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Abbiamo perso, ma abbiamo perso bene. Noi per principio ci schieriamo sempre a favore delle periferie versus Roma anche se vorremmo vedere abolite le Regioni. Nonostante Renzi, nonno Napo Bersani Letta. Alla faccia di Brunetta Salvini e gli orfani Pentastellati volessero cacciare il Renzi da Palazzo. 11 milioni di elettori come quelli che hanno espresso la preferenza per il Pd alle scorse Europee hanno chiesto la chiusura. Il governo dovrà tenere conto che milioni di italiani hanno un’idea delle politiche energetiche diverse. Perché se l’economia mondiale ormai viaggia verso «un altro modello di sviluppo» fatta di stagnazione permanente è del tutto certo che «anche» l’attuale modello di politica energetica va rivista nei grandi numeri come nei dettagli.
L'aspetto più interessante é che l'85% di chi ha detto SI va cercato "anche" dentro le opposizioni e noi siamo convinti che di questi elettori di CDX e Lega e Sinistra che volevano far le scarpe al fiorentino, in realtà siano BEN convinti delle ragioni del referendum piuttosto che delle balle dei loro dirigenti. Come siamo convinti che la gran parte di loro sia assolutamente convinta che le piattaforme debbano essere smantellate a fine carriera.
Nonostante le gazzette predichino la magnificenza culinaria delle cozze che crescono sulle strutture a mare. Perchè il problema é che 3/4 delle piatta forme (quelle che non estraggono più) vengo no tenute in piedi per non affrontare le spese e i rischi di smantella mento. Detto questo in Italia  non si vuole affrontare la questione di un Piano Energetico Nazionale, dove l'ener gia non sia solo un  mezzo per raccogliere brevi-manu i soldi per tirare a campare, ma per regioni come quelle padane,un'occa sione per sopravvivere nelle stagioni peggiori.





Ernesto Galli della Loggia,

Corriere della Sera, 20 aprile 2016
(...)Che tipo di progresso rappresentano le trivellazioni e le pale eoliche? Certo, avere energia a costi contenuti conviene al Paese nel suo insieme, al suo progresso. Ma ciò ha un prezzo, naturalmente: e qui comincia il problema. Dal momento che questo prezzo, lungi dal pagarlo l'intero Paese, è chiamato a pagarlo, poi, solo una sua parte, il Mezzogiorno.
Lasciamo da parte infatti i pozzi petroliferi e le trivellazioni del gas, ma perché non ci sono pale eoliche, tanto per dire, sui Colli Euganei, nelle Langhe o sulle cime dell'Appenino ligure- piemontese, o si contano letteralmente sulle dita di una sola mano? Perché in stragrande maggioranza esse si trovano solo nelle regioni a sud di Roma? La risposta è che, come ormai testimoniano un buon numero di inchieste della magistratura, l'attività di lobbying , chiamiamola benevolmente così, delle società elettriche risulta più «convincente» — chissà perché — presso gli amministratori delle regioni del Mezzogiorno che del Centro-Nord. E proprio per questo gli enti locali sono in genere nel Sud più disponibili a concedere le relative licenze. Cioè a pagare il prezzo di cui sopra. Perché che si tratti di un prezzo mi sembra ovvio: pale eoliche, trivelle e pozzi di petrolio non favoriscono certo la balneazione o il trekking e deturpano inevitabilmente il paesaggio — basta vedere come sono ridotti luoghi un tempo amenissimi in specie della Puglia e dell'Abruzzo. Il Mezzogiorno dunque paga un prezzo, il prezzo. Ma con quale beneficio per le sue future possibilità di sviluppo? (...)











Una Rai più snella, che avrà meno canali (ce ne sarà uno solo di sport) e meno edizioni dei telegiornali. Una Rai che diventerà una media company, trasmetterà su una molteplicità di piattaforme raccogliendosi intorno a due app fondamentali. Le due applicazioni pilota porteranno una ai programmi ed una seconda alle notizie. Ecco come l'ad Campo Dall'Orto descrive la nuova televisione di Stato nel Piano Industriale che presenterà domani al Consiglio di amministrazione. Il suo Piano ambizioso è ambizioso, ma deve fare i conti con uno "sbilancio" nei conti del 2015 che si stima nell'ordine dei 30 milioni.

Le edizioni di Tg1, Tg2 e Tg3 saranno sforbiciate. Le attuali 27 (di cui 15 principali e 12 più brevi) rappresentano un record europeo e sono troppe. Circa il 70 per cento delle ore di programmazione sono coperte da almeno un notiziario o da una rubrica d'informazione. La misura del taglio sarà decisa - tempo due mesi - dal direttore editoriale Carlo Verdelli che punterà a valorizzare il ruolo di RaiNews 24. La riduzione delle edizioni non comporterà, in ogni caso, licenziamenti o prepensionamenti tra i giornalisti che sono 1618 (bilancio 2014). Il Piano industriale ipotizza, semmai, un uso diverso dei cronisti che non dovranno più fare tutti le stesse cose. In generale la tv di Stato ha troppi pochi dipendenti sotto i 30 anni ed anche tra i 30 e i 40. Ma un'operazione di svecchiamento si è già, poco alla volta, realizzata. Gli over 60 sono una minoranza e, in ogni caso, resteranno in casa perché non ci sono i soldi per piani di esodo incentivato.

