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MORIRE PER LA PATRIA? MAI!
CAMPAGNA ELETTORALE E LEGGE DI BILANCIO:
ECCO IL COCKTAIL LETALE CHE RISCHIA DI UCCIDERE L’ITALIA.
ENTRO IL 31 DICEMBRE BISOGNERÀ TROVARE 23 MILIARDI PER EVITARE
L’AUMENTO DELL’IVA AL 25%. MA NÉ LA LEGA, NÉ IL PD, NÉ I 5S
VOGLIONO AUMENTARE LE TASSE O ASSUMERSI LA RESPONSABILITÀ
DELLA PIÙ GRANDE STANGATA ALLE TASCHE DEGLI ITALIANI.
Nessun partito vuole fare la prossima legge di bilancio. Ma entro il 31
dicembre bisogna trovare 23 miliardi e 100 milioni per evitare
l'esercizio provvisorio, l'aumento automatico dell'Iva ordinaria dal
22% al 25% e quella agevolata dal 10 al 13%. Sono le clausole di
salvaguardia, ovvero una ipoteca sui conti pubblici italiani promessa
lo scorso dicembre dal Governo Conte alla Commissione europea per
realizzare quota 100 e reddito di cittadinanza, a debito. La garanzia
scritta nero su bianco a Bruxelles che quei 23 miliardi e 100 milioni
sarebbero arrivati comunque nelle casse dello Stato per non far
crollare i conti gravati già dagli interessi sul nostro pesante debito
pubblico. In un modo o nell'altro bisognerà trovarli ma né la Lega, né
il Partito democratico, né il Movimento Cinque stelle vogliono
aumentare le tasse o assumersi la responsabilità della più grande
stangata alle tasche degli italiani dai tempi dei prelievi forzosi del
6 per mille ai conti correnti fatta dal governo Amato nel 1992. Un
suicidio politico nell'era del voto liquido.
È questo l'unico vero motivo per cui tutti sperano in un governo
balneare, tecnico, di minoranza, di scopo che tolga le castagne dal
fuoco e si addossi tutta la colpa politica per l'aumento dell'Iva. E se
si andasse a votare il 27 ottobre o il 3 novembre anche un governo con
una forte maggioranza e un presidente del Consiglio con “pieni poteri”,
come chiede Salvini, avrebbe poco tempo per realizzare la legge di
bilancio rispettando i parametri europei entro fine anno. Perché
durante l'eventuale campagna elettorale si salterebbero una serie di
tappe non decisive ma importanti che ogni anno modellano la futura
finanziaria. Il 27 settembre bisogna presentare la nota di
aggiornamento al documento di economia e finanza, ovvero il documento
in cui spiega quali saranno le entrate e le uscite previste dallo Stato
nei prossimi tre anni; il 15 ottobre bisogna inviare il documento
programmatico di bilancio alla Commissione europea e il 20 ottobre si
discute lo stesso testo al Parlamento italiano. Con le elezioni a
novembre sarebbero tre fogli bianchi redatti da un governo uscente
senza forza contrattuale con Bruxelles. Forse è troppo presto per dirlo
ma con un debito pubblico sostenibile non sarebbe un'eresia andare in
esercizio provvisorio il 1 gennaio. I governi italiani non sono
riusciti a fare una manovra finanziaria entro la fine dell'anno per 33
volte, 20 consecutive dal 1948 al 1968. Previsto dall'articolo 81 della
Costituzione, obbliga lo Stato a gestire le entrate e le uscite mese
per mese, pagando lo stretto indispensabile e basandosi su quanto
previsto l'anno precedente diviso in dodicesimi. Anche se non può
durare più di quattro mesi. Il problema però sarebbe sempre quello:
l'aumento dell'Iva.
Per quello esistono i parametri europei. Per far capire ai mercati che
gli Stati dell'Unione europea non sono una repubblica delle banane, ma
rispettano i patti
Non è una questione di date, anche il governo Conte si ridusse
all'ultima settimana di dicembre prima di approvare la legge di
bilancio nel 2018. Il problema è che non ci sarebbe spazio per una
trattativa con Bruxelles. Per non parlare dell'aumento dello spread,
ovvero la differenza di rendimento tra i titoli di stato italiani e
quelli tedeschi. Fino a poche settimane fa era sceso a meno di 200
punti base, oggi ha chiuso a quota 241. Se sale lo spread, aumenta la
spesa per pagare gli interessi e diminuiscono le risorse a
disposizione. Un cappio al collo per la libertà di manovra che si
assottiglierebbe sempre di più con il passare dei giorni. Salvini,
Savona e Di Maio avevano promesso la crescita del prodotto interno
lordo intorno all'1,5% grazie a quota 100 e reddito di cittadinanza. E
invece nel secondo trimestre del 2019 la crescita del Pil è pari a
zero. Tradotto meno risorse di quelle previste dal governo gialloverde.
