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Andrea Bonanni
Difesa comune, una svolta storica
Il primo dividendo politico della Brexit è stato incassato dagli europei al vertice della settimana scorsa conia creazione di una difesa europea. La cerimonia con cui i capi di governo hanno dato il via alla «cooperazione strutturata permanente» tra 25 Paesi in campo militare è stata celebrata in pompa magna ma è passata quasi inosservata sui media Eppure si tratta di una svolta che potrebbe avere una portata storica Erano più di sessantanni che l'Europa cercava di darsi ima propria identità in materia di Difesa. Negli anni Cinquanta il progetto della Ced, la comunità europea di difesa, era stato affossato dal Parlamento francese. Poi, lino agli armi Novanta, erano stati gli americani a opporsi all'idea, preoccupati che si creasse una organizzazione alternativa alla Nato. Negli ultimi due decenni, la principale resistenza è venuta dal governo britannico. Londra non ha mai voluto che la Ue assumesse un molo politico sulla scena internazionale. E dunque ha coerentemente boicottato tutti i tentativi degli europei di dotarsi di uno strumento militare autonomo. La svolta, non a caso, è arrivata all'indomani del referendum con cui gli inglesi hanno scelto di uscire dall'Unione. Con una dichiarazione congiunta, Germania, Francia, Italia e Spagna hanno lanciato la loro cooperazione rafforzata in campo militare.
Uno dopo l'altro, hanno aderito tutti gli altri stati membri della Ue, ad eccezione di Malta, Danimarca e, ovviamente, Gran Bretgna. E al successo dell'iniziativa non è sicuramente estranea l'influenza del presidente americano Donald Trump. Il suo arrivo alla Casa Bianca, le sue polemiche iniziali contro la Nato, la sua diffidenza verso qualsiasi politica multilaterale, non ultimo i sospetti di una sua convergenza conia Russia di Putin, hanno convinto anche le capitali più tradizionalmente "atlantiche”, soprattutto dell'Est, che l'opzione europea valesse la pena di essere percorsa.
Presa la decisione, il grosso ovviamente resta da fare. Si parte con un fondo Ue, che arriverà nel 2020 a un miliardo e mezzo, per promuovere la ricerca su una serie di progetti congiunti. Ma si sarà anche l'attiva zione di forze comuni di intervento rapido, che esistono da tempo ma che non sono mai state utilizzate. Il resto sarà tutto da costruire. Intanto però le basi sono state gettate e la volontà di andare avanti insieme ha preso una forma giuridicamente vincolante. Non è un caso che, ora, il governo britannico abbia dichiarato che sarebbe interessato a partecipare all'iniziativa che ha bloccato per tanti anni. Ma i giochi, oramai, si
Senza grandi clamori il governo ha deciso di trasferire cinquecento nostri soldati dall'Iraq al Niger. Facendo capo al fortino di Madama, che in altri tempi ospitò la Legione Straniera francese, i nostri militari effettueranno missioni di sorveglianza nel Sahel nigerino e cureranno l'addestramento delle truppe locali.
Mai fidarsi dei militari e dei governi? Mai! Il 18 maggio scorso così scriveva il Ministero della Difesa: “Il Ministero della Difesa smentisce le notizie relative all'invio di militari italiani in Niger. Si sottolinea che non vi è nessuna ipotesi operativa al riguardo. La simulazione e pianificazione di tali azioni rientra nella normale attività addestrativa degli Stati Maggiori e riguarda le principali aree di crisi”. Con questa nota il Ministero della Difesa aveva inteso smentire le notizie diffuse – anche allora dal quotidiano La Repubblica – sulla messa a punto dell'Operazione militare italiana “Deserto Rosso”, tesa a contrastare i flussi di immigrati che dal Niger raggiungono la Libia.
Ma solo cinque mesi dopo, il 27 settembre, Italia e Niger hanno firmato a Roma un accordo di cooperazione nell'ambito della Difesa, accordo siglato dai ministri Roberta Pinotti e Kalla Moutari. Ne aveva dato succintamente notizia il ministero della Difesa, senza rivelare però i dettagli circa i contenuti dell'accordo che rientra nella strategia italiana di cooperazione militari con i Paesi africani interessati dai flussi di immigrati diretti in Libia e poi in Italia. Ne davamo conto ai primi di ottobre. “In Niger lo sanno tutti che l'Italia è pronta ad avviare delle operazioni – riferiva al Fatto un funzionario nigerino – Nella base americana di Agadez di ufficiali italiani se ne vedono spesso.”
Adesso si scopre che nelle prossime settimane una missione militare italiana sarà inviata in Niger. Ufficialmente ha lo scopo di combattere il traffico di migranti diretto in Libia e di addestrare l'esercito nigerino. La missione, è stata ufficialmente annunciata due giorni fa dal presidente del Consiglio Gentiloni al termine del G5 Sahel, un incontro che si è tenuto a Parigi tra i capi di stato e di governo di Francia, Germania, Italia con quelli dei cinque paesi del Sahel: Burkina Faso, Chad, Mali, Mauritania e Niger. A renderlo noto è stata anche questa volta La Repubblica ma il Ministero della Difesa non ha potuto smentire, anzi ha notificato che la notizia è vera.
In questa nuova operazione militare all'estero saranno inviati 470 militari e 150 veicoli. La missione sarà autorizzata da un decreto legge che è già stato inviato al presidente della Repubblica e che dovrebbe essere convertito in legge dal Parlamento nei prossimi giorni. Il contingente italiano dovrebbe partire o a fine anno o all'inizio del prossimo per sostituire il contingente militare francese nella località di Madama, un vecchio fortino della Legione Straniera a poca distanza dalla frontiera libica.