La Rai - che vuole ridimensionare il genere poliziesco - mette nel mirino anche l'infotainment. Sono quei programmi o quelle rubriche che miscelano l'informazione e l'intrattenimento ("Domenica In" è l'esempio più classico). Da settembre vedremo molto meno questi prodotti ibridi, che non piacciono per niente all'amministratore delegato Campo Dall'Orto.

Viale Mazzini ridurrà il numero dei canali, che sono oggi 17. Dopo le Olimpiadi brasiliane, RaiSport avrà una sola rete (invece di 2). Anche Rai Scuola può essere sacrificata, se gli accordi con il ministero dell'Istruzione lo permetteranno. Rai Scuola, attenzione, non verrebbe oscurata o cancellata, ma trasferita dal digitale terrestre ad Internet.

Internet non è la Serie B, anzi. La tv di Stato ci punta molto e avrà una sua piattaforma a partire da settembre (sul modello Netflix, ma per il momento gratuita). L'accesso sarà garantito da due applicazioni pilota, una per i programmi ed una per le news. La registrazione sarà obbligatoria. In questo modo la Rai vuole ricavare il profilo dei suoi clienti, vecchi e nuovi.

Settembre è un mese chiave perché arriveranno nuove scenografie per i vecchi programmi e soprattutto nuove trasmissioni. Alcune parole chiave per identificare la missione delle reti. RaiUno: familiare, universale, in sintonia con il Paese, votata all'impegno civile, con grandi eventi e i talenti migliori. RaiDue: affidabile ma sorpendente, eclettica ma anti-conformista, sperimentale ed esploratrice, con un'informazione agile ed efficace. RaiTre: linguaggi innovativi, immagini d'autore. Rai Quattro: sfrontata, divertente, giovane, fantasy.

Si punta all'alta definizione di nuova generazione, che sarà realizzata in 4 anni e mezzo, entro il 2020. Sette partite degli Europei di calcio saranno già irradiate comunque in ultra HD (grazie all'accordo con Eutelsat), mentre un canale sperimentale sarà varato nel 2017. Entro questo Natale, i cameramen troveranno sotto l'albero telecamere tutte in alta definizione.

Il Piano industriale punta a valorizzare due centri di produzione, Napoli e Torino. Torino - che dispone di 8 studi tra i 200 e i mille metri quadri ed impiega circa 400 persone - si specializzerà nei programmi per bambini e nei cartoni animati. Sia Napoli e sia Torino dovranno insistere nelle lunga serialità (fiction e format con tante puntate) che costa meno e può essere esportata all'estero.

Oggi la Rai finanzia 58 film, ne distribuisce 22 e ne acquista altri 10, ogni anno. La nuova strategia per il cinema sarà legata alla legge in discussione alle Camere e dovrà tenere conto di un nuovo temibile concorrente (Sky Cinema) che è sceso in campo firmando accordi con importanti produttori.

Ovviamente ogni riforma ha bisogno di benzina per viaggiare. Il bilancio del 2015 sarà gravato - si prevede - da un rosso di 30 milioni (effetto anche dell'acquisto dei diritti di trasmissione degli Europei di calcio). Una boccata d'ossigeno arriverà, però, dagli entroiti del nuovo Canone nella bolletta elettrica. Oggi pagano il canone solo 15,5 milioni di famiglie (a fronte di una platea generale di 23 milioni). Ma i soldi recuperati dall'evasione andranno in parte, nell'ordine dei 150 milioni, alle casse dello Stato. E in ogni caso l'ad Campo Dall'Orto chiarisce che serviranno dei tagli, dei risparmi e delle efficienze.
(fonte:ANSA)



