GENOVA, LOVERE: SALVINI METTE A POSTO LA PIAZZA
E’ IL VIATICO AL NEOFASCISMO IN ITALIA
CORDONE DELLA PS A PROTEGGERE CASAPOUND
Come i grani di un rosario, uno dopo l'altro. Ieri a Genova la polizia
si è schierata a difesa di Casapound che teneva un comizio per le
prossime europee ed oggi a Bergamo si apre il processo intentato da due
cittadini (uno al momento anche candidato sindaco per Bergamo) contro
la PS per fatti analoghi.
Il ventotto maggio 2016, di sabato, a Lovere l'associazione dei
reduci della Legione Tagliamento aveva in programma l'annuale
commemorazione di due militi morti nel 1945 dopo esser stati gettati
nel Lago d'Iseo dai partigiani.
Come ogni anno, ad attenderli c'è una contromanifestazione
antifascista. Tra i due gruppi, un cordone di forze dell'ordine,
polizia e carabinieri, schierati affinché le fazioni opposte non
entrino in contatto.
Gli antifascisti, una trentina, uomini e donne, giovani e meno giovani,
si siedono all'ingresso del cimitero di via Gobetti dove una lapide
ricorda i camerati uccisi (e un'altra è intitolata ai tredici martiri
partigiani uccisi nel 1943) per impedire che il corteo possa entrare
nel campo santo.
Gli agenti li invitano, in modo piuttosto energico, a liberare il
passaggio. Volano urla, insulti e qualche spintone. La situazione si
surriscalda, ma diventa incandescente quando arriva la sfilata
fascista. I contromanifestanti gridano contro di loro e protestano e
qui, secondo la loro versione, vengono aggrediti dalla polizia. Tre
rimangono feriti, tra loro un settantenne di Cividate Camuno (Bs). Gli
altri due presentano denuncia, uno è Francesco Macario, segretario di
Rifondazione Comunista e candidato come sindaco di Bergamo alle
elezioni di domenica. Viene identificato un agente in servizio a
Torino, il 37enne S. G., che li avrebbe presi a manganellate. Oggi 24
maggio '19 inizia il processo nei suoi confronti.
Ieri a Genova. Come nel giugno del 1960 e nel luglio 2001, Genova segna
un'altra drammatica tappa nella storia delle proteste di piazza.
L'assalto di diverse centinaia di antagonisti alla piazza concessa in
pieno centro città a CasaPound per chiudere con un comizio pubblico la
campagna elettorale, si conclude con durissimi scontri, lanci di
bottiglie, cariche e lacrimogeni. Come già accaduto in altre occasioni,
per alcuni poliziotti l'uso della forza necessaria in alcune fasi dei
tafferugli diventa puro accanimento: a farne le spese è stato il
giornalista di Repubblica Stefano Origone che per la redazione di
Genova era lì in strada a raccontare gli avvenimenti. Un gruppo di una
mezza dozzina di agenti lo ha aggredito pestandolo con manganellate e
calci in tutto il corpo e alla testa. Origone ha due dita fratturate,
una costola rotta, un trauma cranico, ecchimosi e ferite in tutto il
corpo. Il questore Vincenzo Ciarambino gli ha fatto visita in ospedale,
ha chiesto scusa e ha spiegato che il giornalista si è trovato nel bel
mezzo dell'arresto di un manifestante violento. In realtà, le immagini
dei video mostrano Stefano fermo in un angolo di piazza Corvetto,
addossato ad un muro, quindi senza via di fuga, accerchiato e
massacrato di botte anche quando è a terra. Anche se fosse stato un
facinoroso, l'accanimento contro una persona ormai inerme sarebbe
evidente.
La gestione della situazione da parte delle forze dell'ordine è apparsa
fin dal primo momento non all'altezza: i reparti mobili impegnati sul
terreno (circa 300 agenti) non si aspettavano una massa di manifestanti
così numerosa e attiva. Il presidio antifascista convocato da Cgil,
Anpi, Arci e comunità San Benedetto, quella di don Gallo, alle 16.30
davanti alla prefettura, ha raccolto una folla numerosa di circa 2 mila
persone. E all'interno, raccolti attorno allo striscione "Genova
antifascista" erano diverse decine i giovani più arrabbiati.
Come sempre in Italia a certi corpi dello Stato non è necessario
impartire degli ordini particolari: chi li deve attuare c'ha la
genetica e l'educazione adatta a comprendere cosa come deve fare. A
agisce.
