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ADESSO SIPAGANO GLI ERRORI DELLA MERKEL E DI MINNITI.
PAGARE DEI CRIMINALI PER TENERE LONTANO I PROFUGHI
Va detto subito che il Kurdistan tanto più i kurdi non sono per nulla
nel cuore e nella testa di nessuno alla faccia di quello che dichiara
il mainstream democratico occidentale.
Prima di tutto il Medio Oriente come del resto tutti i mondi che si
affacciano sul Mediterraneo o il Mar Rosso non possono essere rinchiusi
in nazioni dai confini individuati un secolo or sono dalle potenze
europee dominanti e saccheggiatrici di quelli. Come fanno adesso per le
risorse energetiche di quelle zone. Oramai le nazioni, in Medio Oriente
come altrove nei paesi poco sviluppati secondo il metro
occidentale, sono come delle forti gocce di colore cadute in una
vasca limpida che si spande lentamente. Sotto la spinta della fame alla
ricerca di nuove risorse.
Una mappa delle religioni e delle popolazioni di quella vasta
area che confluisce nella valle della civiltà: quella del Tigri e
dell’Eufrate ci dice che è impossibile costruire nazioni con dei
confini propri -paradossalmente siamo più “uniti e uniformi” noi
europei forse per le migliaia di guerre e morti che ci siamo comminati
a vicenda- dei popoli attorno al Tigri e all’Eufrate.
Oltre a questo – che sarebbe la “superficie” e il “sovra naturale” di
quella vasta zona c’è di mezzo l’acqua e sottoterra ci sono
petrolio gas e materie prime divenute ormai essenziali per lo sviluppo
occidentale.
I kurdi hanno poi un altro gravissimo difetto rispetto alla popolazioni
circostanti pur non essendo angioletti: hanno un forte spirito
democratico, non solo istituzionale ma civile. Basti pensare al ruolo
ed al rispetto delle donne curde.
I curdi sono la quarta etnia più grande del Medio Oriente, sono tra 25
e 35 milioni di persone: e non hanno uno Stato, anche se lo vorrebbero.
Oggi la gran parte dei curdi è distribuita in cinque paesi – Iraq,
Siria, Turchia, Iran e Armenia – ed è musulmana sunnita, ma c’è una
grande varietà.
Non ha molto senso guardare ai curdi come a un blocco monolitico,
perché ogni gruppo nazionale ha le sue priorità e i suoi alleati.
Quelli che c’entrano con la guerra in Siria sono tre: i curdi turchi, i
curdi siriani e i curdi iracheni, che insieme hanno combattuto contro
l’ISIS.
A differenza dei curdi iracheni, che da diverso tempo hanno una loro
regione autonoma all’interno dell’Iraq (il Kurdistan Iracheno), i curdi
siriani sono riusciti a ottenere una certa autonomia solo negli ultimi
anni, dopo l’inizio della guerra in Siria, rafforzando il loro
controllo sulla regione che abitano, il “Rojava”, versione breve di
“Rojava Kurdistan” (cioè “Kurdistan occidentale”). Nel momento della
loro massima espansione i curdi siriani controllavano buona parte del
nord della Siria, da est a ovest, lungo il confine con la Turchia.
Il governo dei territori sotto il controllo curdo è garantito dal
Partito dell’Unione Democratica (la sigla in curdo è PYD), un partito
che si potrebbe definire di ispirazione “socialista-libertaria” e
promuove un’idea di società molto rara nel mondo islamico e simile a
quella immaginata da Abdullah Öcalan, leader del Partito dei
Lavoratori, più noto con la sigla PKK. Gli stretti legami tra curdi
siriani e PKK sono proprio il motivo che ha spinto la Turchia a
iniziare una nuova operazione militare nel nordest della Siria.
Il PKK, infatti, è un partito curdo che da decenni combatte contro il
governo turco per ottenere l’indipendenza, attraverso una lotta armata
fatta anche di attentati terroristici; e molti membri del PYD sono ex
membri del PKK.
I curdi del PKK, e quindi anche i curdi siriani, non sono solo uno dei
nemici del governo turco guidato dal presidente Recep Tayyip Erdoğan;
sono il nemico per eccellenza, quello principale e da sconfiggere a
ogni costo.