Otto ore di discussione e da questo già si capisce che giornata campale è stata ieri quella del consiglio di amministrazione di viale Mazzini. Chiamato ad approvare il piano industriale presentato dall'ad Antonio Campo Dall'Orto e fin qui tutto bene, unanimità raggiunta («troppo generico», borbotta qualche consigliere). Nomina doc: Raffaele Agrusti, già capo delle finanze, diventa pure presidente di Raiway.
La discussione invece si è infiammata (si sentiva gridare dal corridoio) sulla proposta del direttore editoriale dell'informazione, Carlo Verdelli, di creare una task force che lo aiuti a coordinare tg, talk show, infotainement e tutto quanto sia giornalismo in Rai. Come vice-supervisori ha scelto Francesco Merlo, 65 anni, editorialista di Repubblica ed ex inviato del Corriere e Pino Corrias, 60, scrittore e dirigente di Rai Fiction. Diego Antonelli, 45 anni, ora all' Ansa , si occuperà dell'area digital. In più c'è una mini-redazione di quattro giornaliste, scelte attraverso il job posting interno: Valentina Dello Russo (Tgr Basilicata), Cristina Bolzani (Rainews), Frediana Biasutti (Tg2) e Paola D'Angelo (Esteri Tg2).
Da un pezzo i consiglieri si sentono emarginati, sopportati. Ieri, di fronte al pacchetto di nomine «chiavi in mano» di Verdelli, Franco Siddi, area Pd, se n'è andato sbattendo la porta. Poi è tornato, per ribadire la sua contrarietà: «Sono candidature di valore, ma la scelta andava meditata e condivisa, qui non c'è riguardo». E un'obiezione sostanziale: «Merlo è un pensionato e non può essere assunto da un'azienda pubblica». Contrario anche Arturo Diaconale, centrodestra: «Professionalità indiscutibile, però Merlo è un nome troppo schierato». Nemmeno l'onorevole dem Michele Anzaldi della Vigilanza è entusiasta: «Siamo amici, ma proprio ieri Merlo ha scritto un pezzo contro mezzo Pd». E prevede instabilità aziendale: «Sono vertici deboli, in Rai ti tritano per molto meno». No del sindacato Usigrai: «Infornata di esterni, un insulto».
Intanto pare che per Lilli Gruber si avvicini il ritorno. Una prima serata su Raiuno, dopo il tiggì, allo stesso orario di Otto e mezzo , ora su La7. Mentre Bianca Berlin guer, che lascerà, non proprio di sua sponte , la direzione del Tg3, vorrebbe tenersi la fascia notturna. A Raitre balla ancora la condu zione di Ballarò, confer matissimi Fazio e Sciarelli, idem Gabanelli e Annunziata, già blinda te per la prossima stagione.
Rivoluzione per Rai news 24 che avrà un palinsesto e diventa una vera rete. Antonio Di Bella (ieri ha fatto anticamera per 4 ore, causa riunione fiume) condurrà un programma tutto suo: Telegram , 10 minuti di racconto della giornata, alle 19.30.
Giovanna Cavalli
Il Corriere della Sera






Giannini, Merlo, Verdello, Romagnoli, Marzano, Fubini e certamente avrò dimenticato qualcuno in quella che è una vera e propria fuga da Largo Fochetti, sede romana del quotidiano LaRepubblica.
Qualche domanda io me la farei. Poi non so, ecco se sia tutto normale.
Perché tutto questo succede a cavallo della improvvisa dipartita del direttore Ezio Mauro, dell'arrivo del nuovo direttore Calabresi da La Stampa.
Ieri il Gruppo editoriale l'Espresso, che pubblica il giornale, e la Itedi, editrice de La Stampa e de Il Secolo XIX, hanno unito le loro forze in un accordo che porterà il nuovo aggregato a controllare il 20% circa del mercato italiano della carta stampata, con una posizione di leadership sul mercato digitale.
L'operazione prevede che sia il gruppo L'Espresso a incorporare Itedi in una fusione che, secondo i dati di bilancio del 2015, porta il nuovo aggregato a registrare un fatturato di 750 milioni di euro con la più alta redditività del settore, senza alcun debito. L'unione tra i quotidiani e i periodici dei due gruppi già oggi può contare nel suo insieme su circa 5,8 milioni di lettori e oltre 2,5 milioni di utenti unici giornalieri sui loro siti d'informazione. Con le testate che manterranno piena indipendenza editoriale e Monica Mondardini, attuale ad di Cir e Gruppo Espresso, alla guida operativa della nuova società. Sempre di poche ore or sono anche la notizia che la Mondardini andrà (anche) agli Aeroporti di Roma.

La fusione tra i due gruppi GeE-Itedi avverrà sulla base di concambi che dovranno essere approvati dalle rispettive assemblee, ma in base ai range già stabiliti nell'accordo appena annunciato Cir, holding industriale della famiglia De Benedetti che oggi controlla il Gruppo Espresso, avrà una quota superiore al 40% del nuovo gruppo. Mentre Fca (FiatChryslerAutomobiles), che oggi ha in portafoglio il 77% di Itedi, deterrà il 16% circa dell'aggregato con la famiglia Perrone che continuerà a essere azionista di minoranza con una quota pari al 5%.
Il gruppo Exor-Fca esce da Rcs Mediagroup dopo quarant'anni di presenza stabile tra le fila dei soci. Lo storico passaggio è la prima, immediata, conseguenza della nascita del nuovo gruppo editoriale frutto dell'integrazione tra Itedi e il gruppo L'Espresso (che controllano rispettivamente Repubblica e La Stampa-Il Secolo XIX), operazione che porta con sé anche il riassetto degli equilibri proprietari nel suo più diretto concorrente, la società che edita il Corriere della Sera. Come comunicato ieri nell'ambito dell'annuncio dell'asse editoriale tra la famiglia Agnelli e la famiglia De Benedetti, Fca distribuirà ai propri soci l'intera partecipazione detenuta in Rcs Mediagroup (16,7%).

