NUMERO 202-A

La famiglia nel Rapporto 2016 dell'ISTAT
Quei segnali dalle famiglie
di Ferdinando Giuliano
LaRepubblica, 21 maggio 2016


La famiglia "welfare" che protegge troppo i giovani di Dario di Vico
Il Corriere della Sera, 21 maggio 2016










Lenta e col motore fragile. La ripresa italiana descritta nel Rapporto Annuale dell'Istituto Nazionale di Statistica assomiglia a un auto d'epoca appena uscita dal garage in cui è stata dimenticata per anni. Tra le nascite che calano, le generazioni più giovani che stentano e un tessuto produttivo su cui grava ancora il peso della crisi, non si vedono i pistoni che possano produrre un'accelerazione sostenuta. Il rischio, piuttosto, è di finire in panne alla prossima curva.
L'economia italiana, è bene dirlo, almeno è ripartita. Le condizioni eccezionali di caduta dei prezzi, legate soprattutto al crollo del costo delle materie prime, hanno fatto crescere il potere d'acquisto e aiutato i consumi. La crescita economica ha avuto effetti positivi anche per i più deboli: nel 2015, il numero di famiglie italiane che ha peggiorato la quantità o qualità delle sue spese è sceso, un trend che per la prima volta da anni si è esteso anche al Sud. La quota di famiglie in grande povertà si è stabilizzata.
Il futuro rimane però profondamente incerto. La prima preoccupazione viene dalle nostre aziende manifatturiere, la cui ripresa riguarda meno settori che in altre fasi di espansione. Il rischio è che la capacità produttiva — capannoni, macchinari, ma anche competenze-

Europa. La produttività, l'unico combustibile capace di spingere l'economia nel tempo, continua ad avere un ruolo limitato sui miglioramenti occupazionali nella manifattura e pressoché assente nei servizi.
L'introduzione del contratto unico a tutele crescenti grazie al Jobs Act sembrerebbe aver aiutato le aziende più piccole ad assumere. Ma anche per l'Istat, come pure sottolineato in uno studio di ricercatori della Banca d'Italia, il cambiamento legislativo più importante rimane la decontribuzione per i nuovi assunti. “L'utilizzo del provvedimento in questione ha rappresentato la principale variabile a sostegno dell'occupazione complessiva dell'impresa”, scrivono gli statistici nazionali. Questa misura è stata ridotta quest'anno, portando già a una decelerazione dei miglioramenti nel mercato del lavoro. L'augurio è che il governo si ricordi di queste considerazioni quando si troverà a scegliere dove tagliare il carico contributivo.
Il problema da risolvere è, infatti, soprattutto quello della poca occupazione giovanile. Il tasso di occupazione di cinquantenni e sessantenni è cresciuto costantemente dal 2004 in poi, mentre per chi ha tra 15 e 34 anni è quasi sempre sceso, con un'accelerazione del calo durante la crisi. Il risultato è che, negli ultimi dieci anni, il rischio di finire in povertà è salito nettamente tra i più giovani, mentre è diminuito
marginalmente tra gli anziani, protetti da un sistema pensionistico che resta più

I numeri che colpiscono di più scorrendo il Rapporto annuale dell'Istat presentato ieri a Roma sono quelli che fotografano la velocità del cambiamento delle famiglie italiane, esaminate non dal lato del mutamento degli stili di vita ma nel loro ruolo di soggetto economico durante e dopo la Grande Crisi. In un solo anno, dal 2014 al 2015, le famiglie jobless sono aumentate dal 9,4 al 14,2% e le più colpite dall'assenza di lavoro si trovano nella fascia generazionale giovane. I nuclei parentali che hanno al loro interno più di un occupato sono scesi dal 45,1 al 37,3% e anche le famiglie con un solo membro che lavora regolarmente sono calate dal 31,4 al 29,3%. All'interno di questa quota cresce il fenomeno delle breadwinner , ovvero delle donne che portano loro a casa «il pane per tutti». Intervenendo alla presentazione del Rapporto il presidente Giorgio Alleva ha anche introdotto un ulteriore approfondimento in merito alla trasmissione intergenerazionale delle condizioni economiche: il forte legame che c'è tra i redditi di giovani tra i 30 e i 39 e il contesto socio-economico delle famiglie di provenienza. Alleva ha sottolineato il rischio che «la famiglia diventi un ostacolo alla mobilità sociale». In Italia il vantaggio dei giovani con status di partenza alto —
- che da adolescenti vivevano in casa di proprietà e avevano