Sarà un caso ma oltre a quella del questore è scattata subito una
sequenza di annunci di alte autorità –dal capo della Polizia
Gabrielli al prefetto al Procuratore Capo Francesco Cozzi che
hanno espresso solidarietà al giornalista al procuratore aggiunto
Francesco Pinto che ha aperto due distinti fascicoli per l'accertamento
dei fatti e delle responsabilità - di provvedimenti esami scuse e
vedremo cosa resterà quando tutto sarà chiuso con una sentenza.
La Fnsi, il sindacato dei giornalisti ha criticato la gestione della
piazza da parte della questura: «Una piazza concessa ai neofascisti di
CasaPound e decine di poliziotti in tenuta antisommossa comandati a
rendere impermeabile una "zona nera" nel cuore di Genova, città
medaglia d'oro della Resistenza. E come già accaduto nelle tragiche
giornate del G8 la gestione dell'ordine pubblico sfugge di mano». La
Fnsi ha anche condannato «le minacce rivolte da alcuni antagonisti alle
troupe della Rai e di Primocanale ».
La Polizia, i giornalisti e la piazza consegnata ai neofascisti
dall'immunità dovuta al "candidato". Sono tre fattori di un'equazione
o, se preferite, di un cortocircuito, che fotografa nitidamente l'esito
della corsa irresponsabile cui un ministro dell'Interno, con la
complicità silenziosa dei suoi alleati e la sottovalutazione distratta
del Parlamento (con qualche rara eccezione) ha deciso di consegnare il
Paese. Sulla Polizia, sui suoi uomini tutti, è stata e viene scaricata
la pressione impossibile da reggere di un richiamo primitivo alla
pancia dell'apparato, che invita all'obbedienza allo "spirito dei
tempi". Incapace di immaginare la Polizia come un'istituzione
democratica e repubblicana, dunque di tutti, Matteo Salvini la
sollecita, la rappresenta, la desidera, incarnandola nelle "felpe" che
indossa, per quello che non è e non deve essere: i "moschettieri del
Re". Con un risultato: caricare ogni agente, ogni funzionario in
servizio di ordine pubblico di un peso (o, per qualcuno, di una
tentazione) insopportabile. Che toglie lucidità, serenità e alimenta
paura o solerzie, entrambe pericolose.
Altrettanto esplicito il messaggio alla galassia neofascista. Non è più
il tempo delle fogne. E chi se ne frega delle pronunce della Cassazione
che hanno messo fuori legge CasaPound. Il "nuovo vento", il lavacro
delle urne, autorizza lo scasso verbale e materiale di ogni argine, in
una rappresentazione ostentata, provocatoria che per giunta deve essere
"garantita". Anche lì dove viola la Costituzione repubblicana e le sue
leggi. In un'oscena equivalenza "post-ideologica" tra neofascisti e
forze democratiche. E che in piazza, poi, la faccia ce la mettano i
celerini o la Digos.
Un Paese che comincia a pensare che i giornalisti ma, meglio sarebbe
dire, il giornalismo non è un bene di tutti, che la faccenda è materia
di una corporazione inutile e spazzata via dal tempo, che, anzi, è
venuto il tempo di togliersi i guanti e lasciare che qualche
rompicoglioni abbia ciò che merita — in un vicolo, in una piazza, in
rete — con una robusta dose di minacce (se necessario di morte) o di
legnate, è un Paese che ha cominciato a perdere se stesso. Che comincia
a danzare pericolosamente su un abisso dove la logica del "redde
rationem" deve progressivamente consegnare ogni presidio di libertà e
chi la garantisce a una spaventosa conta. O con me o contro di me. Dove
ogni mediazione salta. Dove l'informazione non ha più diritto di
cittadinanza perché ormai etichettata come «serva» o «bugiarda». Dove a
ogni poliziotto viene imposto di decidere in solitudine se essere
moschettiere del Re o cittadino. E dove i militanti dell'ultradestra
ballano, proteggendosi con l'articolo 21 della Costituzione, la libertà
di espressione.
Il pomeriggio di Genova è un modesto avviso. Per tutti. E che un
giorno, speriamo non arrivi mai, nessuno dica di non essersene accorto.
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GIORGETTI PROSSIMO PDC?
La questione settentrionale, l'incubo di Salvini dopo le Europee
La corsa della Lega si è rallentata al Nord. Dove le imprese chiedono
misure concrete e non crociate. E potrebbero voltare le spalle al
Capitano, aprendo a un movimento moderato e federalista.