I lettori di LaRepubblica  da un lato possono dirsi contenti di avere contribuito con la loro fedeltà nell'acquisto e nella lettura dl quotidiano al suo successo ed alla creazione sia di un polo editoriale  leader nella carta stampata e nel digitale, come della creazione di una classe di giornalisti generalmente al di sopra delle media della concorrenza che oggi  sono chiamati  ad incarichi importanti nella PRIMA industria culturale e dell'informazione italiana: la RAI.
La soddisfazione non viene però temperata dalla perdita di autorevoli firme ed “uomini” che non solo hanno contribuito di per se ma che hanno anche contribuito a costruire una redazione fatta da intellettuali esterni al giornale di grande valore  nella cultura e nella politica nazionale e oltre.

Il pericolo paventato non è solo quello del sentirsi orfani ma soprattutto, con la fusione col gruppo Itedi, di perdere una originalità che è poi il valore aggiunto per cui si legge Repubblica piuttosto che Corsera.
Adesso poi c'è da vedere come si concretizza la proposta di Cairo-La7 di acquistare il Corrierone assieme a tutto il bailamme tra Mediaset, Telecom, Vivendi, Sky, Enel, la fibra ottica ecc. ecc.

Tenendo conto che il prossimo decennio - ventennio sarà di pura sopravvivenza economica del paese e dell'Europa in generale con una crescita economica modestissima dappertutto tutto il settore della produzione informazione e cultura e della loro trasmissione risulta sovradimensionato soprattutto come numero di operatori e quindi ancora in fase di forte ristrutturazione.
Pensiamo vada nella direzione della creazione di forti gruppi in grado di produrre  informazione, cultura, intrattenimento (RAI, Mediaset, SKY, Vivendi, Catteleya, Universal…) e di pochi gruppi (Telecom, Enel, Eutelsat,…) che vendono il servizio di trasmissione degli stessi.
La miriade di operatori (doppino, wifi, satellite, fibra) deve riaccorparsi in gruppi più forti così come l'offerta informativa  intrattenimento film e cultura vanno verso un incremento di operatori specializzati che vendendo il loro prodotto, possono, noleggiando il servizio di trasmissione, porsi-proporsi sul mercato.
Insomma dopo il far west dei primi anni, viene il momento della specializzazione per ciascuno nel proprio settore.
E la RAI con tutti questi ingressi di “repubbliconi”?
E' stato un errore. La RAI doveva pescare parecchi dirigenti e giornalisti in ambito europeo e mondiale un po' di gente in grado di farla diventare davvero la bandiera dell'Italia nel mondo.





























Ho parecchi dubbi che l'ambizioso “migration compact” di Renzi dia qualche risultato al problema. Sono idee che abbiamo letto molti anni or sono predicate quando l'Europa aveva o sentiva ancora qualche colpa verso l'imperialismo che aveva praticato nei confronti del Terzo Mondo dove aveva incarcerato e scannato e fucilato qualche milione di cristiani. Intesi sia come battezzati che come uomini venuti al mondo.
Basta vedere cosa succede in Libia o in Egitto o in Arabia Saudita in queste ultime settimane  dove c'è un via-vai di capi di stato e governo per combinare affari di ogni genere che hanno sempre come base lo scambio energia versus armamenti. Poi sono accompagnati anche da altri affari sia per interessi di stabilità interni di quei  despoti nei rispettivi paesi sia perché pure le nazioni europee hanno un disperato bisogno di fare (magri) affari con quei paesi: dalla sistemazione della diga di Mosul ad una metropolitana in Egitto o Arabia.
Affari magri perché col petrolio (e il gas) a 30 dollari/barile, bisogna raschiare il fondo dei giacimenti per mantenere quei paesi, soprattutto quei criminali despota che li governano e li rapinano.
Per andare a regime il piano di Renzi ha bisogno di fatti eclatanti ma in due tempi differenti. Prima di tutto c'è da finanziare in qualche modo (senza che la spesa diventi debito dello stato) il costo dell'accoglienza dei migranti nelle nostre terre. Poi gli effetti degli investimenti finanziati coi bond europei nei paesi di origine dei migranti hanno lunghissimi tempi di attuazione – dieci, quindici anni almeno…- e non è detto che riescano visto che quei paesi sono devastati da numerose bande che hanno come scopo principale sopravvivere il più a lungo possibile per saccheggiare le risorse di casa propria e nasconderle altrove.
Non crediamo alla favola dei capi ISIS che non si stiano infagottando di pacchi di   risorse sottratte sia ai paesi occupati che ai residenti.

E non lo crediamo nemmeno per il ras Alsisi o quelli dell'Arabia Saudita o del centro Africa.
Va detto che l'idea tedesca di utilizzare il calo del prezzo dei carburanti (per il basso prezzo del petrolio) per trovare risorse da destinare alle spese immediate dei migranti ha una  sensatezza squisitamente  TeTesca del ministro tedesco delle Finanze Schaeuble non fosse che semmai il prezzo dei carburanti dovrebbe ridursi di almeno mezzo euro pro litro dappertutto.