Per non parlare del giudizio delle agenzie di rating che non hanno
ancora declassato i titoli di stato italiani a livello spazzatura. Così
neanche il più sovranista dei sovranisti potrebbe evitare una manovra
lacrime e sangue. A meno di fregarsene dei parametri europei e di fare
una legge di bilancio tutta in deficit. Salvini promette una legge di
bilancio di 32 miliardi. Indebitarsi per il 3,5% del Pil per farci
stare dentro tutto: i 23 miliardi per evitare l'aumento dell'Iva, i
cinque miliardi della Flat Tax, altri cinque per le spese cosiddette
indifferibili dello Stato. Tutto liscio? Non proprio.
Il problema non è infrangere le regole su cui vigila la Commissione
europea ma distruggere la nostra già fragile credibilità agli occhi
degli investitori nazionali e internazionali. Sono loro che ogni mese
comprano i Btp dello Stato. Sono risparmiatori o gestori di fondi di
risparmio che leggono le analisi, ascoltano le dichiarazioni dei
politici e si fanno un'opinione come tutti noi. E se decidono di
prestare soldi all'Italia nonostante abbia il 132% del debito pubblico
rispetto al Pil è perché l'Italia ha ancora buoni fondamentali e la
Commissione europea garantisce che noi rientreremo a poco a poco dal
debito. Per quello esistono i parametri europei. Per far capire ai
mercati che gli Stati dell'Unione europea non sono una repubblica delle
banane, ma rispettano i patti. Ecco perché tutti i governi hanno
rispettato finora le indicazioni di Bruxelles, compreso quello
gialloverde. Mentre Di Maio e Salvini annunciavano sfracelli e
sforamenti, Conte e Tria ricucivano gli strappi con le cancellerie
europee. Anche per questo l'Italia ha evitato la procedura
d'infrazione. Ma ora la musica è cambiata. La campagna elettorale
esaspera i toni per definizione e Matteo Salvini non potrà evitare di
fare dichiarazioni forti contro la Commissione europea e promettere
cose irrealizzabili pur di vincere le elezioni. Qualsiasi frase detta
per ottenere un voto in più potrebbe far aumentare lo spread,
declassare i titoli e aumentare gli interessi. E questa volta non ci
sarebbe alcun Tria o Conte a ricucire nell'ombra le sparate sovraniste.
Andrea Fioravanti
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MENSA E SCUOLA A TEMPO PIENO NELLA SCUOLA ANNI '50
Scrivono le gazzette che “non esiste un diritto soggettivo a portare da
casa i pasti da consumare nella mensa scolastica. Le sezioni unite
della Cassazione prendono le distanze da quanto affermato dal Consiglio
di Stato nella querelle che aveva opposto i genitori al sindaco di
Benevento. Così a fine luglio 2019. I genitori rivendicavano il diritto
all'autorefezione nei locali e nell'orario scolastico. Una libertà di
scegliere l'alimentazione per i propri figli che doveva essere
riconosciuta alle famiglie, al pari quella concessa nello scegliere o
meno se frequentare l'ora di religione. Le Sezioni unite danno però
ragione al Comune e al ministero, ricordando che la scuola non è il
luogo in cui si possono esercitare liberamente i diritti individuali
degli alunni «nè il rapporto con l'utenza - scrivono i giudici - è
connotato in termini meramente negoziali». La scuola é « piuttosto un
luogo dove lo sviluppo della personalità dei singoli alunni e la
valorizzazione delle diversità individuali devono realizzarsi nei
limiti di compatibilità con gli interessi degli altri alunni e della
comunità», con «regole di comportamento» e «doveri cui gli alunni sono
tenuti», con «reciproco rispetto, condivisione e tolleranza». Peraltro
«i genitori sono tenuti anch'essi, nei confronti dei genitori degli
alunni portatori di interessi contrapposti, all'adempimento dei doveri
di solidarietà sociale, oltre che economica».
Il pasto momento di socializzazione - Il tempo della mensa fa parte del
tempo della scuola, perchè il pasto non è un momento di incontro
occasionale di consumatori di cibo ma di socializzazione e condivisione
(anche di cibo), in condizioni di uguaglianza, nell'ambito di un
progetto formativo comune. Anche partendo da quest'ottica non è
condivisibile la conclusione alla quale è giunta la Corte d'Appello
nell' affermare il diritto a portare il cibo da casa consumandolo
magari in locali diversi dalla mensa. Una scelta, accettata dai
genitori, malgrado, si ponga in contrasto con gli obiettivi di
socializzazione, poco compatibili con il pasto solitario e il cibo
diverso, e con l'invocato diritto ad usufruire del cosiddetto tempo
scuola.” Fine della citazione.
