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AFGANISTAN, IRAQ, LIBIA, SIRIA ADESSO L'IRAN
LOCCIDENTE CON ISRAELE FANNO SOLO DANNI
Gli Usa sono sempre stati campioni di un neo-colonialismo “muscolare”.
Ma con l'Iran la guerra non implicherebbe nessun progetto di
rifondazione o “nation building”. Del resto i casi dii Afghanistan,
Iraq, Libia, parlano chiaro. Ciò che conta è distruggere
Nuove sanzioni, per rendere ancora più fragile la già precaria economia
iraniana. E una pallida apertura diplomatica in forma di polpetta
avvelenata: la pace in cambio di una revisione dell'accordo del 2015
sul nucleare, ma a condizioni così umilianti da risultare inaccettabili
per Teheran. Ecco l'ultima mossa degli Usa. Da parte dell'Iran, minacce
di ritorsione contro gli interessi degli Usa e dei loro alleati nella
regione. Inutili nel gioco lungo, perché l'asse Usa-Arabia
Saudita-Israele finirebbe comunque col prevalere, ma temibili
nell'immediato.
Questo, però, è il giorno per giorno della crisi tra Usa e Iran,
l'elenco dei titoli dei Tg. La sostanza è altrove, ed è terribile. Se
appena ci guardiamo dietro le spalle, non possiamo non notare il cambio
di paradigma. L'invasione internazionale dell'Afghanistan, nel 2001, e
quella anglo-americana dell'Iraq nel 2003, avevano un tratto preciso in
comune. Nell'uno come nell'altro caso, l'ambizione era di prendere un
Paese e ricostruirlo con robuste iniezioni di cultura politica e
tecnologia occidentale. Il famoso “nation building”. Magari con il
contorno di un regime più o meno fasullo ma amico.
Sappiamo com'è andata. In Afghanistan, dopo diciotto anni, il potere
legittimo si esercita sulla capitale Kabul e i dintorni mentre i
talebani sono forti come non mai e trattano da pari a pari con gli
americani, che non vedono l'ora di tornarsene a casa. Per questo bel
risultato sono morti 110 mila afghani, dei quali più di 30 mila civili,
accanto a 3.541 soldati della coalizione occidentale, tra i quali 54
italiani. Scenario simile, nella sostanza, in Iraq. Dopo l'invasione
del 2003, gli occupanti inglesi e americani cercarono di amministrare
il Paese, con risultati disastrosi. Poi passarono la mano a un governo
locale, dominato dagli sciiti, che si comportò anche peggio. Risultato:
tra mezzo milione e un milione di iracheni morti, migliaia di soldati
caduti, un tale livello di insoddisfazione e instabilità da spingere le
regioni sunnite a diventare un feudo dell'Isis.
Ultima considerazione. Linda Bailmes, economista di Harvard, ha
calcolato il costo di quelle due guerre per i soli Stati Uniti. La
cifra è astronomica: tra 4mila e 6mila miliardi di dollari a fine 2016,
con operazioni militari prolungatesi per questi tre anni e destinate a
durare ancora chissà quanto. Per farla breve: il famoso “nation
building” è diventato impossibile, produce disastri. E infatti, come si
diceva, il paradigma è cambiato. Siamo passati al disastro puro, senza
alcun tentativo di costruire alcunché. È questa la lezione che ci
arriva dalla Libia, dalla Siria e, in potenza, dall'Iran.
In Libia è stato abbattuto un regime forse odioso. Ma, soprattutto, è
stato distrutto un Paese che nel 2011, al momento dell'attacco
francese, inglese e americano, era il più sviluppato dell'Africa del
Nord, tanto da essere ricettore di cospicui flussi migratori.
Distruzione che, come si è visto, non portava con sé alcun progetto di
“building”, né alla vecchia maniera del colonialismo classico (ti
faccio la guerra e poi governo io) né alla maniera nuova del
colonialismo contemporaneo (ti faccio la guerra e poi governa chi dico
io).
Idem come sopra in Siria. Anche lì, l'ingerenza occidentale (che
comincia nel 2012, con il ritiro degli ambasciatori e l'invio sul campo
di tonnellate di armi) e ancor più quella delle potenze regionali
(Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Qatar, che parte già nel 2011,
fin dai primi mesi della rivolta) non avevano alcun progetto per
costruire una Siria nuova, a meno che non si consideri tale lo slogan
“Assad must go” o lo pseudo-califfato di Al Baghdadi. L'idea era:
intanto distruggiamo l'unità territoriale della Siria, poi qualcosa
sarà.