Il nodo resta alla fine il solito: lo scambio armi-energia (tra paesi ricchi e paesi poveri) e la copertura che l'Europa da ai vari delinquenti perché gli affari con loro reggono buona parte della nostra fragile economia.
Sarebbe il caso piuttosto di sfruttare gli attuali bassi prezzi del petrolio (e del gas) perché attraverso una forte solidarietà tra i paesi dell'Ue si attuasse un politica di alleggerimento dei nostri rapporti coi paesi produttori, stavolta si in cambio –esplicito- di una maggiore democrazia ordine e benessere di quelle genti.
Ascoltare Alsisi che dichiara che il delitto Regeni  non può essere letto come un evento in un paese europeo perché l'Egitto sarebbe al centro di una aggressione internazionale, vuol dire non solo ascoltare una confessione di colpa indiretta, ma prendere atto che con quei paesi si deve “trattare” in maniera differente dal passato.

Il fatto è che il rinvenimento di  Zohr 1X dove ci sarebbe un potenziale di risorse fino a 850 miliardi di metri cubi di gas in posto (5,5 miliardi di barili di olio equivalente) assieme alla presenza italiana in Libia ci fa il principale attore energetico del Mediterraneo e i nostri “amici” franco-inglesi che già ci hanno abbattuto un aereo sul Tirreno, sono sicuramente assai felici dell'evento.
Oltre al fatto che sicuramente Alsisi non è uno stinco di santo ma anche noi italiani



siamo messi meglio: intanto che facciamo i peli del culo agli egiziani per il caso Regeni noi qui assolviamo a rotta de collo i vari assassini di Uva, Giuliani, Cucchi, Aldrovandi, Pinelli, loro resteranno per sempre morti di niente. Dove sta la coerenza nel cercare giustizia per chi viene ucciso fuori e negarla a chi viene ammazzato in casa?  Il nostro apparato governativo e militare è più legittimato? Se ammazziamo noi vale zero? 

Conclusione del sermone. Che i 500 milioni di europei non siano in gradi di accogliere i pochi milioni di immigrati del MO e CentroAfrica ci sputtana a livello planetario. Che 500 milioni di europei non sappiano modificare la propria scaletta energetica per ridurre al minimo lo sfruttamento delle risorse fossili provenienti dal MO e CA in una llllllunga stagione di crisi economica non mi fa ben sperare.
Sulle migrazioni l'Ue ragione col metro degli affari (che non è gradevole scrive nero su bianco).






























L'idea di spedire a 7 milioni di italiani una busta arancione con la simula zione della pensione è una di quelle  degne di passare alla storia per la sua idiozia. A riceverle, nel corso del 2016, saranno i lavoratori privati, che potranno visionare da subito il loro estratto conto contributivo e una simu lazione di base della loro pensione futura. Il progetto punta ad esten dere in futuro l'invio della busta arancione anche a circa 1,5 milioni di dipendenti pubblici, che riceveranno le informa zioni sulla propria pensione insieme al cedolino dello stipendio.
Basta dare un'occhiata ai social per capire che questa previsione dell'Inps secondo cui i trentenni di oggi andranno in pensione a settantacinque anni, sempre che abbiano avuto la fortuna di trovare un lavoro, ha gettato nel panico una intera gene razione. Ed è un problema che deve preoccupare il presidente del consiglio. Non solo perché l'irri tazione di una intera generazione, già alle prese con il precariato, potrebbe crescere a livelli preoc cupanti.
Al di là dei calcoli che sono contenuti nel buste aran cioni e che, come precisato da più parti, sono meno che poco attendibili in quanto basati su ipotesi di crescita stabile del Pil e di continuità della carriera lavorativa, quello che lascia attoniti sono lo stupore a l'allarme che essi generano quando ipotizzano pensioni più basse ed età del ritiro più elevate che nel passato. Ciò era implicito non solo nell'ultima riforma Fornero, ma già nella riforma Dini del 1994 che dichiarò la morte del sistema retributivo e il passaggio progressivo a un contributivo puro.
Tutte le riforme fatte da allora fino all'ultima del 2011 hanno avuto lo scopo ben dichiarato di ridurre il cosiddetto “tasso di sostituzione” che indica la percentuale del reddito derivante dalla pensione rispetto al reddito che si aveva immediatamente prima e i calcoli delle buste arancioni non fanno altro che prendere atto del fatto che con il passaggio dal sistema retributivo a quello contributivo tale fattore scende.




