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https://www.almalaurea.it/universita/occupazione/occupazione14 |
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Dopo la recente approvazione del Def può essere utile
provare a ragionare seriamente sullo stato e le prospettive
dell'economia italiana. È evidente che i vincoli e i condizionamenti di
una politica europea del tutto errata limitano fortemente lo sviluppo
dell'Unione, e la condannano a un destino di stagnazione. Da questo
punto di vista l'iniziativa assunta dal nostro governo di porre in
discussione e aprire un dibattito sulla linea finora seguita e i suoi
effetti è positiva e da condividere, anche se arriva con colpevole
ritardo, perché il dibattito andava aperto nel momento in cui l'Italia
aveva assunto la presidenza di turno dell'Unione, facendo leva sulle
perplessità e le preoccupazioni, già allora molto diffuse, delle
organizzazioni internazionali, degli Stati Uniti e della comunità degli
economisti. Si preferì cercare di ottenere margini di flessibilità per
il nostro Paese, invece di coinvolgere in un dibattito serio tutti i
Paesi. Analogamente, durante la crisi greca, sarebbe stato utile
contestare la linea violenta e prevaricatrice imposta a quel Paese,
invece ci defilammo. In ogni caso è evidente che oggi sarebbe decisivo
riuscire ad ottenere una revisione e un cambiamento della strategia
europea, tanto più che è chiaro che gli interventi della Bce, per
quanto utili, anzi indispensabili, non sono in grado di risolvere il
problema della ripresa europea.
Tuttavia l'Europa non può rappresentare un alibi per i nostri problemi
che sono in gran parte interni e vengono da lontano. Da molto tempo
infatti l'Italia soffre di problemi strutturali che si manifestano in
una pronunciata fragilità, in una crescita molto bassa, e in una
produttività stagnante o addirittura in diminuzione.
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Ciò ha provocato un crollo della posizione relativa dell'Italia
rispetto agli altri Paesi europei in termine di Pil pro capite che nel
2000 era di 17 punti superiore a quello medio dell'Unione Europea,
mentre nel 2015 risultava inferiore di quasi 4 punti.
Il nostro Paese è quello che, dopo la Grecia e Cipro, è stato il più
colpito dalla crisi del 2007-08. Abbiamo avuto due recessioni
consecutive che hanno ridotto il Pil di circa10 punti: ben peggio di
quanto accadde nel 1929! I consumi sono calati dell'8%; gli
investimenti e la produzione manifatturiera del 30% (in media !); la
disoccupazione è cresciuta fino a raggiungere il 12-13%; le
esportazioni hanno recuperato i livelli del 2007, ma tra il 2007 e il
2014 il commercio mondiale è cresciuto del 20%; l'Italia non ne ha
beneficiato.
La ripresa è in corso, ma debole. La crescita del 2015 (0,6-0,7%)
continua ad essere nettamente inferiore a quella degli altri Paesi
europei e della zona euro, ma quel che è più preoccupante è che il
rimbalzo dalla seconda recessione è stato nettamente inferiore a quello
che si verificò nel 2010, dopo la prima recessione (1,7%). Il Clup
(costo del lavoro per unità prodotta) è aumentato dal 2000 al 2014 del
40% rispetto a quello tedesco, dato che esprime in modo chiaro l'entità
della perdita di competitività dell'economia italiana. E tale perdita
non può essere attribuita a responsabilità sindacali, come in passato.
Recentemente Pierluigi Ciocca ha presentato alcuni dati sull'economia
del Mezzogiorno dopo la crisi che sono impressionanti: crollo del Pil
del 14% rispetto all'8% del Centro Nord; consumi -13% (-15% quelli
alimentari) rispetto a -6%; investimenti -33% rispetto a -24%;
disoccupazione: 21%, rispetto a 10%; famiglie in povertà assoluta
raddoppiate sia al Centro Nord che al Sud, ma nel Sud rappresentano il
12%, cioè il doppio che al Centro Nord; tra il 2001 e il 2013 la
popolazione del Sud ha continuato a ridursi, e l'emigrazione ha
riguardato in particolare circa 200.000 laureati. La spesa per opere
pubbliche è scesa nel 2014 a 2 miliardi nel Sud, mentre nel 1992 era
pari a 10 miliardi; essa è invece di 11 miliardi nel Centro Nord...
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In sostanza, l'economia italiana si trova in condizioni molto precarie
che solo in parte dipendono dalla crisi finanziaria e dall'Europa. Di
queste questioni sarebbe opportuno discutere in modo franco ed aperto,
dicendo la verità al Paese e indicando una via percorribile di
miglioramento, dato che una soluzione
immediata di tutti i problemi non è possibile. Ma ciò non avviene.
