Lenta
e col motore fragile. La ripresa italiana descritta nel Rapporto
Annuale dell'Istituto Nazionale di Statistica assomiglia a un auto
d'epoca appena uscita dal garage in cui è stata dimenticata per anni.
Tra le nascite che calano, le generazioni più giovani che stentano e un
tessuto produttivo su cui grava ancora il peso della crisi, non si
vedono i pistoni che possano produrre un'accelerazione sostenuta. Il
rischio, piuttosto, è di finire in panne alla prossima curva.
L'economia italiana, è bene dirlo, almeno è ripartita. Le condizioni
eccezionali di caduta dei prezzi, legate soprattutto al crollo del
costo delle materie prime, hanno fatto crescere il potere d'acquisto e
aiutato i consumi. La crescita economica ha avuto effetti positivi
anche per i più deboli: nel 2015, il numero di famiglie italiane che ha
peggiorato la quantità o qualità delle sue spese è sceso, un trend che
per la prima volta da anni si è esteso anche al Sud. La quota di
famiglie in grande povertà si è stabilizzata.
Il futuro rimane però profondamente incerto. La prima preoccupazione
viene dalle nostre aziende manifatturiere, la cui ripresa riguarda meno
settori che in altre fasi di espansione. Il rischio è che la capacità
produttiva — capannoni, macchinari, ma anche competenze-
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Europa.
La produttività, l'unico combustibile capace di spingere l'economia nel
tempo, continua ad avere un ruolo limitato sui miglioramenti
occupazionali nella manifattura e pressoché assente nei servizi.
L'introduzione del contratto unico a tutele crescenti grazie al Jobs
Act sembrerebbe aver aiutato le aziende più piccole ad assumere. Ma
anche per l'Istat, come pure sottolineato in uno studio di ricercatori
della Banca d'Italia, il cambiamento legislativo più importante rimane
la decontribuzione per i nuovi assunti. “L'utilizzo del provvedimento
in questione ha rappresentato la principale variabile a sostegno
dell'occupazione complessiva dell'impresa”, scrivono gli statistici
nazionali. Questa misura è stata ridotta quest'anno, portando già a una
decelerazione dei miglioramenti nel mercato del lavoro. L'augurio è che
il governo si ricordi di queste considerazioni quando si troverà a
scegliere dove tagliare il carico contributivo.
Il problema da risolvere è, infatti, soprattutto quello della poca
occupazione giovanile. Il tasso di occupazione di cinquantenni e
sessantenni è cresciuto costantemente dal 2004 in poi, mentre per chi
ha tra 15 e 34 anni è quasi sempre sceso, con un'accelerazione del calo durante la crisi. Il
risultato è che, negli ultimi dieci anni, il rischio di finire in
povertà è salito nettamente
tra i più giovani, mentre è diminuito
marginalmente tra gli anziani,
protetti da un sistema pensionistico che resta più
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I
numeri che colpiscono di più scorrendo il Rapporto annuale dell'Istat
presentato ieri a Roma sono quelli che fotografano la velocità del
cambiamento delle famiglie italiane, esaminate non dal lato del
mutamento degli stili di vita ma nel loro ruolo di soggetto economico
durante e dopo la Grande Crisi. In un solo anno, dal 2014 al 2015, le
famiglie jobless sono aumentate dal 9,4 al 14,2% e le più colpite
dall'assenza di lavoro si trovano nella fascia generazionale giovane. I
nuclei parentali che hanno al loro interno più di un occupato sono
scesi dal 45,1 al 37,3% e anche le famiglie con un solo membro che
lavora regolarmente sono calate dal 31,4 al 29,3%. All'interno di
questa quota cresce il fenomeno delle breadwinner , ovvero delle donne
che portano loro a casa «il pane per tutti». Intervenendo alla
presentazione del Rapporto il presidente Giorgio Alleva ha anche
introdotto un ulteriore approfondimento in merito alla trasmissione
intergenerazionale delle condizioni economiche: il forte legame che c'è
tra i redditi di giovani tra i 30 e i 39 e il contesto socio-economico
delle famiglie di provenienza. Alleva ha sottolineato il rischio che
«la famiglia diventi un ostacolo alla mobilità sociale». In Italia il
vantaggio dei giovani con status di partenza alto —
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che da adolescenti vivevano in casa di proprietà e avevano
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Il
fenomeno dell'allungamento della permanenza dei giovani in famiglia è
stato ampiamente trattato in questi anni, il Rapporto Istat
ci permette di aggiungere ulteriori fattori di conoscenza. Grazie a
questi dati possiamo pensare di spaccare l'universo dei bamboccioni in
almeno tre fasce. La prima riguarda coloro che grazie al robusto
investimento in capitale umano delle famiglie conseguono un titolo di
studio che chiameremo competitivo (sul mercato del lavoro). Rispetto al
passato il completamento dell'iter si allunga mediamente di tre anni,
successivamente però i riscontri statistici ci dicono che questo tipo
di giovane altamente qualificato trova una collocazione all'altezza
delle aspettative in circa 36 mesi. Una seconda fascia la possiamo
individuare nei giovani che si laureano ma conseguono alla fine del
corso di studi un titolo poco competitivo sul mercato e di conseguenza
prolungano la loro permanenza in famiglia perché devono inseguire
occupazioni precarie e/o demansionate. Il terzo gruppo, sul quale c'è
un'ampia letteratura, sono i cosiddetti Neet che non studiano e non
lavorano: costituiscono lo zoccolo duro della disoccupazione giovanile,
costretti a restare nella casa paterna sine die.