Scende regressivamente, cioè la riduzione è più alta per i redditi bassi e diminuisce progressivamente con il salire dei redditi fino a invertirsi di segno per i redditi alti che, dal contributivo puro saranno beneficiati rispetto a quanto avevano con il sistema retributivo.
Questo effetto è dovuto alla regressività del vecchio sistema retribu tivo che riduceva i coefficienti di calcolo della pensione per ogni anno di anzianità in funzione dell'aumentare del reddito.
In parole povere – ma ciò era arcinoto a tutti – il sistema retributivo aveva in sé una componente assistenziale che era molto alta per i redditi bassi e medi e diminuiva con il reddito fino a generare, per i redditi alti, una pensione inferiore a quanto avrebbe dovuto erogare un sistema comple tamente previdenziale.
Le varie riforme, implici tamente, hanno voluto tagliare queste forme di assistenza che erano di venute economicamente insostenibili per la massa degli assegni coinvolti e che erano anche im motivate dal punto di vista assistenziale quando a beneficiarne erano (anche) evasori contributivi.
Con poche e basiche no zioni di calcolo attuariale e disponendo dei contributi che ciascuno versava anno per anno, sarebbe stato possibile a chiunque conclu dere rapidamente che le uniche due alternative possibili sarebbero state una pensione molto più bassa che con il sistema passato oppure la conti nuazione dell'attività lavorativa fino a età molto avanzata.
Tutto ciò non si scopre oggi con le buste arancioni e, casomai, piuttosto che stu pirsi occorre capire come ciò si collochi nel duplice scenario previdenza /assistenza e quali eventu ali rimedi siano possibili.
Dal punto di vista squisitamente previden ziale il nuovo sistema non fa una piega: tanto puoi versare (o, per gli evasori contributivi: decidi di versare), tanto avrai di pensione;

tanto più a lungo decidi (o: puoi) lavorare, tanto più alta sarà la tua pensione.

Spedire una pseudo -notizia del genere ad una massa abituata a fare sempre la vittima quand' anche si martella da sola le dita vuol dire creare e crearsi solo inutile caos.
Il cantiere delle pensioni è sempre aperto. Il primo cretino del Parlamento che passa si sente in diritto di  trattare l'argomento che però riguarda sempre “gli altri”. Perché quando hai fatto una legislatura ti sei guadagnato una sostan ziosa integrazione della pensione e se ne fai due, stai sereno per il resto della vita.
Non così per chi non è del Palazzo.
Gli Italiani non hanno bisogno di sapere a 50 anni le proprie prospettive pensionistiche perché –anche con la migliore buona volontà- non potrebbero rimediare una vita in cui hanno pagato e gli hanno versato pochi contributi.
Perché a mio avviso, per quanto fantasioso e difficile ciò possa sembrare, l'unica via possibile per disporre domani di una “buona” pensione è quella di un incremento significativo (non frazioni decimali, ma punti interi e copiosi) e stabile del Pil che allarghi la base contributiva e consenta di mantenere un gettito fiscale adeguato mentre si riducono le aliquote ai redditi più bassi. Ciò imporrebbe un radicale cambiamento di attitudini, equilibri tra i poteri, visioni e regole, che non si vede all'orizzonte.
Un altro aspetto che mi colpisce della discussione di questi giorni nel combinato “busta arancio ne e previsioni” per molti di andare in pensione alla bella età di 75 anni è che nessuno si pone mai una domanda: per esempio la ricchezza mobiliare (conti correnti, azioni, titoli di Stato, polizze, fondi comuni) delle famiglie italiane è salita a 3.858 miliardi a fine 2014, cre scendo di 400 miliardi dal 2011. E di certo il record è destinato a incrementarsi. La cifra imponente quella del debito pubblico –sono verso i 2300 all'attualità-

che è però solo la metà dell'intera ricchezza finan ziaria posseduta dagli italiani. Alla fine di marzo 2014 , ciascun italiano dete neva in media poco più di 65mila euro di attività finanziarie. I francesi e i tedeschi si fermavano ad una dispo nibilità media pro-capite pari a circa 63mila euro, gli spagnoli si dovevano accontentare di 40mila euro. Ma le medie sono ingannevoli, sono co me i polli di Trilussa. In Italia il 10% più ricco della popolazione detiene il 50% della ricchezza comples siva. Di quei quasi 4.000 miliardi di patrimonio sui conti correnti, nei fondi comuni, nelle polizze, impiegati in Borsa e in Btp ben 2.000 miliardi sono appannaggio di 2 milioni di famiglie italiane sui 20 milioni di nuclei familiari. Ricchezza tanta ma ineguale, quindi. Sta di fatto che capitale investito in titoli e contanti per oltre due volte il Pil e per il doppio del debito pubblico italiano dice che ci sono davvero due Italie. Quella che lotta ogni anno con Bruxelles per far quadrare i conti pubblici a livello europeo e quella che ha passato indenne la crisi.  E tutto questo mentre altre informazioni ci dicono un evasione fiscale e contri butiva che s'aggira ogni anno sui  90-100 miliardi e riguarda essenzialmente l'IVA, seguita dall'IRAP e dall'IRPEF.
Chiaro quindi che in questo quadro, fatto di poche e sicure pennellate,  conti nuare a discutere dell'am montare e di previsioni in ordine alle pensioni è un “parlare d'altro” che mira a mettere nel sacco soltanto i piccoli e i poveri.
Col sovrannumero che molti di loro votano proprio per le formazioni politiche che difendono evasori e quelli che vogliono scipparci pure le poche marchette versate. Dall'italiano medio non si sradica mai l'idea che fare il furbo è un diritto.



















