SI FA PER DIRE
TRUMP AIUTA GLI OPERAI
LA SINISTRA LI DIMENTICA
Constatare che i ceti popolari in tutto l'Occidente votano a destra,
non turba gli intellettuali progressisti. La risposta è pronta, e
rassicurante: gli operai, il vasto mondo del precariato, il ceto medio
impoverito, "votano contro i propri interessi". Eleggono dei demagoghi,
come Donald Trump, che parlano "alla pancia della gente". I leader
populisti aizzano i peggiori istinti – come la xenofobia – ma quando
governano non aiutano quella base che li ha portati al potere.
Ha un'antica tradizione l'arroganza di chi descrive i ceti meno
privilegiati come una massa di "utili idioti" pronti a farsi ingannare
e tradire. Le avanguardie rivoluzionarie – dai giacobini ai
bolscevichi, dai terroristi anarchici alle Brigate Rosse, da Gabriele
D'Annunzio al giovane Benito Mussolini – hanno sempre pensato di
interpretare l'interesse del popolo molto meglio del popolo stesso. Ma
è davvero così? Il popolo-bue, nel votare Donald Trump ha preso un
abbaglio colossale? In realtà il Sovranista Capo sta mantenendo alcune
promesse fatte proprio a quella classe operaia che fu decisiva per
portarlo alla Casa Bianca nel 2016. La crescita economica accelera
(+3,2% del Pil nel primo trimestre), il pieno impiego è vicino (3,6% di
disoccupazione, un minimo storico), e anche i salari stanno finalmente
crescendo più dell'inflazione. Le diseguaglianze continuano ad
aumentare, certo: ma Trump non ha promesso di ridurle e non è stato
eletto su un programma socialista. In compenso i lavoratori americani
stanno un po' meglio ora che durante gli otto anni di Barack Obama. Il
Sovranista Capo ha mantenuto la promessa di intavolare un duro
confronto con la Cina per ottenere reciprocità nel commercio
bilaterale. Non è chiaro se questo stia contribuendo alla buona salute
dell'economia americana: probabilmente no. Ma è stato smentito chi
prevedeva un'Apocalisse da protezionismo (cioè la totalità degli
economisti di sinistra, talvolta gli stessi che sulla globalizzazione e
il liberoscambio furono critici in passato). Per i metalmeccanici del
Michigan, per i siderurgici e i minatori della Pennsylvania – quella
classe operaia in carne ed ossa, di cui molti intellettuali
progressisti hanno già celebrato la definitiva scomparsa – Trump non è
un millantatore. Fu invece un millantatore il presidente democratico
Bill Clinton: promise che i grandi accordi di libero scambio avrebbero
portato a un aumento medio di 17.000 dollari annui nel reddito di ogni
famiglia americana. Quella sì, fu una promessa non mantenuta.
Una parte dei leader democratici, almeno negli Stati Uniti, sembra aver
capito la lezione del 2016. Il capogruppo dell'opposizione al Senato,
Chuck Schumer, non critica affatto i dazi di Trump, anzi incalza il
presidente perché tenga duro con la Cina. Non è con il globalismo che i
democratici riconquisteranno la fascia della Rust Belt, i vecchi Stati
industriali. Bernie Sanders, il senatore del Vermont che ci riprova
dopo aver perso per un soffio la nomination contro Hillary Clinton, è
un socialista vecchio stampo anche sull'immigrazione. Cioè è convinto
che i flussi di stranieri vadano regolati. È quel che accadde nel
periodo in cui l'America fu socialdemocratica: tra le due presidenze di
Franklin Roosevelt e John Kennedy, quando costruì un Welfare moderno e
inclusivo, rafforzò i diritti dei lavoratori e il potere sindacale,
alzò le tasse sui ricchi a livelli svedesi. Fu in quello stesso periodo
che i flussi migratori furono ridotti da regole severe e la quota di
popolazione straniera scese al 5%, un minimo storico. Poi venne
l'apertura delle frontiere, e subito ebbe inizio lo smantellamento del
contratto sociale, l'attacco al Welfare e ai sindacati, il trionfo del
liberismo e delle diseguaglianze, insomma la vittoria del capitale sul
lavoro.
La sinistra intellettuale, negli Stati Uniti come in Europa, si è
innamorata della società multietnica. Ma ha delegato l'integrazione
degli stranieri ad altri: chi vive negli stessi caseggiati popolari con
l'ultima ondata di immigrati, non appartiene allo stesso ceto che si
esprime nei talkshow televisivi. Quella sinistra che parla come le
agenzie di rating, che si allea con i chief executive e l'Uomo di
Davos, ha spostato la sua rappresentanza verso altri interessi.