Certo è che di cacchiate ne dice anche la Suprema Corte e lo
dimostriamo raccontando la “nostra storia” sulla ristorazione
scolastica.
Correva l'anno scolastico 1953-'54 e la mia famiglia di mezzadri si
trasferì dal Albino a Curno dove divenne una famiglia di affittuari.
Purtroppo io e mia sorella –due anni più grande- dovemmo interrompere
la scuola a fine '53. Io ero in prima elementare la sorella in
terza. Il passaggio era stato talmente rapido che quando mio
padre incontrò prima di Natale'53 il sindaco Richelmi, che era anche
maestro delle elementari, questi gli disse che io avrei dovuto andare
in una classe con quasi trenta compagni mentre la sorella era più
fortunata: due dozzine di compagne. Richelmi suggerì a mio padre
di mandarci dalla suore Orsoline della Merena visto che con un cantiere
di lavoro per disoccupati aveva intenzione di trasformare la strada
carrareccia e la mulattiera dal Sere alla Merena in una strada
adatta anche ai camion. Siccome il comune non poteva darci ospitalità
scolastica si offriva di pagarci i libri di lettura e i sussidiari e ci
regalava anche una dozzina di quaderni visto che cambiando scuola
bisognava disporre di altri testi. Frequentare la scuola delle
suore significava pagare una retta mensile e Richelmi propose a mio
padre che fornisse il latte ai poveri indicati dal Comune, così
che la famiglia avesse una entrata par pagare le due rette.
La sorella entrò a scuola col grembiulino nero e il colletto rotondo
bianco e il sottoscritto con un giubbino sempre nero, sempre di cotone,
senza colletto. Classe dei maschi da una parte, classe delle femmine
dall'altra. La scuola delle suore durava dalle otto alle sedici per
cinque giorni alla settimana e al sabato finiva all'una. Una scuola a
tempo pieno, adatta soprattutto ai figli degli artigiani, bottegai,
impiegati: che disponevano anche dei soldi per pagare la retta.
Scuola a tempo pieno significava che c'era la mensa. Si arrivava a
scuola con un sacchetto di tela con dentro pane, formaggio o
fette di salumi, cosce di pollo, frutta. La mensa della scuola
forniva un piattone di minestrone o di pasta e delle uova sode. Se non
ricordo male la minestra costava tre lire mentre anche se non mangiavi
l'uovo sodo, ce ne veniva addebitato uno al mese in quanto, essendo
coti nel minestrone, accadeva che qualcuno si rompesse e quindi il
minestrone collettivo era… condito. Si mangiava tutti insieme, sempre
maschietti separati dalle femminucce, seduti a lunghe tavolate di
lussuosissima formica (!), acqua potabile e bicchieri di alluminio.
L'alimento che mancava da quella mensa era la verdura ed anche la
frutta, tranne pochi di noi, non se ne prendeva. Terminato il pranzo, a
turno, ogni classe DOVEVA provvedere chi al lavaggio delle pentole, chi
dei piatti, chi a pulire i tavoli e lavare il pavimento… della sala da
pranzo e della cucina. Su tutti i giovini commensali vigilava una
sorella (una che non aveva preso tutti i voti) che s'aggirava per la
sala appoggiandosi a un bastone e quando c'era più caciare del solito,
batteva il bastone sulle gambe della panche dove sedevano i caciaroni.
Della serie: potrebbe accadere che invece di battere le panche batta
anche voi…
La scuola a tempo pieno era di una pallosità spropositata prima di
tutto per la sua lunghezza quotidiana: otto more! Con due brevi
intermezzi religiosi da cui fortunatamente ero sollevato, ma
aveva il pregio che si facevano i compiti, ragion per cui a casa
restava solo da studiare.
Il fatto era che alle otto del mattino era ancora buio ed alle sedici
era già buio per gran parte dei mesi scolastici mentre io e mia
sorella avevamo le nostre due cavalle da cavalcare e al buio ci
era proibito cavalcare dai nostri genitori.