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Dal 3 al 15 marzo si sono tenute, in una Pechino coperta da una coltre di polvere plumbea, le two Sessions, (liǎnghuì 两会), le sessioni plenarie del Parlamento e della Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese. Questo importante appuntamento rappresenta il volano che dovrà, stimolando la forza motrice e rilasciando energia (pulita!), assicurare la tenuta della potente macchina cinese, per compensarne le oscillazioni, rendere uniforme lo sviluppo e realizzare obiettivi sempre più ambiziosi, riflessi più che mai nella geopolitica di tutti i continenti.


Elisabetta Esposito Martino
Sono nata nello scorso secolo, anzi millennio, nel 1961. Mi sono laureata in Scienze Politiche, Indirizzo Internazionale, presso La Sapienza con una tesi sul consolidamento della Repubblica Popolare cinese (1949 – 1957); ho conseguito il  Diploma in Lingua e Cultura Cinese presso l’Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente di Roma ed il Perfezionamento in Lingua Cinese presso l’ISMEO. Sono stata delegata italiana per l’International Youth culture and study tour presso la Tamkang University Taipei, e poi docente di discipline giuridiche ed economiche. Ho lavorato come consulente sinologa e svolto attività di ricerca. Ora lavoro in un ente di ricerca e continuo la mia formazione (MIP Business School del Politecnico di Milano e dalla SDA Bocconi School of Management, Griffith College di  Dublino e Francis King School of English di Londra). Ho pubblicato sull’”Osservatorio Costituzionale”, dell’associazione italiana dei costituzionalisti  (AIC) , su “Affari Internazionali” e su “Mondo Cinese”.
Dopo aver sfaccendato tra pappe e pannolini per quattro figli, da quando sono cresciuti ho ripreso alla grande la mia antica passione per la Cina, la geopolitica  e le istituzioni politiche e costituzionali. Suono la chitarra, preparo aromatici tè ma non mi sveglio senza… il caffè!





STRUTTURE PIRAMIDALI –
L'apertura dei lavori del Comitato Nazionale della Conferenza Consultiva Politica del Popolo Cinese ha preceduto di un paio di giorni, come da prassi, l'avvio della quarta sessione plenaria della XXII Assemblea  Nazionale del Popolo, vertice di una piramide di assemblee popolari articolate in più livelli, che ha deliberato i target del XIII Piano quinquennale per il 2016-2020, già discussi in seno al CC del PCC. Il Comitato Nazionale della Conferenza ha formulato molteplici proposte, sostanzialmente recepite dal Parlamento, in interazione dialettica con l'organo consultivo che, dal 1945 al 1949, svolse funzioni legislative e che, da allora, riunisce le diverse formazioni politiche della Repubblica Popolare, che non è mai stata formalmente a partito unico, ma lo è sostanzialmente per il ruolo di direzione che il PCC svolge. Si è confermata anche quest'anno l'estrema importanza, nella vita politica e sociale dello stato, delle Liǎnghuì per una costruzione socialista moderna, la tutela dell'unione e dell'unità dello Stato, come recita il preambolo della Costituzione cinese vigente e come i vertici governativi non cessano di ricordare.

QUESTIONI CHIAVE –
Le questioni sul tappeto hanno toccato i gangli vitali dell'apparato sociale, economico e politico della RPC, con rilevanti ripercussioni per la politica estera. Il Governo, assecondando la globalizzazione e i processi di integrazione sovranazionale, aspira al cambio di governance dei mercati internazionali attraverso una stabilizzazione della crescita economica, che, per alcuni versi, riecheggia le teorie reaganiane in quanto rivolta all'offerta. Per la prima volta viene fissato un obiettivo flessibile del tasso di crescita, compreso in un range tra il  6,5% ed il 7%, che deve permettere alla Cina non solo di scongiurare il sempre paventato hard landing, ma soprattutto di puntare sul miglioramento qualitativo, sostanza della nuova normalità, di tagliare il debito, di riformare le imprese di Stato e di regolare i mercati finanziari.
 
LE VIE DELLA SETA – Lo sviluppo può consolidarsi solo in una prospettiva di lungo periodo e di massima apertura, mai concepita prima in maniera così forte, dando un ulteriore input all'OBOR (One Belt One Road), intreccio della storica Via della Seta con la Maritime Silk Road del nuovo millennio, per tessere un nuovo regionalismo multilaterale, che

potenzialmente coinvolgerebbe un'area che rappresenta il 55 % del PIL del mondo, il 70 % della popolazione mondiale e il 75 % delle riserve energetiche conosciute, e che viene trasfuso in una vasta gamma di accordi per uno stanziamento di circa 40 miliardi di dollari.
Ma la strategia va molto oltre, fino al cuore dell'Europa, attraverso la costruzione di stretti legami con i suoi Paesi orientali (come il Presidente cinese ha sostenuto nel viaggio di fine marzo nella Repubblica Ceca), in un network di cooperazione che si sta estendendo, attraverso ingenti investimenti su progetti a basso rendimento in Paesi ad alto rischio, a tutto il mondo post-occidentale, che la Cina aspira a guidare, distribuendo 50 miliardi di dollari per la nuova Banca Asiatica di investimento per le infrastrutture (AIIB) e 10 miliardi per Nuova Banca di Sviluppo, guidata dai BRICS.