I nostri problemi sono peraltro noti: illegalità diffusa (corruzione, evasione fiscale, malavita organizzata, clintelis
mo nepotismo, affarismo, traffico di influenze, ecc.) che rappresenta
l'ostacolo principale alla ripresa; imprese troppo piccole e quindi
poco interessate ad investire, in particolare in ricerca e sviluppo;
sistema giuridico obsoleto, soprattutto quello relativo alla
regolazione dell'economia; burocrazia paralizzata e vittima del diritto
amministrativo e cioè di una visione organicistica del settore pubblico
che continua a prevalere; sistema educativo in crisi (università) o da
rivedere; carenza di infrastrutture e di investimenti pubblici;
diseguaglianza elevata e in aumento; poca concorrenza e ampie posizioni
di rendita, ecc.
Una strategia utile per affrontare coerentemente queste questioni nel
corso degli anni manca; così come manca la consapevolezza dei problemi
da parte della classe politica nel suo complesso, e si continua a voler
gestire una situazione estremamente deteriorata con elargizioni a
specifiche categorie, ottimismo di maniera, cercando consenso a breve
fino alla successiva elezione.
Non che politiche alternative siano agevoli e facilmente disponibili.
Ma una strategia alternativa di massima può essere prospettata.
Eccone i nove punti:
1) Porsi come obiettivo di
finanza pubblica a livello nazionale la sola riduzione del debito
pubblico, e combattere per una politica espansiva a livello europeo.
2) Utilizzare tutti i margini di flessibilità europei per eliminare definitivamente la clausole di salvaguardia.
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3) Prendere atto del fatto che ciò che è importante è ridurre le tasse
alle famiglie e alle imprese che oggi le pagano correttamente, e non
ridurre la pressione fiscale complessiva, dati i vincoli di bilancio
esistenti, il che implica la necessità di recuperare evasione da
destinare alla riduzione delle imposte: le proposte (avanzate da chi
scrive) esistono da molto tempo, il governo ne ha accolte alcune
(quelle meno incisive) ma esita su altre.
4) Farla finita con una
politica fiscale che tra bonus vari, incentivi, detassazioni settoriali
o mirate, ecc. insegue i peggiori istinti delle lobby e del Parlamento
e distrugge ogni logica di coerenza del sistema fiscale.
5) Utilizzare ogni altra risorsa residua per spese di investimento ad alto moltiplicatore.
6) Continuare nel processo
di razionalizzazione della spesa pubblica a fini di risparmio, ma
riprendere le assunzioni (soprattutto qualificate) nel settore pubblico.
7) Impostare una coerente strategia di politica industriale.
8) Affrontare in modo sistematico i problemi strutturali elencati più sopra.
9) Coinvolgere le parti
sociali e l'opinione pubblica nel processo perché senza consenso non si
riforma nessun Paese, almeno in democrazia.
Vincenzo Visco
LA REPUBBLICA
27/04/2016
www.nens.it/zone/index.php
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L'Italia
è un paese che ormai viaggia a diverse velocità che purtroppo
resteranno incolmabili, nel senso che le imprese che stanno dietro
hanno come prospettiva la chiusura e quelle che stanno avanti guardano
negli occhi a sanno sfidare la Merkel, Obama, Cameron, i cinesi e gli
indiani.
Chi è stato in grado, prima ancora che coi soldi con la testa, di
perseguire questo disegno ha un futuro e per il resto l'unica
prospettiva è la chiusura.
Purtroppo imprese sotto la guida di una proprietà avveduta e moderna ce
ne sono poche e non poche di loro sono migrate altrove negli anni
passati sfruttando i finanziamenti che l'Ue ha messo a disposizione per
i neo membri dell'Ue stessa.
Gli italiani e lo stato italiano sono preda di un
sistema imprese in gran parte di piccole dimensioni che non hanno ne
capacità ne
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organizzazione in grado di competere a livello non diciamo internazionale ma anche a livello Ue.
La spesa pubblica italiana avvantaggia in gran parte imprese che
sostanzialmente lavorano senza concorrenza: dai farmaci acquistati
dalle ASL passando per l'impresa delle pulizie, quella che fornisce le
risme di carta e l'energia per gli edifici. Per non parlare della spesa
sociale praticamente del tutto in mano a un sistema di pseudo
cooperative che operano in maniera monopolistica e senza alcun reale
controllo.
