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GENOVA, LOVERE: SALVINI METTE A POSTO LA PIAZZA
E’ IL VIATICO AL NEOFASCISMO IN ITALIA
CORDONE DELLA PS A PROTEGGERE CASAPOUND
Come i grani di un rosario, uno dopo l'altro. Ieri a Genova la polizia si è schierata a difesa di Casapound che teneva un comizio per le prossime europee ed oggi a Bergamo si apre il processo intentato da due cittadini (uno al momento anche candidato sindaco per Bergamo) contro la PS per fatti analoghi. (...)

GIORGETTI PROSSIMO PDC?
La questione settentrionale, l'incubo di Salvini dopo le Europee
La corsa della Lega si è rallentata al Nord. Dove le imprese chiedono misure concrete e non crociate. E potrebbero voltare le spalle al Capitano, aprendo a un movimento moderato e federalista.
Pensavamo che la partita politica si giocasse al Sud. E lo pensava anche Matteo Salvini, che ha "terronizzato" la sua Lega per ottenere nelle regioni meridionali quei consensi che alle scorse Politiche gli sono mancati e che sono necessari per strappare ai cinque stelle il grosso degli eletti ai collegi uninominali in quell'area. Invece il 27 maggio, il giorno dopo le Europee, riscoppierà in maniera fragorosa la questione settentrionale. (...)




















































GENOVA, LOVERE: SALVINI METTE A POSTO LA PIAZZA
 E’ IL VIATICO AL NEOFASCISMO IN ITALIA
CORDONE DELLA PS A PROTEGGERE CASAPOUND


Come i grani di un rosario, uno dopo l'altro. Ieri a Genova la polizia si è schierata a difesa di Casapound che teneva un comizio per le prossime europee ed oggi a Bergamo si apre il processo intentato da due cittadini (uno al momento anche candidato sindaco per Bergamo) contro la PS per fatti analoghi.
Il ventotto maggio 2016, di sabato,  a Lovere l'associazione dei reduci della Legione Tagliamento aveva in programma l'annuale commemorazione di due militi morti nel 1945 dopo esser stati gettati nel Lago d'Iseo dai partigiani.
Come ogni anno, ad attenderli c'è una contromanifestazione antifascista. Tra i due gruppi, un cordone di forze dell'ordine, polizia e carabinieri, schierati affinché le fazioni opposte non entrino in contatto.
Gli antifascisti, una trentina, uomini e donne, giovani e meno giovani, si siedono all'ingresso del cimitero di via Gobetti dove una lapide ricorda i camerati uccisi (e un'altra è intitolata ai tredici martiri partigiani uccisi nel 1943) per impedire che il corteo possa entrare nel campo santo.
Gli agenti li invitano, in modo piuttosto energico, a liberare il passaggio. Volano urla, insulti e qualche spintone. La situazione si surriscalda, ma diventa incandescente quando arriva la sfilata fascista. I contromanifestanti gridano contro di loro e protestano e qui, secondo la loro versione, vengono aggrediti dalla polizia. Tre rimangono feriti, tra loro un settantenne di Cividate Camuno (Bs). Gli altri due presentano denuncia, uno è Francesco Macario, segretario di Rifondazione Comunista e candidato come sindaco di Bergamo alle elezioni di domenica. Viene identificato un agente in servizio a Torino, il 37enne S. G., che li avrebbe presi a manganellate. Oggi 24 maggio '19 inizia il processo nei suoi confronti.