Federico Rampini
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PROBLEMI NEL FUTURO DEL CAPITANO
Queste elezioni ci consegnano un paradosso. Un passo indietro, una
sorta di replay di quel che è già stato. Dinanzi alle incapacità della
maggioranza gialloverde, alla inettitudine paralizzante mostrata dal
governo Conte, rinasce dalle sue ceneri la vecchia coalizione tra Lega,
Forza Italia e Fratelli d'Italia. Una formula che negli ultimi sei anni
sembrava estinta sotto il peso della fine del berlusconismo e fatta
risorgere da questo strambo ircocervo generato dal contratto
grillo-leghista e che sempre più si sta rivelando un semplice e
sostanziale patto di potere.
Anzi, è proprio questo esecutivo che sta ponendo le premesse perché il
centrodestra sia messo in condizione di nuotare nella palude in cui si
ritrova il Paese. Una eventuale coalizione tra Salvini, Berlusconi e
Meloni — in base agli exit poll — potrebbe contare almeno sul 47 per
cento dei voti. Solo un anno fa si era fermata al 37 per cento. Certo,
i rapporti di forza sono stati stravolti. La Lega è il soggetto
trainante. Una sorta di gigante spalleggiato da due nani. Eppure si
tratta di due “nani” di cui, a questo punto, il segretario leghista non
può più fare a meno. Il Carroccio, pur avendo conseguito un risultato
straordinario, mette nello stesso tempo in evidenza i suoi limiti. Non
è autosufficiente.
Il quesito allora che esce dalle urne, oltre a una sostanziale presa di
distanza dal governo, è rivolto quasi esclusivamente a Salvini: il capo
di una forza di oltre il 30 per cento aspira a salire lo scalone di
Palazzo Chigi? E a farlo attraverso la porta principale ossia quella
delle elezioni politiche? Se la risposta è affermativa, sa che non può
fare a meno dei due “soci” tradizionali e soprattutto che ha bisogno di
interrompere l'esperienza con il Movimento 5Stelle. E al di là delle
dichiarazioni di pace e fedeltà pronunciate fino a ieri, Salvini deve
fare i conti con le dinamiche del consenso che ormai si dimostrano
sempre più rapide e radicali, e soprattutto caduche. La parabola della
popolarità sale e scende velocemente. È costretto di fatto a imporre la
sua agenda all'alleato. Provocarlo anche sui temi identitari per
ottenere un saldo in termini programmatici o per riversare sull'M5S la
responsabilità di una crisi.
Nonostante il successo in questa tornata, allora, la Lega potrebbe
ritrovarsi tra le mani una moneta corrente difficile da spendere.
Salvini sembra infatti ingabbiato tra due schemi che smentiscono tutto
quello che ha fatto e detto negli ultimi dodici mesi. Deve infatti
scegliere se riabbracciare i fantasmi del passato, stringere di nuovo
le mani al Cavaliere e a Meloni accettandone le condizioni e le
incoerenze. Magari mitigando le minacce antieuropeiste e le promesse di
stravolgere il sistema di Bruxelles. Mettendo nel conto di perdere la
spinta “nuovista” e indossare i panni del vecchio. Oppure insistere con
l'asse gialloverde. Piegare Di Maio e avviare una intesa permanente.
Convincere la sua base, in particolare al Nord, che può essere la
soluzione per realizzare la Tav o per iniettare nel sistema
imprenditoriale gli investimenti che fino a ora il governo ha negato.
Il massimo che può ottenere adesso è un rimpasto. O come è capitato in
passato reclamare per sé la presidenza del Consiglio con un metodo da
Prima Repubblica. Una “rinascita” della “staffetta”. Accogliendo però i
rischi di una formula sostanzialmente bocciata dagli italiani.
Mostrando definitivamente i contorni del patto di potere sottoscritto.
Adattandosi all'idea di mettere nel surgelatore i voti ottenuti.
Sfidando il rischio che quando verranno scongelati, varranno molto meno.
Anche perché dalle urne è emerso un altro dato. Il sistema politico è
stato di nuovo stravolto. I due poli che si contendono la leadership
sembrano essere tornati quelli del centrodestra e del centrosinistra.
Salvini deve insomma scegliere se staccare la spina ai grillini e
riattaccarla a Forza Italia.