Immaginate un'impresa tedesca che concorra per la manutenzione degli
impianti di un comune lumbard? Non se ne parla. Immaginate una
cooperativa tedesca che concorre per l'assistenza ai disabili in una
scuola italiana? Immaginate la signora Rosina che chiama un
artigiano cecoslovacco per la manutenzione della caldaia a metano?
Oppure immaginate un'impresa tedesca che concorra per le riparazioni
stradali o la raccolta e smaltimento monnezza di Milano o Roma?.
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Al massimo le imprese straniere cercano di mettere le mani sui servizi a tariffa garantita e assicurata: vedi l’acqua potabile.
Chi lavora in certi settori è automaticamente protetto ed i
prezzi se
li fanno a livello categoriale: cioè in regime di monopolio. Poi si
verifica che il mitico e obbligato controllo caldaia costa 120€ e
l'operatore non ti da nemmeno gli estremi dell'assicurazione sui
lavori.Un secondo aspetto della crisi italiana è che nessuno dice
alle imprese che fare.
Non nel senso di un mercato diretto dallo stato ma nel senso di un
paese che dichiara di perseguire (e finanziare meglio) certi progetti
anziché di tutto. I pochi progetti indirizzati vengono agguantati dai
soliti gruppi – vedi post EXPO Milano…- e tutto finisce in un casino.
Parliamo di Bagnoli-Napoli? Parliamo del futuro dell’acciaieria e della
raffineria di Taranto. E Genova? E la storiaccia della Caffaro a
Brescia? Di scuola il caso fibra ottica dove operano decine di
operatori senza un soldi in tasca e
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senza un progetto che non sia quello di rapinare a breve i consumatori.
Il terzo aspetto è l'incompetenza delle banche che si accompagna ad una politica di rapina.
Ci voleva l'illuminazione dello spirito santo –alle banche ed agli enti
locali- nel decennio successivo al 1997 per comprendere che mettere in
cantiere 6-7 milioni di vani di edilizia residenziale presupponeva una
crescita demografica impossibile persino per l'India?
Eppure ci hanno scommesso, finanziato e adesso hanno in groppa qualche centinaio di miliardi di debito irrisolvibile.
Nemmeno il fiscal compact del 1997 aveva fatto riflettere banche ed enti locali che sarebbero andati a sbattere.
Questo per concludere che il Paese cresce senza dubbio anche con le
forti dose di aspirina di Vincenzo Visco, ma che senza un programma
ambizioso, saremo sempre un ruotino di scorta dell'Ue.
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A scuola, quando ci
andavamo solo col sillabario e il libro di lettura, la maestra col cucu
ci spiegava che la città non era solo un montone di case ma portava
dentro di se dei valori «immateriali» che noi non capivamo bene cosa
fossero.
Diventati grandi, cioè quando abbiamo cominciato a fornicare, abbiamo
capito al volo il messaggio: il valori «immateriali» erano la pizza da
asporto, le patatine fritte con la salsa rossa, le brioss col burro CEE.
Da allora oltre che «grandi» siamo diventati «moderni e intelligenti».
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In Piazza Vecchia
stai sicuro che alle 13,30 arriva il furgone frigorifero a portare la
tagliata al ristorante che brilla per la sua vuotezza. I tendoni sono
di una varietà che sfida il catalogo di una ditta specializzata. In un
altro puoi cibarti delle brioss fatte col burro stagionato
graziosamente messo dentro una gabietta dove invano cercheresti
l'uccelletto e invece ci trovi solo le ulive e le patatine messi li
dentro al riparo dei rapaci e scagazzoni colombi.
Piazza Vecchia è davvero vecchia e decrepita.
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Forse, dico forse, è giunto il momento di prendere qualche provvedimento.
Fermare tutto il traffico dalle 8 del mattino alle 04 di ogni sabato e
domenica e festivi. Fermarlo proprio tutto: non può circolare nessuno.
Nemmeno la croce rossa, CC, VVUU. Fermi tutti e tutti a piedi entro le
mura. Pure una barella col morente si può far correre per 200 metri
senza che questo muoia. Se del caso l’ha voluto il buondio e non
si discute.
Secondo provvedimento: svuotare Piazza Cittadella nei due giorni indicati.
Terzo provvedimento: non concedere più nessuna autorizzazione
commerciale e programmare di ridurle del 30% entro i prossimi dieci
anni.
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Caravaggio" attraversano trascinandosi la valigia rotellata cingolata e rimbombante come un carrarmato.
Domenica scorsa Città Alta era generosamente sporca per la monnezza
sparsa in giro dai visitatori. L'A2A aveva dimenticato che col soap box
rally, altro evento di portata planetaria degna di BG cultur
kapital, non poteva salire in città il mezzo per vuotare i
bidoni.