Negli ultimi anni sui giornali internazionali si è parlato molto della
Costituzione di stampo democratico, pluralista, ecologista, femminista
e liberale adottata dal PYD nel Rojava, in cui era enfatizzata
l’importanza delle comunità locali nella gestione del potere. E si è
parlato anche delle milizie armate formate solo da donne, per esempio
l’Unità di Protezione delle Donne (YPJ), una rarità in Medio Oriente:
in particolare le immagini delle donne curde a volto scoperto che
combattono i miliziani dell’ISIS hanno avuto un grosso impatto in
Occidente. In generale, il sistema di governo in Rojava si è sviluppato
come molto decentralizzato e senza rigide gerarchie, dove le comunità
locali mantengono una forte autonomia. È un sistema, almeno sulla
carta, di “democrazia egualitaria”, che non stabilisce la predominanza
di una religione o di un’etnia su un’altra, e dove le donne hanno gli
stessi diritti e doveri degli uomini. È inoltre un sistema basato su
un’economia sostenibile, attenta a non danneggiare l’ambiente.
Il motivo più importante delle simpatie occidentali verso i curdi
siriani è stata però la guerra combattuta dalle milizie curde, le YPG,
contro l’ISIS. Dal 2013 a oggi i curdi siriani sono stati impegnati a
difendere le città curde del nord dagli attacchi dell’ISIS e poi a
recuperare i territori che erano finiti sotto il controllo dello Stato
Islamico in buona parte della Siria.
Quindi l’idea che “un giorno” possa esistere una nazione curda è
assolutamente impensabile ne dal mondo c.d. musulmano che prevale nella
zona e tanto meno dal mondo occidentale il quale al massimo
sopporta il governo di Israele che funge da gendarme per l’Occidente in
quanto suo avamposto più certo e sicuro rispetto al resto.
Ompossobole che esista uno stato curdo e impossibile soprattutto per la
cultura di cui sarebbe bandiera: una miccia che farebbe saltare in aria
tutti i regimi variamente fascisti della zona.
Oltre tutto di kurdi ce ne sono in Turchia, in Siria, in Iraq, in Iran,
in Armenia e pure qualche enclaves in Georgia ed Azerbaigian.
I Kurdi dell’Iraq e dell’Iran controllano sostanzialmente le risorse
energetiche della zona, ed hanno in mano il governo dell’acqua di
superficie della valle del Tigri ed Eufrate.
La situazione attuale vede la Russia stabilmente presente e sicura nel
Mediterraneo e questo è soddisfacente per il disegno putiniano che
vedeva nella caduta di Assad la sua cacciata dai porti del Mediterraneo
e l’impossibilità di transito nel Mar Nero.
Gli Stati Uniti sono sostanzialmente indipendenti dal punto di vista
energetico e per quanto interessa loro riescono ancora a governare il
mercato attraverso gli alleati arabi.
Non essendo riusciti ne a imporre un ampliamento e una
“democratizzazione” delle spese militari per la NATO agli alleati
europei hanno deciso di scappare dall’Afganistan e dalla Siria ed
abbandonare la vecchia Europa e il M.O. al loro destino.
Oramai lo scontro è tra Cina India USA mentre il resto sono per
quelle grandi potenze solo “problemi locali”. Purtroppo queste
“infezioni locali” sono impossibili da debellare.
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L'EUROPANON VUOLE DIVENTARE ADULTA
Purtroppo neppure questa volta l’Europa si è mossa e si muoverà, al di
la delle dichiarazioni formali e i divieti inutili di
esportazione di armi da cui tutti i popoli europei traggono
comode e sostanziose entrate per fare i rispettivi bilanci nazionali.
Indubbiamente avere a che fare con uno come Trump che da un tuit
all’altro cambia posizione di 180 gradi non è facile ma questo
resta il compito della democrazia: sapere prevedere le azioni non
solo degli avversari ma anche dei c.d. presunti “amici”.
Nell’alta e media valle del Eufrate e nell’alta valle del Tigri e lungo
il confine sirio-turco la Nato ha schierato un piccolo contingente
italiano (meno di 150 uomini) dotati di missili-antimissile che
dovrebbero difendere la Turchia (membro della Nato) dagli attacchi
della Siria. Intanto che la Nato si trastulla in questo immobilismo
spendendo pacchi di euro gli USA sono presenti (erano presenti)
con 2000 militari tutti schierati nel NE della Siria ed i
Russi –che non vanno affatto per il sottile come pure gli USA- ne hanno
presenti tra i 45mila e i 50mila. Tre giorni or sono l’ineffabile
presidente russo Vladimir Putin –da considerare ormai come il “padrone
straniero” della Siria assadiana- in un'intervista ad alcuni media
arabi e russi ha dichiarato: "Coloro che sono presenti in modo illegale
in un Paese straniero, in questo caso in Siria, dovrebbero lasciare la
regione. E questo vale per tutti i Paesi", ha affermato Putin, secondo
il quale "se il futuro governo legittimo siriano dirà che non c'è
bisogno che le truppe russe restino nel Paese, questo varrà anche per
la Russia". Ha dimenticato di dire: salve le basi militgari.