Pensavamo che la partita politica si giocasse al Sud. E lo pensava
anche Matteo Salvini, che ha "terronizzato" la sua Lega per ottenere
nelle regioni meridionali quei consensi che alle scorse Politiche gli
sono mancati e che sono necessari per strappare ai cinque stelle il
grosso degli eletti ai collegi uninominali in quell'area. Invece il 27
maggio, il giorno dopo le Europee, riscoppierà in maniera fragorosa la
questione settentrionale.
I VOTI IN FUGA NEL NORD
Giancarlo Giorgetti, incontrando la stampa estera lo scorso 22 maggio,
ha sottolineato che, nel governo «qualcosa nelle ultime tre settimane
non ha funzionato. Lo confermano anche i sondaggi». Il Gianni Letta del
Carroccio si riferisce alle rilevazioni che in questi giorni sono state
equanimi soltanto su un punto: la corsa fragorosa della Lega si è
rallentata soprattutto nel Nord Ovest e nel Nord Est, dove il partito
di Salvini non può semplicemente risultare il primo. Soprattutto perché
al momento quelle parti del Paese hanno come naturale riferimento
politico solo il Capitano. Invece, nel cuore produttivo del Paese sono
in libera uscita pacchi di voti, che finora non hanno trovato ancora
casa e che potrebbero dare sollievo al Pd, visto che con la ritirata di
Forza Italia manca ogni sbocco moderato.
Crescono i malumori a Torino, a Milano, in Emilia e nel profondo Nord
Est. La rivoluzione fiscale tanto sbandierata - e non soltanto dal
Carroccio - è stata rimandata alla prossima manovra, ma potrebbe essere
sacrificata per congelare l'aumento dell'Iva. Si parla di
semplificazioni e di taglio del costo del lavoro, ma al momento su
questo fronte le imprese lamentano soprattutto le restrizioni imposte
dal decreto Dignità ai contratti a termine o i nuovi e costosi obblighi
legati alla fatturazione. Lombardia, Piemonte e Veneto si sentono
sempre più parte integrante dell'Europa che dell'Italia: invece il
governo ha portato avanti una guerra senza capo né coda contro la
Commissione Ue, che ha finito soltanto per isolare il Belpaese nei
tavoli che contano. Il tutto mentre crescono le nubi sulla
realizzazione della Tav Torino Lione e il rischio che i flussi delle
merci passino per l'altro lato delle Alpi.
L'AUTONOMIA E LA VOGLIA DELLE REGIONI DI TRATTARE CON L'UE DA PARI
E poi c'è il dossier Autonomie. Le piattaforme presentate da Lombardia
e Veneto - ma in parte anche quella più cauta preparata
dall'Emilia-Romagna - vogliono ribaltare il paradigma della Repubblica
e portare dal centro alla periferia il potere di definire e finanziare
i servizi essenziali. Una proposta troppo hard, ma che al netto di ogni
finalità non soltanto politica esemplifica la tendenza di un territorio
a ottenere un riconoscimento istituzionale per poi trattare con
l'Europa che conta alla pari. La politica, dopo il 27 maggio, dovrà
rispondere con una strategia politica complessiva che, a differenza di
quanto fatto finora da Lega e M5s, non si compone soltanto di spot e
misure sporadiche come lo sono stati gli sgravi dell'Imu sui capannoni
o le Olimpiadi invernali tra la Valtellina e le Dolomiti. E chi lo fa,
vincerà.
Certo, l'Italia tornerà a essere la terza potenza europea se riuscirà a
connettere e sviluppare l'economia meridionale, ma al momento è
soltanto al Nord che il sistema italiano ha gli strumenti (non solo
produttivi e finanziari) per uscire dalla crisi. Intanto sopra la linea
gotica si è già aperto uno spazio politico per un contenitore moderato,
federalista e riformista che cerca soltanto un leader e che i giornali
hanno identificato in Urbano Cairo. Quanto l'interessato sia propenso a
scendere in campo conta poco. Resta il fatto che pur in maniera
magmatica e senza una testa a guidare questo movimento, il Nord ha già
dato un segnale al fronte sovranista. E questo Salvini lo dovrebbe aver
capito bene, visto che la Lega ha sempre avuto successo quando ha
rappresentato interessi molto concreti - le tasse, la sanità, i diritti
della piccola impresa - ed è scomparsa quando si è persa in battaglie
ideologiche.
Francesco Pacifico
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