Al sindaco Gori và però riconosciuto che finalmente una-due volte alla settimana vengono «lavati» i sottopassi
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Città Alta di Bergamo è ormai diventata una sorta di fiera strapaesana
dove atterrano decine di bus che scaricano torme di ignoranti
pensionati e sfaccendati studenti cui viene raccontata una Bergamo
mezza inventata e viene dimenticata la parte vera. Città Alta è un
grande bazar di pizzerie d'asporto, abbigliamento similcinese,
ristoranti e bar travestiti da tali che servono piatti improbabili.
In buona sostanza l'unico e sicuro mezzo per fare in fretta molti soldi
sia per chi è padrone dei locali sia per chi li ha in affitto. A loro
importa nulla se i c.d. «turisti» si fermano un'ora o due ore
attraversando la città, insozzandola di qualche pizzetta sbocconcellata
(nel senso che te la danno pret a porter già tagliata a cubetti: come
si fa col cane).
Dove nel bar che si pretende più lussuoso i gestori ti salutano malgustosi oppure la padrona guarda i clienti come un pitbull.
Ovviamente molti residenti sono proprietari di appartamenti e negozi e
vivono comodamente la contraddizione di poter chiedere cifre
esorbitanti in affitto improbabile di cineserie travestite da mercanzia
cooperativa e la cronica mancanza di parcheggi. Piazza Mercato delle
Scarpe è una sorta di rotonda all'uscita BG dell'A4.
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Meriterebbe un botox .
Una pavimentazione di mattoni simil gres creati doppi e poi divisi per
risparmiare. Le pareti dei fabbricati ormai stra-di-lavate. Le lapidi
piallate dalle intemperie e dall'SO2. Non si possono togliere e
sostituire (in biblioteca ci sono i disegni) come avvenne per i Leoni
di san Marco perché qualcuno lo vieta. I colori e gli affreschi ormai
tutti amalgamati in un grigio beige uniforme verso lo sporco.
Restaurarli? rifarli? E chi paga?
E i cessi? Dove sono i cessi pubblici in Città Alta?. In effetti ce ne
sono almeno due ma -data la materia scottante- non sono
segnalati. In compenso che l’wifi. Che è sistema per costringere
la gggente ad entrare in un bar fare una consumazione e lasciare un
deposito infruttifero nel relativo gabinetto.
Lunedi 25 aprile alle 15.30 in ColleAperto sono approdati tre bus
dell'ATB; un quarto era fermo per un incidente a un passeggero. Sono
arrivati – nello spazio di venti minuti- altro sei mega bus
privati a scaricare la solita torma di pensionati che a sera
rincaseranno senza ricordare una virgola di quel che hanno visto.
Improbabili guide che hanno imparato sul web illustreranno la città.
Boh.
Centinaia di turisti lowcost approdati all'"International
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Quarto provvedimento: in Città Alta a quell'ora si entra esce solo coi
bus. Anzi: coi filobus.Quinto provvedimento. 500 metri quadri di aiuole
estive nelle tre principali piazze.
Dimenticavo due cose.
Città Alta non ha uno straccio di giardino ma ha una selva infestata di
animilli vari in front of Colle Aperto. Intoccabile la valletta: forse
per proteggere la fogna che sgorga ai suoi piedi.
Un metropolitana che dall’international Caravaggio sottopassi la stazione, il
vialone e sotto la città alta fino all’alteza di Colle Aperto con
tre uscite sulla verticale di Piazza mercato delle Scarpe, Piazza
vecchia e Colle Aperto. ‘Na cazzata: chi lo paga? ‘Nga mia i solcc !.
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che gli educati utenti notturni della città usano come latrine in the
road. Adesso ci attendiamo che faccia una strage dei colombi, animale
che suscita in noi parecchio odio, ma odio nerissimo per ragioni che
facilmente potrete immaginare.
Se la mitica pizzeria d'asporto ante Teatro Sociale può dirsi
affollata meglio del treno BG-MI delle sette-e-trenta, invece i musei,
le chiese, le pinacoteche sono spazi molto belli comodi silenziosi.
‘Na fet de che la roba egia le!?
Faga invece u bel residens che almeno al laura la zet.
Musei vuoti.
Semivuoti al 90 per cento. La cultura in Città Alta è una pizza
già fatta a pezzi per essere data parte al cane e parte al
cristiano.
Il balcone del Palazzo della Ragione è «stenditoio culturale» della
città: ognuno piazza lo stendardo delle dimensioni e forme che meglio
aggrada. Pimpinelli colorati in mezzo alla piazza: qualche volta anche
in numero esagerato.