Questa lunga sbrodolata per dire che già negli anni '50 c'era (1) la
scuola a tempo pieno (2) la mensa (3) era già una sorta di
addestramento a stare in galera (4) si mangiava anche cibo portato da
casa (5) nonostante non circolassero i dodicimila detersivi come adesso
nessuno restò mai avvelenato o prese lo schittone (6) nonostante
le pulizie di spazi e stoviglie e attrezzature fossero fatte dalla
nostre zampette nessuno restò mai avvelenato o prese lo schittone (7)
nonostante non ci fosse l'ATS che controllava la dieta e il menù
eravamo tutti magri (8) abbiamo patito solo un sacco di freddo: a
scuola come a casa nostra. (9) dopo la mensa c'era mezz'ora di gioco in
cortile sempre sotto l'occhio vigile della sorella col bastone.
Oggi leggiamo che “il tempo della mensa fa parte del tempo della
scuola, perchè il pasto non è un momento di incontro occasionale di
consumatori di cibo ma di socializzazione e condivisione (anche di
cibo), in condizioni di uguaglianza, nell'ambito di un progetto
formativo comune”. Questa é' una di quelle affermazioni da
meritare sberle a raffica. Negli ultimi otto anni ho visitato tre mense
e durante il pranzo almeno il 70% dei ragazzini compulsava lo
smartphone o ce l'aveva acceso davanti. Sarebbe socializzazione e
condivisione? Oppure quelle tre mense (comuni di quindici e settemila
abitanti) sono fiori avvelenati esterni al cesto?
Poi ci sarebbe da ragionare sul fatto che oggi la scuola a tempo pieno
(che è un casino organizzativo: basta vedere Curno…) servirebbe
soprattutto a consentire l'occupazione femminile. Che comunque ha già
la casa da manutenzionare in gran parte. Com'è che abbiamo
l'occupazione femminile al 49% e tutte le mamme che hanno bisogno della
scuola a tempo pieno per potere lavorare?. Non sarebbe meglio che il
restante 51% prendesse i figli e andasse a girare per boschi, sponde
del fiume, anche al cinema…?
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CUCINACASALINGA
Il bando di procedura aperta per la concessione del servizio di
ristorazione scolastica, nei centri estivi territoriali e per la
fornitura e consegna di pasti caldi per utenti iscritti al
servizio nel periodo 01.09.2019 al 31.08.2022 per un
importo stimato a base di gara: € 874.843,41 oltre ad IVA (in misura
del 4% per quanto concerne il servizio di ristorazione scolastica e 10%
per quanto concerne il servizio di preparazione e distribuzione pasti a
domicilio per persone anziane e/o disagiate, salvo successive
variazioni), determinato moltiplicando l'importo unitario negoziabile
del pasto posto a base di gara di € 4,35 oltre ad € 0,02 per oneri
della sicurezza non soggetti a ribasso finalizzati all'eliminazione dei
rischi interferenziali (IVA esclusa), per il numero dei pasti stimati
per tutto il periodo di durata dell'affidamento (n. 200.193 pasti).
Entro la scadenza dell'affidamento in oggetto, e pertanto entro il
31.08.2022, il Comune di Curno si riserva, a proprio insindacabile
giudizio, di ricorrere eventualmente alla procedura negoziata (…) per
la ripetizione annuale del presente affidamento (servizi analoghi),
periodo 01.09.2022 - 31.08.2023. In tal caso, il valore previsto per la
prosecuzione annuale dell'affidamento è stimato in ulteriori €
291.614,47, oltre ad IVA, ed è computato per la determinazione del
valore globale dell'affidamento, (…) per € 1.166.457,88 oltre ad IVA).
(...)
Entro i termini previsti dal Bando di gara sono pervenute in
piattaforma una sol offerta da parte della ditta PUNTO RISTORAZIONE SRL
DI Gorle (BG); L'esito della gara vede la ditta Punto
Ristorazione srl con sede legale in Via Roma 16, 24020 Gorle (BG),
collocata al primo posto della graduatoria provvisoria avendo
conseguito n. 86,37 punti su 100,00 complessivi), la cui offerta pari a
€ 4,28 a pasto, di cui € 0,02 per oneri della sicurezza finalizzati
all'eliminazione dei rischi interferenziali (IVA esclusa), è stata
giudicata congrua dalla Commissione di gara.
Questo in sintesi l'esito della gara.
Che ad una gara che potrebbe arrivare a oltre un milione di euro di
forniture partecipi UNA sola azienda ci lascia perplessi ma non ha
creato perplessità nella funzionaria e negli amministratori. Poi magari
uno pensa che le aziende si dividono il mercato oppure che il comune
viene ritenuto poco appetibile anche se leggendo il documento in
allegato il prezzo appaltato si poteva tenere ottimale per concorrervi.
Varrebbe la pena che i
sindaci interpellassero il prefetto su questa sostanziale
mancanza di concorrenza: a che servono le gare con UN SOLO concorrente?
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