettore targhe per controllare se sono stati pagati il bollo, l'assicu- razione e la revisione del veicolo oppure se lo stesso risulta rubato. Dopo di che  si mette a rincorrerlo per acchiapparlo?.
Importante risultato è poi la fattiva collaborazione instaurata con i Gruppi di Vicinato con una serie di azioni a sostegno del loro importante operato di controllo.
Vale a dire proto fascisti travestiti da sentinelli.
Con la locale stazione dei Carabinieri sono stati organizzati 3 incontri con la popolazione nell'ambito del progetto “servizio di ascolto” nell'ambito delle politiche di formazione/prevenzione per la cittadinanza. Questo è un ordine nazionale dell'Arma: lo fanno dappertutto.

Quello che il Comune non dice é quanto abbia speso finora per istallare, mantenere, gesti- re, riparare le telecamere (ovviamente comprensivo dei finanziamenti pubblici regionali e nazionali: visto che sono tasse o debito pubblico anche quelli) e che servizio abbiano reso concretamente al di la del “percepito” che è come la schiuma del latte. Noi siamo convinti che quest'idea della telecamere, alla stregua di molti altri impegni assunti dalle amministrazioni pubbliche, siano frutto di azioni lobbistiche dei settori economici che mirano a creare prima di tutto il problema e poi a sfruttare l'occasione. E che i politici seguano gli interessi di quelle lobbies semplicemente per motivi elettorali. Oltretutto  leggendo  chi fa parte dell' OSSERVATORIO PARTE- CIPATO (se non era “partecipato” di sicuro non… era…) PER LA SICUREZZA UR- BANA E LA CURA (la cura non pare brilli proprio visto lo stato di pulizia delle strade e di condizione del microscopico verde pubblico curnese) DEL TERRITORIO A Curno non si comprende che qualifiche  abbiano visto che anche chi dovrebbe averne  più degli altri, “dovrebbe”! far fronte sia a chi fa rapine a mano armata, a chi ammazza la compagna, chi sniffa ed alla pensionata cui hanno scippato il portafoglio dalla borsa aperta. Di tutto un po': insomma.

Siamo “costituzionalmente” contrari a questi sedicenti comitati di esperti nominati da altrettanto IN-esperti (che qualifica ha un sindaco per nominare un comitato del genere? e cosa significa che il comitato è “partecipato”? ci prendiamo per il fondoschiena? ) mentre siamo favorevoli a che le immagini delle telecamere istallate sulle pubbliche vie siano costantemente disponibili on line  24 ore su 24 perché proprio la certezza del malvivente di essere sempre comunque  sotto l'occhio di qualcuno costituisce l'incentivo a desistere. Oltretutto questo controllo continuo consente di verificare in tempo reale se qualche tlc va in panne.  Fa perfino cacare anche l'idea delle TLC con riconoscimento delle targhe e questo dimostra proprio come la spesa sia indirizzata a far guadagnare le imprese piuttosto che allo scopo. Basta pensare che sul confine tra due comuni ciascuno può istallare le PROPRIE telecamere  anziché stipulare un protocollo per cui vengono istallate di comune accordo per l'investimento e la cogestione tra due comuni. Impossibile da momento che quelle di Curno le vedono solo i vigili di Curno e quelle di Bergamo solo quelli di Bergamo. Perché l'importante non è disincentivare il ladro ma moltiplicare per due le tlc istallate e relativa manutenzione.