Con l'Iran si ragiona in modo analogo. Chi ha la sensazione che gli Usa
abbiano un “piano per l'Iran”? Non saranno di certo i pur rispettabili
esuli iraniani a prendere, domani, le redini del governo del Paese. Tra
l'altro, gli esuli sono già stati usati con esiti terrificanti sia in
Afghanistan sia in Iraq, meglio lasciar perdere. Certo, agli Usa
piacerebbe insediare a Teheran un regime tipo Shah, con le donne in
minigonna e la Savak (acronimo di Organizzazione nazionale per la
sicurezza e l'informazione) a riempire le carceri. Ma con chi
potrebbero farlo, appoggiandosi a quali forze? In realtà, anche qui, il
progetto è uno solo: buttar giù quello che c'è e che, per una ragione o
per l'altra, non ci piace.
Come si vede, questo c'entra poco con Donald Trump. L'Afghanistan e
l'Iraq erano con George Bush, la Libia e la Siria con Barack Obama.
Trump, con l'Iran, fa solo ciò che è nello spirito dei tempi. Neppure
la superpotenza americana, oggi, può illudersi di praticare il “nation
building” in Medio Oriente.
Mentre il livello dell'azione politica si abbassa (siamo ormai al puro
bulldozer), però, s'innalza l'efficacia dell'azione distruttiva. Da un
punto di vista pratico, drammaticamente concreto: sempre più morti,
sempre più macerie. Ma anche da un punto di vista storico e civile.
L'Afghanistan era il regno delle tribù, ed è frazionato in clan e
gruppi etnici oggi come lo era nel 2001. L'Iraq era già una cosa
diversa. Tripartito, con sciiti, sunniti e curdi a contendersi potere e
influenze. E dominato da una dittatura orribile. Ma era anche un Paese
che aveva lasciato intravvedere qualche embrionale tendenza a evolvere
verso lo Stato nazione: durante la guerra contro l'Iran (1980-1988),
gli sciiti iracheni avevano combattuto contro la loro patria
spirituale, l'Iran, e per la loro patria legale, l'Iraq appunto.
Stesso discorso, ma più sviluppato per la Libia. Gheddafi era riuscito
a compattare le tribù, quelle che ora galoppano nelle vaste praterie
dell'anarchia, dentro uno schema comune. Da lui controllato e
sfruttato, ovvio, ma anche capace di beneficiare quasi tutti. Un passo
oltre con la Siria. Anche qui: dittatura familiare degli Assad e
comunitaristica degli alawiti, ma con la lenta formazione di uno
spirito nazionale che trascendeva le divisioni etnico-religiose. Tanto
che negli anni terribili della guerra cominciata nel 2011, molti
milioni di musulmani sunniti sono rimasti fedeli al Presidente alawita
e al suo Governo. Se così non fosse stato, in un Paese dove i sunniti
sono il 75% della popolazione la rivoluzione sponsorizzata dalle
petromonarchie sunnite avrebbe vinto in due settimane.
L'apice si raggiunge con l'Iran che, con Egitto e Turchia, forma il
trio degli unici, veri e compiuti Stati nazione del Medio Oriente. È
chiaro che continuare ad abbattere le entità più solide avendo come
massima ambizione, se tutto va bene, di sostituirle con piccole entità
statuali a base etnico-religiosa, condanna la regione all'instabilità e
alla guerra permanente. Il “fardello dell'uomo bianco” esaltato da
Rudyard Kipling, che a fine Ottocento era descritto come una missione
civilizzatrice a vantaggio dei popoli barbari, è diventato questo. Un
esercizio di barbarie ai danni di chi vorrebbe civilizzarsi.
Fulvio Scaglione
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PRODUCIAMO MENO :COSI' L'ITALIA ARRETRA
Un'ansia di potere d'acquisto e qualità della vita attraversa gran
parte delle ricette provate dai governi di questi anni. Il reddito di
cittadinanza di M5S e il reddito di inclusione del Pd contro la
povertà. «Quota 100» e i piani di uscita anticipata del Pd per chi ha
urgenza di andare in pensione.
Il bonus da 80 euro e la «flat tax» formato familiare per i redditi
medio-bassi. Il salario minimo e il decreto «Dignità» voluti dai 5
Stelle per provare a migliorare la qualità del lavoro. Non tutti questi
passi hanno la stessa logica, né pari insuccesso. Ma a ogni dato di
fiducia in coda al resto d'Europa, a ogni trimestre di caduta del
prodotto lordo (14 dal 2009, compreso quello in corso secondo l'Istat)
l'ansia dei politici di dare risposte cresce.