Finora la famiglia è riuscita ad assorbire e governare i fenomeni di
cui abbiamo parlato con una
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sia andata via per sempre con la grande recessione, o quanto meno sia estremamente difficile da recuperare.
L'altro segnale di questa debolezza è nelle scelte che le famiglie
compiono. Nel 2015, le importazioni in Italia hanno registrato un vero
boom, crescendo del 6 per cento su base annua. L'aumento riguarda
soprattutto i beni di consumo, non i prodotti intermedi che potrebbero
far presagire una forte ripresa dell'industria. Ogni euro speso in
Italia su un maglione Zara o una lavatrice Bosch finisce invece per lo
più in tasche straniere, frenando la nostra ripresa.
Il Rapporto sottolinea come le nostre merci continuino ad essere
competitive all'estero, e come la loro convenienza relativa stia
leggermente migliorando. Ma la maggiore penetrazione delle importazioni
dimostra come le aziende italiane siano sempre meno in grado di
soddisfare la domanda interna. Le recenti scelte del governo di
privilegiare la crescita dei consumi coi bonus fiscali, invece di
tagliare con più forza il carico contributivo per le imprese, non
aiutano. Il rischio è di diventare un Paese cicala che consuma in
misura sempre maggiore quel che non produce — finché dura.
Anche il mercato del lavoro resta gracile. L'occupazione è ripartita,
ma molto è dovuto al miglioramento delle condizioni economiche in
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generoso di quanto
non sarà in futuro.
Le difficoltà di chi è nato negli anni '80 e '90 rischiano di avere
effetti di lungo periodo. Anche a causa dell'incertezza economica, nel
2015 le nascite sono state 488.000, 15.000 in meno rispetto al 2014 e
il numero più basso dall'Unità, quando però la mortalità infantile era
assai più elevata. In assenza di un cambiamento deciso nelle politiche
di immigrazione, questo declino ridurrà il potenziale della nostra
crescita e la sostenibilità del nostro sistema pensionistico.
Che si guardi avanti fra sei mesi o sessant'anni, le sfide per l'Italia
che esce dalla crisi restano insomma enormi. Pensare di cavarsela con
un tagliando o una messa a punto è purtroppo ingannevole. Rottamare
deve essere più di uno slogan elettorale.
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almeno un
genitore laureato e/o manager — è di gran lunga più alto che negli
altri Paesi europei, con la sola eccezione dell'Inghilterra. E la
nostra scuola, del resto, non riesce a svolgere il suo ruolo
istituzionale, quantomeno, di attenuazione delle differenze di partenza.
La verità è che nei lunghi anni della recessione la famiglia in Italia
è stato un potentissimo ammortizzatore sociale. Nella sostanza ha
redistribuito al suo interno i redditi che venivano dagli stipendi dei
padri e dalle pensioni dei nonni assicurando che i figli potessero
avere una continuità degli standard di vita anche quando, una volta
finita la scuola, non riuscivano a debuttare nel mondo del lavoro. In
qualche caso non gli stipendi ma i risparmi sono serviti a far partire
attività imprenditoriali dei nipoti come testimonia l'elevato numero di
partite Iva che apre ristoranti, centri benessere o aziendine
informatiche senza far ricorso al credito ordinario. La redistribuzione
intergenerazionale dei redditi ha permesso in questi anni di limitare
la povertà minorile, un fenomeno ormai presente nel nostro Paese ma che
avrebbe potuto conoscere dimensioni più larghe.
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ristrutturazione dei consumi e delle
priorità di spesa, il peso della crisi però continua a farsi sentire e
non si può escludere l'arrivo di una seconda
fase in cui non sarà così semplice operare da ammortizzatore sociale.
La famiglia-welfare però porta con sé anche qualche distorsione di
carattere culturale. Non ha un'esatta percezione di come si muove il
mercato del lavoro ed è portata, ad esempio, a privilegiare il lavoro
impiegatizio purchessia. I padri che hanno sempre ragionato equiparando
la mobilità sociale al superamento delle occupazioni manuali tendono a
riproporre lo stesso schema anche per la prole, non tenendo conto però
che nelle fabbriche e nel terziario moderno la complessità del lavoro
sta abbattendo vecchi steccati. Si spiega così il fatto che in
determinate zone del Paese — per lo più al Nord — le imprese cerchino
alcune figure di tipo tecnico-professionale e non le trovino. Ad
aiutare la famiglia-welfare ad evolvere culturalmente e a favorire
l'occupabilità dei propri figli avrebbe dovuto dare una mano Garanzia
Giovani ma così non è stato.
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