Ieri a Genova. Come nel giugno del 1960 e nel luglio 2001, Genova segna un'altra drammatica tappa nella storia delle proteste di piazza. L'assalto di diverse centinaia di antagonisti alla piazza concessa in pieno centro città a CasaPound per chiudere con un comizio pubblico la campagna elettorale, si conclude con durissimi scontri, lanci di bottiglie, cariche e lacrimogeni. Come già accaduto in altre occasioni, per alcuni poliziotti l'uso della forza necessaria in alcune fasi dei tafferugli diventa puro accanimento: a farne le spese è stato il giornalista di Repubblica Stefano Origone che per la redazione di Genova era lì in strada a raccontare gli avvenimenti. Un gruppo di una mezza dozzina di agenti lo ha aggredito pestandolo con manganellate e calci in tutto il corpo e alla testa. Origone ha due dita fratturate, una costola rotta, un trauma cranico, ecchimosi e ferite in tutto il corpo. Il questore Vincenzo Ciarambino gli ha fatto visita in ospedale, ha chiesto scusa e ha spiegato che il giornalista si è trovato nel bel mezzo dell'arresto di un manifestante violento. In realtà, le immagini dei video mostrano Stefano fermo in un angolo di piazza Corvetto, addossato ad un muro, quindi senza via di fuga, accerchiato e massacrato di botte anche quando è a terra. Anche se fosse stato un facinoroso, l'accanimento contro una persona ormai inerme sarebbe evidente.
La gestione della situazione da parte delle forze dell'ordine è apparsa fin dal primo momento non all'altezza: i reparti mobili impegnati sul terreno (circa 300 agenti) non si aspettavano una massa di manifestanti così numerosa e attiva. Il presidio antifascista convocato da Cgil, Anpi, Arci e comunità San Benedetto, quella di don Gallo, alle 16.30 davanti alla prefettura, ha raccolto una folla numerosa di circa 2 mila persone. E all'interno, raccolti attorno allo striscione "Genova antifascista" erano diverse decine i giovani più arrabbiati.
Come sempre in Italia a certi corpi dello Stato  non è necessario impartire degli ordini particolari: chi li deve attuare c'ha la genetica e l'educazione adatta a comprendere cosa come deve fare. A agisce.
Sarà un caso ma oltre a quella del questore è scattata subito una sequenza di annunci di alte autorità –dal capo della Polizia  Gabrielli al prefetto al  Procuratore Capo Francesco Cozzi che hanno espresso solidarietà al giornalista al procuratore aggiunto Francesco Pinto che ha aperto due distinti fascicoli per l'accertamento dei fatti e delle responsabilità - di provvedimenti esami scuse e vedremo cosa resterà quando tutto sarà chiuso con una sentenza.
La Fnsi, il sindacato dei giornalisti ha criticato la gestione della piazza da parte della questura: «Una piazza concessa ai neofascisti di CasaPound e decine di poliziotti in tenuta antisommossa comandati a rendere impermeabile una "zona nera" nel cuore di Genova, città medaglia d'oro della Resistenza. E come già accaduto nelle tragiche giornate del G8 la gestione dell'ordine pubblico sfugge di mano». La Fnsi ha anche condannato «le minacce rivolte da alcuni antagonisti alle troupe della Rai e di Primocanale ».

La Polizia, i giornalisti e la piazza consegnata ai neofascisti dall'immunità dovuta al "candidato". Sono tre fattori di un'equazione o, se preferite, di un cortocircuito, che fotografa nitidamente l'esito della corsa irresponsabile cui un ministro dell'Interno, con la complicità silenziosa dei suoi alleati e la sottovalutazione distratta del Parlamento (con qualche rara eccezione) ha deciso di consegnare il Paese. Sulla Polizia, sui suoi uomini tutti, è stata e viene scaricata la pressione impossibile da reggere di un richiamo primitivo alla pancia dell'apparato, che invita all'obbedienza allo "spirito dei tempi". Incapace di immaginare la Polizia come un'istituzione democratica e repubblicana, dunque di tutti, Matteo Salvini la sollecita, la rappresenta, la desidera, incarnandola nelle "felpe" che indossa, per quello che non è e non deve essere: i "moschettieri del Re". Con un risultato: caricare ogni agente, ogni funzionario in servizio di ordine pubblico di un peso (o, per qualcuno, di una tentazione) insopportabile. Che toglie lucidità, serenità e alimenta paura o solerzie, entrambe pericolose.
Altrettanto esplicito il messaggio alla galassia neofascista. Non è più il tempo delle fogne. E chi se ne frega delle pronunce della Cassazione che hanno messo fuori legge CasaPound. Il "nuovo vento", il lavacro delle urne, autorizza lo scasso verbale e materiale di ogni argine, in una rappresentazione ostentata, provocatoria che per giunta deve essere "garantita". Anche lì dove viola la Costituzione repubblicana e le sue leggi. In un'oscena equivalenza "post-ideologica" tra neofascisti e forze democratiche. E che in piazza, poi, la faccia ce la mettano i celerini o la Digos.
Un Paese che comincia a pensare che i giornalisti ma, meglio sarebbe dire, il giornalismo non è un bene di tutti, che la faccenda è materia di una corporazione inutile e spazzata via dal tempo, che, anzi, è venuto il tempo di togliersi i guanti e lasciare che qualche rompicoglioni abbia ciò che merita — in un vicolo, in una piazza, in rete — con una robusta dose di minacce (se necessario di morte) o di legnate, è un Paese che ha cominciato a perdere se stesso. Che comincia a danzare pericolosamente su un abisso dove la logica del "redde rationem" deve progressivamente consegnare ogni presidio di libertà e chi la garantisce a una spaventosa conta. O con me o contro di me. Dove ogni mediazione salta. Dove l'informazione non ha più diritto di cittadinanza perché ormai etichettata come «serva» o «bugiarda». Dove a ogni poliziotto viene imposto di decidere in solitudine se essere moschettiere del Re o cittadino. E dove i militanti dell'ultradestra ballano, proteggendosi con l'articolo 21 della Costituzione, la libertà di espressione.
Il pomeriggio di Genova è un modesto avviso. Per tutti. E che un giorno, speriamo non arrivi mai, nessuno dica di non essersene accorto.
GIORGETTI PROSSIMO PDC?