Sempre più spesso quelli reagiscono con i soli strumenti che — sperano
— danno risultati in tempi brevi: deficit o decreti volti a cambiare
per legge, subito, forze dell'economia che hanno ragioni profonde.
Tanta frenesia è comprensibile in un Paese che ha trascorso in
recessione un terzo dell'ultimo decennio ed è ancora lì, sull'orlo. Se
però premier, vicepremier e leader vari dedicassero mezza giornata alla
Penn World Table, forse diventerebbero più tranquilli. Capirebbero
quello che serve e non serve fare per spezzare l'incantesimo.
La Penn World Table è una banca dati che racconta quante persone
lavorano, quante ore e quanto prodotto interno lordo viene generato in
ciascun Paese da decenni. Se i politici la leggessero, vedrebbero che
non parlano mai (eccezioni, poche) di quel che davvero non va: un anno
di lavoro di una persona in Italia produce sempre meno valore rispetto
a tutti i principali concorrenti; eravamo nettamente davanti oltre
trent'anni fa, siamo stati superati o stiamo per esserlo oggi. Siamo a
un punto tale che ormai, in media, un'ora di lavoro in Germania genera
in media 65 dollari di prodotto lordo, una in Francia 60 ma una in
Italia appena 50: tedeschi e transalpini sono rispettivamente più
efficienti del 30% e del 20%, a costi orari simili. La debolezza dei
redditi e condizioni di lavoro così sgradevoli da far sognare (e votare
per) le pensioni anticipate: tutto nasce da qua. E non c'è “decreto
dignità”, o flat tax, o bonus 80 euro in grado di sciogliere questo
nodo che tiene prigioniero il Paese. Quelle misure sono costose
aspirine per un male diverso, e più serio.
Per rendere i Paesi e momenti nel tempo paragonabili Penn Word Table
esprime i dati i dollari a valori costanti, ripuliti dell'effetto
inflazione. I risultati più recenti (al 2017) in apparenza non vedono
l'Italia fuori linea: un anno di lavoro di un addetto genera in media
92 mila euro di prodotto in Francia, 88 mila in Germania, 86 mila in
Italia, 81 mila in Spagna, 79 mila in Gran Bretagna. Ma il percorso dal
quale si è arrivati qui dovrebbe sollevare sospetti: l'Italia è il solo
Paese del gruppo dove un anno di lavoro di una persona produce meno
valore rispetto all'inizio del secolo; l'apertura a miliardi di nuovi
consumatori nel mondo, il digitale e l'automazione, tutto è passato
senza effetti. O addirittura con effetti negativi, ma solo in un Paese.
Dal Duemila gli altri hanno aumentato il prodotto annuo per addetto di
11 mila dollari (Francia, Germania) o dieci mila (Gran Bretagna,
Spagna). Noi lo abbiamo diminuito di duemila.
Difficile pensare sia colpa dell'euro, e non solo perché fanno meglio
tutti gli altri Paesi con la stessa moneta. In realtà l'Italia era in
vantaggio in termini di dollari prodotti all'anno per ciascun
lavoratore trent'anni fa (più 16 mila sulla Germania, più 6.700 sulla
Francia), ma già dal 1990 inizia a perdere terreno fino a subire il
sorpasso in questi anni.
Ancora più chiara è l'intera vicenda se si misura il prodotto lordo per
ora lavorata, in media. All'inizio di questo secolo in Italia si
generavano 48 dollari ogni sessanta minuti di impegno, circa un quinto
più che in Germania. Ma appunto vent'anni dopo la Germania è del 30%
sopra; anche Spagna o Francia hanno visto rapidi progressi, mentre
l'Italia è rimasta sostanzialmente ferma.
Tutto questo ha ricadute per la qualità della vita, perché oggi in
Italia ogni anno un occupato in media lavora l'equivalente di oltre due
mesi in più di un collega tedesco per produrre poco meno di lui. In
Germania, efficiente, i tempi di lavoro dei singoli crollano. In Italia
restano alti per compensare le inefficienze di struttura e dimensioni
d'impresa, arretratezza tecnologica, qualità di gestione. E non è vero
che la politica non può farci nulla. Basta volerlo. Basta, almeno,
capire che è questa la vera emergenza nazionale.
Federico Fubini
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