Claudio Tito
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LE REAZIONI DEL RIOLO E QUELLE DELLA POLITICA
L'immagine 1 è sulla rotonda lungo la SS470dir (vale a dire la
Dalmine –Almè) tra Mozzo e Valbrembo dove si gira per andare alle
Cornelle oppure verso il Pascolo dei Tedeschi e poi in Città Alta. Li
sotto passa il torrente Riolo che segna il confine nord-sud tra
Valbrembo e Mozzo e da li il torrente si dirige sotto i capannoni di
Mozzo (ad ovest della 470) verso la Quisa. In pratica questa rotonda è
il punto più basso della vasta conca che a nord ha la propaggine ovest
dei Colli di Bergamo, a sud c'è il Monte Gussa (o Monte di Mozzo)
mentre a NO c'è la modesta dorsale su cui sorgono gli abitati più
vecchi di Valbrembo e Scano (Paladina).
La cementificazione di questa vasta conca assieme all'abbandono della
coltivazione razionale delle (vaste) campagne rimanenti
dell'aggressione ha determinato un netto incremento della portata del
Riolo che combinata con la scarsa pulizia e l'intubazione sotto
l'insediamento industriale di Mozzo-NO adesso mostra di non essere più
all'altezza del suo compito. Poi ovviamente l'uomo moderno
abituato a prendere una pillola per ogni micro malanno, da la colpa
alle «bombe d'acqua». Come si rileva dalla foto l'altezza dell'acqua
sporca di terriccio era modesta (meno di 10-15 cm).
Il problema delle micro esondazioni del Riolo va avanti da tre lustri e
in tre lustri –guarda il caso!- ne la provincia ne i quattro comuni
coinvolti: Bergamo, Paladina, Valbrembo e Mozzo assieme al Consorzio di
Bonifica non hanno trovato la soluzione e quindi nemmeno i soldi.
Adesso i cittadini di quelle zone, ben felici delle proprie scelte
elettorali locali e provinciali, stanno sempre più spesso coi piedi in
ammollo.
Nel frattempo hanno escogitato e stanno realizzando una soluzione (per
il nuovo corso del Riolo ma non abbiamo verificato pagata da chi) per
via dei lavori di ristrutturazione della 470dir. La 470 dir “dovrebbe
sotto passare” (2) l'attuale “Rotonda delle Cornelle” con a fianco –a
nord e sud- le 2+2 bretelle di accesso-uscita alla “Rotonda delle
Cornelle”. Sul lato est, dalla “Rotonda delle Cornelle” fino
all'altezza del Carrefour viene costruito il “nuovo corso” del
Riolo “potenziato” che poi si intuba di nuovo sotto la zona industriale
di Mozzo fino alla Quisa.
Nella fattispecie “non poteva mancare” l'imman- cabile pista ciclabile
lungo il “new” Riolo che fa tanto fidanzatini dei baci perugina e che
piace un sacco ai verdi di carta ed alle madamine.
Seccamente: la soluzione proposta ed attuata per il Riolo (nella sua parte terminale) è una putt***.
Preso atto che nel mezzo secolo u.s. hanno cementificato la vasta plaga
del c.d. “Pascolo dei Tedeschi” e Mozzo ha intubato il torrente a valle
tanto valeva scavare una galleria (transitabile da ruspe ed autocarri
in un solo senso di marcia) che dalla “Rotonda delle Cornelle” portasse
il Riolo alla Quisa sotto la via Leonardo da Vinci (circa 480
mt). In questo modo si eliminava definitivamente ogni pericolo di
inondazione della zona industriale e commerciale di Mozzo anche se era
una soluzione un po' più costosa ma con le macchine attuali (pensiamo
alle frese per i tunnel) era fattibile senza nemmeno interrompere il
traffico sulla via L. da Vinci.
Ma nella seconda (o terza?) Repubblica il problema non sta nel trovare
soluzioni definitive ma nell'inventare il passo dopo passo perché così
tra vent'anni e dopo un'altra ventina di esondazioni si arrivi al
bypass diretto alla Quisa.
Osservando poi le soluzioni adottate per il “new Riolo” (ci piace
denominarlo con un linguaggio esotico) che ovviamente hanno avuto il
debito viatico del Parco dei Colli accompagnato dagli sdilinguamenti
dei verdi di carta non ci vuol emolti immaginare in che stato lo
vedremo tra cinque dieci anni: tutto alberato (la natura è più forte e
intelligente di tecnici e politici) ed anche del tutto riempito di
sozzerie che i cittadini responsabili provvederanno a scaricarlo
(affinchè altri cittadini responsabili in tuta arancione fosforescente
possano fare la giornata ambientalista di pulizia dei fiumi).
Insomma tutto si tiene in un Paese che pare abbia perso il buonsenso ed
assieme anche l'ultimo pezzo di senno.
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