‘Na guera. Una guerra contro le scolaresche perché ‘ste stronzi non
spendono e quindi senti alzarsi il lamento «non ci lasciano
tranquilli un momento! mentre dimentica che lui o lei o entrambi hanno
affittata quella che fino all’altro ieri era la stalla dell’asino per
farne un pub-birreria aperto fino all 4 del mattino. Forse le due.
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Bergamo
è una città che da anni si arrovella su una serie di problemi
irrisolti: uno stadio e un palazzetto da rifare, una circonvallazione
strampalata che non chiude un vero anello attorno all'area urbana, un
rondò dell'autostrada che rasenta il ridicolo. Ma Bergamo è anche la
città che ha saputo innalzarsi su uno scenario di parziale
irrisolutezza creando una realtà che ora la Lombardia e l'Italia le
invidiano: un aeroporto fuori dalla porta di casa, che ogni anno è in
grado di movimentare una mole di passeggeri pari a dieci volte gli
abitanti della sua provincia. Uno scalo che ha come sfondo la
meraviglia di Città Alta, cresciuto grazie alla capacità di fare
sistema e alla lungimiranza di un manager
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come Ilario Testa, e destinato in via
obbligata a finire nelle mani dell'imprenditoria blasonata,
rappresentata in questa fase da Miro Radici. Ogni successo, però, ha il
suo prezzo. Ed è quello che da anni più residenti pagano in termini di
decibel, di sveglie date spesso dagli aerei la mattina, con conseguente
pacchetto di rabbia e stress. È vero, sono pochi rispetto ai
bergamaschi che da anni godono dei benefici dell'aeroporto a due passi
da casa, ma che i disagi ci siano è un dato oggettivo. E qualcosa si
muove: giusto ieri, sul tema, si è assistito a una prima assoluta.
L'agguerrita associazione «Colognola per il suo futuro» ha applaudito
un sindaco di Bergamo. È toccato a Giorgio Gori, grazie alla
diversificazione delle rotte aeree che il primo cittadino hasottoposto alla commissio-
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-ne
aeroportuale. Chi, per anni, ha protestato, anche con cortei in centro
città e slogan non proprio delicati nei confronti degli amministratori,
sembra pronto a dire sì. Dando fiducia a Palazzo Frizzoni che al
dibattito ha aggiunto stime sue: con le nuove linee di decollo i disagi
si dimezzerebbero. Saranno i fatti a dirlo, nel caso in cui la proposta
venisse tradotta in realtà. Ma quante volte ancora si potranno
diversificare le rotte? Più l'aeroporto strappa successi e record più
appare chiaro che il vero tema, anche per il benessere del territorio,
è il suo sviluppo. Davvero Bergamo, e Orio al Serio, potranno
permettersi fra 13 anni, nel 2030, un movimento di 100 mila voli
all'anno e una mole di viaggiatoriincremen-
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-tata
di quasi il 50% rispetto a oggi, così come prevede il piano di sviluppo
aeroportuale? Una domanda a cui sono le prospettive future a poter dare
risposte. La fusione tra Sea e Sacbo e il collocamento di Montichiari
sullo scacchiere dei cieli mai come oggi non sono un affare per addetti
ai lavori, ma partite che riguardano da vicino il territorio e chi lo
abita.
Armando di Landro
Corriere della Sera
30 aprile 2016
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Impossibile sapere alcuni dati fondamentali:
-quanti bergamaschi partono-arrivano
-che destinazione hanno percentualmente
-quanti passeggeri transitano
-numero e percentuale delle destinazioni
-di chi sono le infrastrutture e i servizi che servono all'aeroporto (trasporti, parcheggi, ristorazione)
-quanti di questi servizi hanno carattere monopolistico (p.e.: un
parcheggio privato nei pressi dell'aeroporto è un servizio
monopolistico)
-quanti passeggeri “in transito” entrano in città e/o pernottano in città e dintorni.
Un aeroporto è una struttura del tutto monopolistica, perché chi ce
l'ha non ha concorrenza. Se poi da dei servizi alle compagnie di minor
costi rispetto agli aeroporti vicini, non si tratta semplicemente di
concorrenza ma di accentuazione del monopolio.
La proposta del sindaco Gori “suddivisione al 50 per cento dei decolli verso ovest su due rotte :
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una denominata Prnav, che prevede una virata più stretta rispetto
all'attuale, e una (la “220″, già utilizzata in passato) in asse con la
pista – si associa in questo caso l'ipotesi di inversione dei flussi di
decollo e atterraggio per cinque ore al giorno – dalle 11 alle 16– e lo
spostamento in fascia diurna di un volo attualmente in decollo notturno
verso Bergamo” era già stata avanzata (in parte) l'anno scorso ma
alcuni sindaci s'erano detti contrari alla sperimentazione.