Già l’Europa ha una sistema di governo molto lento nel decidere ma
Erdogan ha preso l’occasione del passaggio dal vecchio a nuovo governo
europeo proprio per avere una grana in meno eventualmente da
affrontare semmai l’Ue, che non l’ha mai voluto con se, decidesse di
mandare una sostanziosa forza di interposizione – magari su mandato ONU
piuttosto che su autorizzazione dell’accoppiata Siria/Putin- ai confini
sirio-turchi schierandosi senza incertezze a protezione dei kurdi
e per tenere fermi nelle galere gli ISIS arrestati.
Sono attualmente 5.950 i militari italiani delle quattro forze armate
impegnati con diversi assett all'estero in 34 missioni internazionali
che interessano in totale in 23 paesi. Il numero maggiore è schierato
in Asia e Medio Oriente: 1.135 nella missione Unfil-Mibil in Libano (la
missione attualmente più numerosa), 914 per "Resolute Support" in
Afghanistan, 1018 per 'Prima Parthicà in Iraq e Kuwait, 123 in Turchia
e 134 negli Emirati Arabi.
In Africa sono invece impegnati 282 soldati in Libia (assistenza e
supporto), 179 in Somalia (di cui 129 per la missione 'Eutm' e 50 per
la missione 'Miadit'), 150 a Gibuti (base di supporto), 80 in Egitto,
99 in Niger (assistenza e supporto) e 8 in Mali. Altri 1.700 circa,
infine, sono impegnati in 4 missioni tra l'Europa e il Mediterraneo:
635 per "Mare Sicuro" e 341 per "Eunavformed", entrambe missioni per il
contrasto all'immigrazione e il soccorso in mare - 582 in Kosovo e 187
in Lettonia. Ai 6mila militari italiani impegnati all'estero si
aggiungono poi altri 7.320 che sono impegnati in alcune operazioni
nazionali: 7.150 per “Strade sicure”, 170 nella "Task Group Genio" e
113 in altre missioni.
Queste missioni e interventi hanno un costo, che per il 2019 dovrebbe
essere di 1 miliardo e 428 milioni di euro. Per avere un termine di
paragone, consideriamo che l’Italia destina per la cooperazione allo
sviluppo un budget di circa 514 milioni di euro per il 2019.
In pratica l’Italia per l’anno in corso ha stanziato 2 miliardi di
euro, di cui il 75% per perseguire una serie di missioni militari e il
restante 25% in attività di cooperazione e sviluppo.
Fuori dubbio che per i soldati italiani in missione all’estero non si
tratta di andare a fare vendemmia ma bisogna anche dire che
essendo queste forze tutte formate da volontari, c’è una corsa a farvi
parte dal momento che la paga è 2,5 volte superiore a quella se
restassero in patria e –numeri alla mano- sarebbe più pericoloso
morire sul lavoro in Italia che perire in missione. Certi numeri
occorre avere anche la faccia tosta di dirli.
Per quanto il quadro non sia così semplice come la brevità di un testo
sul web impone, proprio i numeri (dei militari e dei costi) ci
dicono che la situazione potrebbe essere messa sotto controllo Ue
senza gravi problemi economici ed organizzativi, salvo il fatto che una
Ue che assieme alla NATO dal 1990 sta procedendo a serrare in una
tenaglia da nord e su la Russia, evidente che Putin nel momento
in cui l’Ue ponesse una forza di separazione tra la Turchia, o Kurdi e
la Siria, avrebbe parecchio da dire. E da fare con 45mila soldati in
Siria.
L’impressione generale comunque è che le missioni militari all’estero
dell’Ue servano ad altri interessi piuttosto che quelli di
pacificazione delle zone in cui operano. Fanno Pil, sono una vetrina
per vendere armamenti, vendono l’immagine dell’italiano bonaccione ma
sostanzialmente servono a poco.
L’Ue a 28 membri non vuole riconoscersi come potenza mondiale
nonostante il suo mezzo miliardo di popolazione ed i 15,300 migliaia di
miliardi USD di PiL 2017 . Gli Stati Uniti 19,39 migliaia di miliardi
USD e la Cina con 12,24 migliaia di miliardi USD.
Sostanzialmente una Unione senza testa e nerbo.
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