Sarà interessante vedere come su questa operazione dal sapore spudoratamente coloniale voteranno i deputati in Parlamento, e trarre tutte le dovute co
“Via dall'Iraq  metà dei soldati .E l'Italia in Africa rafforza l'impegno”
Gianluca Di Feo
La nuova missione in Africa, il dimezzamento del contingente in Iraq, la riduzione di quello in Afghanistan ma anche il progetto militare europeo.L'attività di governo di Roberta Pinotti, prima donna al vertice della Difesa, si avvia alla chiusura con un carico di impegni internazionali.
Il premier Gentiloni ha presentato la missione in Niger, che sarà sottoposta al Parlamento nei prossimi giorni, come un impegno a difesa del nostro interesse nazionale.
«Negli ultimi decenni le forze armate hanno condotto missioni importanti, che spesso vedevano prioritariamente la tutela di un interesse di sicurezza globale, senza riverberi immediatamente riferibili al nostro Paese. Poi negli scorsi anni ci siamo resi conto che proprio nel mare in cui siamo immersi sono aumentati gli elementi di instabilità e di pericolo. Il principio è che la Difesa deve intervenire su minacce che riguardano il Paese e credo che sia importante una ricollocazione delle missioni che vada a prevenire gli effetti più diretti nell'area che chiamiamo il “Mediterraneo allargato”.
L'operazione in Niger è frutto di questa strategia, come lo sono la missione in Libano e quella per il contrasto dell'Isis in Iraq. Nel Sahel si sta costruendo una forza di cinque Paesi africani, sostenuta dall'Onu e dall'Unione europea, in un territorio fondamentale sia per proteggerci dal terrorismo sia per la lotta alla rete criminale che ha gestito l'immigrazione clandestina».
La missione in Niger è anche frutto di un accordo tra Italia-Francia-Germania. Sarà un prototipo sul campo di quella capacità autonoma di Difesa europea che lei è ha contribuito a imporre nell'agenda Ue?
«Sì, per l'Europa di oggi e per quella del futuro l'Africa rappresenta una sfida fondamentale. Bisogna aiutare a sanare le sacche di instabilità diffusa con un progetto che offra sviluppo, lavoro, cultura ma anche sicurezza. Nei colloqui con Francia e Germania è stata evidenziata la centralità dell'Africa per la nostra sicurezza, perché quello che rischia di accadere lì mette in pericolo anche i nostri territori. Per questo interpreto la missione in Sahel come il primo sviluppo di una concreta strategia di difesa europea».
In vista del nuovo intervento si ridurranno altre missioni?
«Con soddisfazione posso dire che uno degli obiettivi è stato raggiunto: l'Isis è stato sconfitto in Siria e in Iraq, Paese dove il nostro impegno è stato forte con circa 1500 militari. Lì andremo a dimezzare la nostra presenza, riducendo il contingente che coopera alla protezione della diga di Mosul. Manteniamo però l'impegno per l'addestramento di quelle forze soprattutto di polizia destinate a stabilizzare la situazione e proseguire la lotta al terrorismo».
E in Afghanistan?
« Bisogna premettere che da anni l'Italia ha preso la guida del Prt, ossia del centro che coordina la ricostruzione, di tutta l'area sud occidentale. Non possiamo abbandonarlo perché sarebbe una dimostrazione di scarsa responsabilità. Quindi continueremo a tenere quel comando ma abbiamo chiesto agli alleati di integrare i nostri soldati con unità di altre nazioni, in modo da ridurre i 900 militari presenti ora » .
Biotestamento, chi non è d’accordo può continuare a non farlo. Ecco il bello di avere la legge.
La “notizia sensazionale” è che da oggi chi non vuole fare testamento biologico o interrompere terapie vitali… può continuare a non farlo. Come per chi non ha voluto e non vuole abortire, divorziare, unirsi civilmente, il riconoscimento di una nuova libertà civile non ha tolto nulla a nessuno.
Sottolineare tale scontatezza serve in realtà a collocare l’approvazione della legge sul biotestamento come tappa di un percorso che nasce con la grande stagione referendaria radicale degli anni 70, si interrompe con la barriera della Corte anti-Costituzionale contro il referendum per l’abolizione del Concordato, arretra nell’era della “reazione” ruiniana, della legge 40 e del boicottaggio al referendum di Luca Coscioni, e riprende finalmente nell’ultima legislatura con le unioni civili e – appunto – il biotestamento. E’ un percorso che ora deve proseguire: matrimonio egualitario, legalizzazione dell’eutanasia e del testamento biologico, delle droghe oggi proibite e della ricerca sulle staminali embrionali e la modificazione del genoma, per citare soltanto alcuni dei fronti aperti come Associazione Luca Coscioni.
Al contrario di ciò che ci si imputa, non si tratta qui di pretendere il diritto a tutto o di confondere libertà e licenza. Tutte le scelte che investono la nascita, la vita, la morte, le cure, la ricerca portano con loro responsabilità anche drammatiche. Di fronte a tali scelte il cittadino non va lasciato solo, e nemmeno gli basterà avere in tasca il diritto di scegliere. Avrà invece bisogno del diritto a conoscere, ad essere informato e – se lo vuole – curato e assistito da parte di uno Stato capace di garantire condizioni minime di uguaglianza nell’accesso a tali scelte.
Il grande problema “etico” del nostro tempo non deve più essere quello dell’alternativa tra libertà e divieto, ma deve sempre più divenire quello delle migliori condizioni per l’effettivo esercizio della libertà. Il diritto, e non certo la clandestinità, è strumento fondamentale e condizione minima per un intervento pubblico che non sia persino controproducente.
Viva la legge sul biotestamento, dunque! E andiamo avanti!.