Ovviamente sono soddisfatti gli abitanti ad ovest dell'aeroporto e si
incazzano quelli ad est. Naturalmente poi ci sono quelli che tacciono
ma sanno far valere nei posti che contano le loro ragioni: vedi il
maggior consumo di carburante che si potrebbe rilevare nel tempo.
In genere l'atterraggio ed il decollo degli aerei segue la ventosità
della zona (decollano controvento) ma questo non è un limite tecnico
degli aerei bensì solo una indicazione ed un risparmio.
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Il
fatto è che questo aeroporto importa una cifra assai prossima
allo zero ai bergamaschi mentre è una macchina da soldi per la
proprietà e per le imprese che danno servizi in regime di monopolio.
Costa più il parcheggio del volo aereo: tanto per dirne una.
Anche perché queste strutture pubbliche e private in esclusiva reggono
fino a un certo punto, vengono bene ingrassate per essere vendute.
La lezione di Bagnoli o Taranto fino all'ultima di Genova non insegnano
nulla. Quante lodi di questi magnifici investimenti che creavano
ricchezza alle popolazioni de quo e poi adesso è tutto smantellato e
tutto sequestrato e nessuno vuole più?
L'idea di Gori è di una semplicità sconcertante (mal comune mezzo
gaudio….) e manifesta la forza di convinzione che hanno gli attori
dell'aeroporto nei confronti dei media e della politica (va bene: sono
culo e camicia…).
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Insieme
alla questione ambientale – che non fatta solo del rumore- c'è una
questione etica che attiene proprio ai singoli: io sono contento di
partire da Orio anche se scasso le orecchie e gaso i cittadini di
Azzano e ciao state bene. Che è una logica del tutto
contraria alla civile convivenza.
Anche stavolta come per altri problemi non basta una buona dose di
buonsenso ma occorre che la politica (la politica non l'ARPA) si assuma
la responsabilità di fare delle scelte: Orio non può crescere oltre i
20 milioni di passeggeri ogni anno e i movimenti debbono stare sulle
due direzioni. Bergamo e Orio al Serio non potranno permettersi fra 13
anni, nel 2030, un movimento di 100 mila voli all'anno e una mole di
viaggiatori incrementata di quasi il 50% rispetto a oggi, così come
prevede il piano di sviluppo aeroportuale.
Anche perché nessuno sa come sarà il mondo nel 2030.
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Intervista a Lando Hoffman.
Quando sceglie i mercati, Lando Hoffman ha ventisette anni e un
dottorato in Scienze matematiche. Corre il 2000. La moneta unica è una
realtà. La Germania è la locomotiva d'Europa, e i grandi cantieri
stanno ridelineando il volto di Berlino. Da quel momento, la carriera
di Herr Hoffman coincide con una fulminante ascesa ai vertici del
Gruppo S***.
Nato a Dresda, nella Repubblica democratica tedesca, quarantatré anni
fa, figlio di un “funzionario amministrativo” della SED, il partito
socialista al potere, si trasferisce all'Ovest subito dopo
l'unificazione. La DDR non tarda a sfumare in un ricordo lontano.
L'unico futuro possibile è l'Occidente. Hoffman si dedica agli studi di
statistica ed economia attuariale all'università di Colonia,
conseguendo una laurea a pieni voti con una tesi sul rendimento dei
fondi obbligazionari, prima di dedicarsi alla ricerca. Al volgere del
nuovo Millennio, la decisione che gli cambia la vita: l'abbandono degli
studi e il passaggio a uno dei più importanti colossi assicurativi
tedeschi.
Oggi, è considerato un'autorevole voce della comunità finanziaria,
capace di coniugare profondità d'analisi e conoscenza della street,
come in gergo vengono chiamate le reti degli scambi. Alle pareti del
suo ufficio nel centro di Amburgo, campeggiano due volti che
sintetizzano la personalità di quest'eccentrico gestore tedesco: il
ritratto del matematico Évariste Galois – teorico della risolubilità
algebrica delle equazioni e fervente repubblicano nella Francia del
primo Ottocento – accanto alla foto del borgomastro socialdemocratico
Willy Brandt. Come dire: passione intellettuale e simpatie
socialdemocratiche.
Herr Hoffman, la
divergenza tra il governo tedesco e i vertici della BCE sembra
trascendere la normale dialettica tra prospettive divergenti. Come
spiega un confronto così aspro?