La questione settentrionale, l'incubo di Salvini dopo le Europee
La corsa della Lega si è rallentata al Nord. Dove le imprese chiedono misure concrete e non crociate. E potrebbero voltare le spalle al Capitano, aprendo a un movimento moderato e federalista.

Pensavamo che la partita politica si giocasse al Sud. E lo pensava anche Matteo Salvini, che ha "terronizzato" la sua Lega per ottenere nelle regioni meridionali quei consensi che alle scorse Politiche gli sono mancati e che sono necessari per strappare ai cinque stelle il grosso degli eletti ai collegi uninominali in quell'area. Invece il 27 maggio, il giorno dopo le Europee, riscoppierà in maniera fragorosa la questione settentrionale.

I VOTI IN FUGA NEL NORD
Giancarlo Giorgetti, incontrando la stampa estera lo scorso 22 maggio, ha sottolineato che, nel governo «qualcosa nelle ultime tre settimane non ha funzionato. Lo confermano anche i sondaggi». Il Gianni Letta del Carroccio si riferisce alle rilevazioni che in questi giorni sono state equanimi soltanto su un punto: la corsa fragorosa della Lega si è rallentata soprattutto nel Nord Ovest e nel Nord Est, dove il partito di Salvini non può semplicemente risultare il primo. Soprattutto perché al momento quelle parti del Paese hanno come naturale riferimento politico solo il Capitano. Invece, nel cuore produttivo del Paese sono in libera uscita pacchi di voti, che finora non hanno trovato ancora casa e che potrebbero dare sollievo al Pd, visto che con la ritirata di Forza Italia manca ogni sbocco moderato.

Crescono i malumori a Torino, a Milano, in Emilia e nel profondo Nord Est. La rivoluzione fiscale tanto sbandierata - e non soltanto dal Carroccio - è stata rimandata alla prossima manovra, ma potrebbe essere sacrificata per congelare l'aumento dell'Iva. Si parla di semplificazioni e di taglio del costo del lavoro, ma al momento su questo fronte le imprese lamentano soprattutto le restrizioni imposte dal decreto Dignità ai contratti a termine o i nuovi e costosi obblighi legati alla fatturazione. Lombardia, Piemonte e Veneto si sentono sempre più parte integrante dell'Europa che dell'Italia: invece il governo ha portato avanti una guerra senza capo né coda contro la Commissione Ue, che ha finito soltanto per isolare il Belpaese nei tavoli che contano. Il tutto mentre crescono le nubi sulla realizzazione della Tav Torino Lione e il rischio che i flussi delle merci passino per l'altro lato delle Alpi.

L'AUTONOMIA E LA VOGLIA DELLE REGIONI DI TRATTARE CON L'UE DA PARI
E poi c'è il dossier Autonomie. Le piattaforme presentate da Lombardia e Veneto - ma in parte anche quella più cauta preparata dall'Emilia-Romagna - vogliono ribaltare il paradigma della Repubblica e portare dal centro alla periferia il potere di definire e finanziare i servizi essenziali. Una proposta troppo hard, ma che al netto di ogni finalità non soltanto politica esemplifica la tendenza di un territorio a ottenere un riconoscimento istituzionale per poi trattare con l'Europa che conta alla pari. La politica, dopo il 27 maggio, dovrà rispondere con una strategia politica complessiva che, a differenza di quanto fatto finora da Lega e M5s, non si compone soltanto di spot e misure sporadiche come lo sono stati gli sgravi dell'Imu sui capannoni o le Olimpiadi invernali tra la Valtellina e le Dolomiti. E chi lo fa, vincerà.

Certo, l'Italia tornerà a essere la terza potenza europea se riuscirà a connettere e sviluppare l'economia meridionale, ma al momento è soltanto al Nord che il sistema italiano ha gli strumenti (non solo produttivi e finanziari) per uscire dalla crisi. Intanto sopra la linea gotica si è già aperto uno spazio politico per un contenitore moderato, federalista e riformista che cerca soltanto un leader e che i giornali hanno identificato in Urbano Cairo. Quanto l'interessato sia propenso a scendere in campo conta poco. Resta il fatto che pur in maniera magmatica e senza una testa a guidare questo movimento, il Nord ha già dato un segnale al fronte sovranista. E questo Salvini lo dovrebbe aver capito bene, visto che la Lega ha sempre avuto successo quando ha rappresentato interessi molto concreti - le tasse, la sanità, i diritti della piccola impresa - ed è scomparsa quando si è persa in battaglie ideologiche.

Francesco Pacifico