Il fenomeno dell'allungamento della permanenza dei giovani in famiglia è stato ampiamente trattato in questi anni, il Rapporto Istat ci permette di aggiungere ulteriori fattori di conoscenza. Grazie a questi dati possiamo pensare di spaccare l'universo dei bamboccioni in almeno tre fasce. La prima riguarda coloro che grazie al robusto investimento in capitale umano delle famiglie conseguono un titolo di studio che chiameremo competitivo (sul mercato del lavoro). Rispetto al passato il completamento dell'iter si allunga mediamente di tre anni, successivamente però i riscontri statistici ci dicono che questo tipo di giovane altamente qualificato trova una collocazione all'altezza delle aspettative in circa 36 mesi. Una seconda fascia la possiamo individuare nei giovani che si laureano ma conseguono alla fine del corso di studi un titolo poco competitivo sul mercato e di conseguenza prolungano la loro permanenza in famiglia perché devono inseguire occupazioni precarie e/o demansionate. Il terzo gruppo, sul quale c'è un'ampia letteratura, sono i cosiddetti Neet che non studiano e non lavorano: costituiscono lo zoccolo duro della disoccupazione giovanile, costretti a restare nella casa paterna sine die.
Finora la famiglia è riuscita ad assorbire e governare i fenomeni di cui abbiamo parlato con una








sia andata via per sempre con la grande recessione, o quanto meno sia estremamente difficile da recuperare.
L'altro segnale di questa debolezza è nelle scelte che le famiglie compiono. Nel 2015, le importazioni in Italia hanno registrato un vero boom, crescendo del 6 per cento su base annua. L'aumento riguarda soprattutto i beni di consumo, non i prodotti intermedi che potrebbero far presagire una forte ripresa dell'industria. Ogni euro speso in Italia su un maglione Zara o una lavatrice Bosch finisce invece per lo più in tasche straniere, frenando la nostra ripresa.
Il Rapporto sottolinea come le nostre merci continuino ad essere competitive all'estero, e come la loro convenienza relativa stia leggermente migliorando. Ma la maggiore penetrazione delle importazioni dimostra come le aziende italiane siano sempre meno in grado di soddisfare la domanda interna. Le recenti scelte del governo di privilegiare la crescita dei consumi coi bonus fiscali, invece di tagliare con più forza il carico contributivo per le imprese, non aiutano. Il rischio è di diventare un Paese cicala che consuma in misura sempre maggiore quel che non produce — finché dura.
Anche il mercato del lavoro resta gracile. L'occupazione è ripartita, ma molto è dovuto al miglioramento delle condizioni economiche in

generoso di quanto non sarà in futuro.
Le difficoltà di chi è nato negli anni '80 e '90 rischiano di avere effetti di lungo periodo. Anche a causa dell'incertezza economica, nel 2015 le nascite sono state 488.000, 15.000 in meno rispetto al 2014 e il numero più basso dall'Unità, quando però la mortalità infantile era assai più elevata. In assenza di un cambiamento deciso nelle politiche di immigrazione, questo declino ridurrà il potenziale della nostra crescita e la sostenibilità del nostro sistema pensionistico.
Che si guardi avanti fra sei mesi o sessant'anni, le sfide per l'Italia che esce dalla crisi restano insomma enormi. Pensare di cavarsela con un tagliando o una messa a punto è purtroppo ingannevole. Rottamare deve essere più di uno slogan elettorale.

 almeno un genitore laureato e/o manager — è di gran lunga più alto che negli altri Paesi europei, con la sola eccezione dell'Inghilterra. E la nostra scuola, del resto, non riesce a svolgere il suo ruolo istituzionale, quantomeno, di attenuazione delle differenze di partenza.
La verità è che nei lunghi anni della recessione la famiglia in Italia è stato un potentissimo ammortizzatore sociale. Nella sostanza ha redistribuito al suo interno i redditi che venivano dagli stipendi dei padri e dalle pensioni dei nonni assicurando che i figli potessero avere una continuità degli standard di vita anche quando, una volta finita la scuola, non riuscivano a debuttare nel mondo del lavoro. In qualche caso non gli stipendi ma i risparmi sono serviti a far partire attività imprenditoriali dei nipoti come testimonia l'elevato numero di partite Iva che apre ristoranti, centri benessere o aziendine informatiche senza far ricorso al credito ordinario. La redistribuzione intergenerazionale dei redditi ha permesso in questi anni di limitare la povertà minorile, un fenomeno ormai presente nel nostro Paese ma che avrebbe potuto conoscere dimensioni più larghe.

 ristrutturazione dei consumi e delle priorità di spesa, il peso della crisi però continua a farsi sentire e non si può escludere l'arrivo di una seconda fase in cui non sarà così semplice operare da ammortizzatore sociale. La famiglia-welfare però porta con sé anche qualche distorsione di carattere culturale. Non ha un'esatta percezione di come si muove il mercato del lavoro ed è portata, ad esempio, a privilegiare il lavoro impiegatizio purchessia. I padri che hanno sempre ragionato equiparando la mobilità sociale al superamento delle occupazioni manuali tendono a riproporre lo stesso schema anche per la prole, non tenendo conto però che nelle fabbriche e nel terziario moderno la complessità del lavoro sta abbattendo vecchi steccati. Si spiega così il fatto che in determinate zone del Paese — per lo più al Nord — le imprese cerchino alcune figure di tipo tecnico-professionale e non le trovino. Ad aiutare la famiglia-welfare ad evolvere culturalmente e a favorire l'occupabilità dei propri figli avrebbe dovuto dare una mano Garanzia Giovani ma così non è stato.