La risposta è semplice: i tassi negativi aiutano i paesi debitori
danneggiando quelli creditori. A Berlino qualcuno ha deciso che così
non va bene. Questa, però, è solo una parte del problema. Parlerei di
punta dell'iceberg.
E allora cosa c'è in profondità?
Bisogna partire da lontano, dagli anni Novanta, da quando fondi
pensione e assicurazioni tedeschi sono diventati compratori di
strumenti obbligazionari con rendimenti elevati. Da allora fino al
2008, questi player di mercato hanno acquistato bond italiani,
spagnoli, greci, e anche CDO [strumenti obbligazionari la cui garanzia
sottostante è rappresentata da un debito, ndr]. In pratica, le pensioni
e i risparmi dei tedeschi erano in gran parte investiti in Paesi
problematici dell'area euro e in strumenti a leva. Un sistema circolare
all'apparenza perfetto: la macchina produttiva tedesca esportava le sue
eccedenze e poi reinvestiva i proventi nei debiti di quegli stessi
Paesi. Una sorta di vendor financing internazionale, come quando
un'azienda di elettrodomestici finanzia i compratori delle merci che
essa stessa produce.
Il migliore dei mondi possibili, quindi…
Diciamo che per noi operatori tedeschi era una condizione ideale.
Avevamo tassi alti su cui investire i risparmi generati dalle nostre
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eccedenze e una moneta più debole che garantiva la competitività. In un
equilibrio fittizio, i debiti pubblici su cui investivamo ci
consentivano di generare un extra-rendimento rispetto ai titoli di
Stato “domestici” così da garantire ottimi ritorni a pensioni, fondi e
assicurazioni in una cornice di cambi fissi, quindi con rischi
limitati. Questo meccanismo, però, è stato utilizzato all'eccesso e
alla fine si è inceppato.
E perché il problema è emerso in modo così violento alla fine degli anni Zero?
Perché il great crash dei subprime ha fatto crollare il castello. La
prima ondata è stata una crisi di mercato che ha coinvolto indici
azionari e titoli legati a crediti ipotecari, ma la seconda ha messo in
ginocchio gli Stati sovrani e i debiti pubblici. E allora molti gestori
tedeschi hanno reagito con liquidazioni massicce di titoli del Sud
Europa causando, in concorso con altri investitori globali, cambi di
regime e sovvertimenti politici.
Questa è una vecchia storia…
È vero, ma qui c'è la chiave per comprendere il presente, perché da una
crisi che potremmo definire “di rigetto” siamo passati a una crisi
prospettica. Di fatto, mettendo in sicurezza i debiti pubblici, il
Quantitative easing ha tolto ossigeno ai mercati e ha cancellato gli
approdi sicuri per gli investitori. Il mercato obbligazionario che
conoscevamo è scomparso. Gli attuali tassi negativi ribaltano la
relazione tra tempo e rendimento. Ora il gestore fa fatica a restituire
la stessa quantità di soldi agli investitori, mentre si rivoluziona il
concetto di welfare pubblico e di protezione privata. La crisi è
endogena a un sistema, ormai incapace di produrre quelle eccedenze di
rendimento vitali per tutto il mondo degli investimenti.
Eppure, c'è sempre il mercato azionario.
Che sta diventando troppo centrale, che si sta trasformando in un
centro di gravità permanente per tutta la finanza, e che però non è in
grado di assorbire la massa di risparmi in uscita dall'obbligazionario.
L'equilibrio dei mercati finanziari era sostanzialmente garantito da
una specie di equivalenza tra i risparmi generati dall'aumento delle
masse monetarie e gli strumenti del debito. Adesso gli strumenti del
debito sono assorbiti dalle banche centrali e quelli che rimangono sul
mercato hanno rendimenti spesso negativi.
E a questo punto quali prospettive si aprono per voi gestori?
Se i risparmi si muovono in massa sull'azionario, finiscono per
aumentarne a dismisura la volatilità. In questo senso, il 2016 è un
anno esemplare, quasi paradigmatico. Tra gennaio e febbraio gli indici
azionari globali hanno registrato un meno venti per cento, ma adesso
siamo praticamente tornati in pari. La volatilità è destinata ad
aumentare ancora in modo esponenziale: forse prenderà la forma di forti
fiammate “rialziste”, e molti gestori – in certe fasi – potrebbero
sentirsi costretti a comprare facendo entrare i mercati in
quell'esuberanza irrazionale che comunemente chiamiamo “bolla”.
Sarebbe un già visto: boom and bust ci sono sempre stati sui mercati.
Non lo metto in dubbio, ma temo che, se il 2008 è stato solo
l'antipasto, la “portata principale” potrebbe avere effetti
devastanti.