UNA CINA GREEN –
La normalizzazione dello sviluppo procede attraverso una riqualificazione in senso innovativo, fondata su una economia green ed ecosostenibile, implementando la lotta all'inquinamento, diminuendo i consumi di energia del 15% e le emissioni di CO2 del 18% rispetto al 2015. In quest'ottica sono previste politiche industriali nuove, soprattutto nei settori siderurgico e minerario, sferzati da importanti crisi di sovraccapacità ed oggetto di profonda riconversione (soprattutto per le aziende statali altamente improduttive, definite zombies companies). Nel corso del viaggio di Xi Jinping in Medio Oriente e Nord Africa molto spazio si è dato all'approvvigionamento di risorse energetiche(proprio per non attingere alle risorse inquinanti interne) e per l'uso dell'energia nucleare in una cornice protetta, come emerso anche al Summit sulla Nuclear Security.


PROBLEMI SOCIALI – Le nuove politiche economiche, che prevedono tagli per 1,8 milioni di posti di lavoro 'nei settori del carbone e dellacciaio, dovranno però tener conto dei riflessi che impattano pesantemente sul tessuto sociale e richiedono il varo di solide politiche di welfare state per attenuare le troppo stridenti disuguaglianze, che conducono a proteste sempre più diffuse, sintomatiche di un disagio in espansione. È previsto lo stanziamento di massicci fondi (si parla di 100 miliardi di yuan) per il ricollocamento dei lavoratori in altri ambiti, soprattutto metropolitani, a seguito del sorpasso storico dei cinesi stanziati in città su quelli residenti in aree rurali, prevedendo però l'hukou urbano solo per il 45% della popolazione totale. Il XIII Piano quinquennale fonda la fattibilità su un postulato: la profonda riforma del sistema di registrazione, che consentirà anche alla popolazione proveniente dalle campagne di poter consumare senza preoccupazioni il proprio reddito in quanto, potendo fruire pienamente dei servizi pubblici, sarà possibile un'inversione di tendenza della tradizionale propensione al risparmiodelle famiglie cinesi.

Le riforme sono quindi avviate, tra molte contraddizioni, in un Paese flagellato ancora dalla povertà, che avviluppa più di 70 milioni di cinesi nonostante la forte crescita dei salari e del reddito delle famiglie. Il Piano appena approvato si focalizza pertanto non tanto sugli investimenti e l'export (che comunque supereranno i 600 miliardi di dollari), quanto sui servizi e suiconsumi interni, prevedendo un aumento notevole dei fondi  destinati alle politiche educative e alla sanità, fissando un obiettivo ambizioso: il raddoppio entro il 2020 del PIL pro capite e un aumento di 6 punti percentuale del settore servizi, che pare da una parte in continua ascesa. Si tenterà anche diabbassare il tasso di disoccupazione, ora intorno al 5,1%, ma probabilmente calcolato per difetto, creando posti di lavoro per un futuro dinamico, di benessere condiviso tra i nuovi attori della globalizzazione, afflitti da enormi disparità interne.

CHIUSURA DELLE SESSIONI – Li Keqiang, nella conferenza di chiusura delle due Sessioni, ha sostenuto che il malfunzionamento dell'economia reale rappresenta il maggiore rischio per una reale stabilizzazione della Cina, inserita in un contesto di crescita globale ancora fiacca e di una inquietante mutevolezza del quadro geopolitico. Inoltre, il Governo deve procedere con il riaggiustamento strutturale attraverso radicali riforme, che passano anche  per i mercati finanziari, soprattutto dopo i recenti crolli di borsa, che hanno diffuso il timore di una svalutazione dello yuan da cui deriverebbe una ancor maggiore volatilità dei mercati globali. In questa ottica si collocano sia  il taglio dei tassi di interesse che le riduzioni mirate alle aliquote di riserva imposte alle banche, al fine di creare un legame proficuo tra l'economia reale e le istituzioni finanziare, sfidando la supremazia del dollaro da una piattaforma più solida, ancorata all'information technology, che sta dando amplio contributo all'informazione e alla crescita, oltre che alla lotta contro il terrorismo internazionale, arrivato alle frontiere cinesi.

LE PROSPETTIVE FUTURE –
Emerge così una progettualità nuova, da grande potenza né aggressiva né egemonica, che sta cercando di inserirsi nell'attuale ordine internazionale, dirigendolo verso nuovi confini, come appena delineato nel corso del China Development Forum 2015 (CDF2015) che, dal 2000, si tiene nella capitale cinese, e riunisce un numero sempre più consistente di delegati di Governi ed organizzazioni internazionali, studiosi di fama mondiale e rappresentanti delle imprese più competitive. L'impegno che il Governo cinese si prefigge, corollario di quanto emerso nel corso delle lianghui, è quello di lavorare per raggiungere non solo una società moderatamente prospera in Cina, ma di esportare un po' di benessere sulle strade tracciate dalla Via della Seta fino ai confini del mondo, seppur tra mille dubbi e incertezze.