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E allora cosa c’è profondità?
Bisogna partire da lontano, dagli anni Novanta, da quando fondi
pensione e assicurazioni tedeschi sono diventati compratori di
strumenti obbligazionari con rendimenti elevati. Da allora fino al
2008, questi player di mercato hanno acquistato bond italiani,
spagnoli, greci, e anche CDO [strumenti obbligazionari la cui garanzia
sottostante è rappresentata da un debito, ndr]. In pratica, le pensioni
e i risparmi dei tedeschi erano in gran parte investiti in Paesi
problematici dell'area euro e in strumenti a leva. Un sistema circolare
all'apparenza perfetto: la macchina produttiva tedesca esportava le sue
eccedenze e poi reinvestiva i proventi nei debiti di quegli stessi
Paesi. Una sorta di vendor financing internazionale, come quando
un'azienda di elettrodomestici finanzia i compratori delle merci che
essa stessa produce.
Il migliore dei mondi possibili, quindi…
Diciamo che per noi operatori tedeschi era una condizione ideale.
Avevamo tassi alti su cui investire i risparmi generati dalle nostre
eccedenze e una moneta più debole che garantiva la competitività. In un
equilibrio fittizio, i debiti pubblici su cui investivamo ci
consentivano di generare un extra-rendimento rispetto ai titoli di
Stato “domestici” così da garantire ottimi ritorni a pensioni, fondi e
assicurazioni in una cornice di cambi fissi, quindi con rischi
limitati. Questo meccanismo, però, è stato utilizzato all'eccesso e
alla fine si è inceppato.
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Comunque non voglio passare per un veggente, siamo
sempre nel campo delle possibilità. L'unico dato certo, per ora, sono i
tassi negativi. E questo per noi è un problema.
Torniamo alla politica: secondo lei, come si risolverà lo scontro tra il governo tedesco e l'Eurotower?
Semplicemente non si risolverà. Sarà un conflitto permanente. Come
l'Italia è sola davanti alla questione del suo debito pubblico, come
Francia e Belgio affrontano da sole il terrorismo, e come Roma e Atene
sono sole innanzi ai transiti migranti che mettono in discussione le
fondamenta stesse dell'Unione, così la Germania resterà sola a
misurarsi con i tassi negativi e la deflazione. È un contrappasso
inevitabile, è l'altra faccia della medaglia neo-mercantilista. Su
questo punto non ci sarà dialogo. I vertici della BCE sono stati
chiarissimi: separazione totale della Banca centrale dalla politica.
Questo è il modello monetarista tedesco. L'obiettivo di Francoforte è
la lotta alla deflazione in tutta l'area dell'unione monetaria. Non è
una funzione politica.
Eppure, da più parti si
tende ad attribuire all'Eurotower un ruolo di supplenza politica,
attribuendole una visione europeista di lungo termine.
Quel ruolo viene conferito di riflesso. Il soggetto che stabilizza la
moneta assume inevitabilmente una funzione politica. Non è colpa di
Francoforte se i capitali tedeschi in eccesso non solo non producono
rendimenti nel tempo, ma addirittura vengono erosi dai tassi negativi.
Il problema è all'origine. Lo diceva Keynes un secolo fa. Una nazione
non può avere una bilancia commerciale in avanzo per un periodo
prolungato rispetto ai Paesi con cui condivide la moneta. E del resto,
se la BCE non avesse stabilizzato l'euro, adesso l'Unione continentale
sarebbe solo un ricordo.
Quindi voi gestori di fondi pensione e riserve assicurative siete rassegnati a un mondo di tassi col segno meno?
Siamo davanti a un indubbio cambio di registro, un vero e proprio
mutamento di fase o paradigm shift. Adesso non esiste più un free lunch
e bisogna preparare la gente a un'erosione dei risparmi o, all'inverso,
all'assunzione consapevole di un rischio maggiore. Stagnazione e
deflazione ci accompagneranno per un lungo periodo. E allora bisogna
adeguare le aspettative.
Ma le previsioni non sembrano rosee neanche per il resto del continente?
È vero, sembrano addirittura peggiori. Ma attenzione: il Sud Europa
potrebbe sperimentare grandi ristrutturazioni, per esempio del sistema
bancario, e dalle ristrutturazioni emergono sempre buone opportunità.
La sfida consisterà nell'estendere queste opportunità a tutti, per non
lasciarle soltanto al bacino di estrazione dei fondi speculativi. Come
ho letto da qualche parte, la scelta sarà tra la morale e la moneta.
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http://www.idiavoli.net/2016/04/27/morale-e-moneta-la-guerra-di-berlino/
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