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Quasi
cinque anni fa, nel giugno 2011, ventisei milioni di italiani votarono
sì in un referendum con il quale si stabiliva che l'acqua deve essere
pubblica. Oggi, ma non è la prima volta, si cerca di cancellare quel
risultato importantissimo, approvando norme che sostanzialmente
consegnano ai privati la gestione dei servizi idrici. Non è una
questione secondaria, perché si tratta di un bene della vita e perché
viene messa in discussione la rilevanza di uno strumento essenziale per
l'intervento diretto dei cittadini. Tutto questo avviene in un momento
in cui si parla intensamente di referendum sì che, prima di
approfondire la questione, conviene dire qualcosa sul contesto nel
quale ci troviamo.
Una domanda, prima di tutto. Il 2016 è l'anno del referendum o dei
referendum? Da molti mesi si insiste sul referendum autunnale, dal
quale dipendono un profondo mutamento del sistema costituzionale e, per
esplicita dichiarazione del presidente del Consiglio, la stessa
sopravvivenza del governo. Ma nello stesso periodo si sono via via
manifestate diverse iniziative dei cittadini per promuovere altri
referendum, ma anche per raccogliere firme per presentare leggi di
iniziativa popolare e per chiedere che la Corte costituzionale si
pronunci sulla legittimità della nuova legge elettorale (e già il
Tribunale di Messina ha inviato l'Italicum alla Consulta).
Questo non significa che quest'anno saremo chiamati a pronunciarci su
una serie di referendum. Questo avverrà in un solo caso, il 17 aprile,
quando si voterà per dire sì o no alle trivellazioni nell'Adriatico.
Per gli altri dovremo aspettare il 2017. Ma già dai prossimi giorni
cominceranno le diverse raccolte delle firme, con effetti politici che
non possono essere trascurati. In un tempo dominato dal distacco tra i
cittadini e la politica, dalla progressiva perdita di fiducia nelle
istituzioni, questo attivismo testimonia l'esistenza di riserve diffuse
di attenzione per grandi e concreti problemi, di mobilitazioni non
sollecitate dall'alto che non possono per alcuna ragione essere
sottovalutate. Ma non saremo di fronte soltanto ad un inventario di
domande sociali. Poiché a ciascuna di queste domande si fa
corrispondere una iniziativa istituzionale, questo significa che i
cittadini diventano protagonisti della costruzione dell'agenda
politica, dell'indicazione di temi di cui governo e Parlamento dovranno
occuparsi. Non è un fatto secondario per chi vuole stabilire lo stato
di salute della democrazia nel nostro Paese.
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Seguiamo i diversi casi in cui si vuol dare voce ai cittadini. Una
larga coalizione si è costituita intorno a tre referendum “sociali”,
che riguardano lavoro, scuola, ambiente e beni comuni, per abrogare
norme di leggi recenti (Jobs act, “buona scuola”) che più fortemente
incidono sui diritti.
Tre sono pure i referendum istituzionali, poiché a quello sulla riforma
costituzionale se ne aggiungono due riguardanti l'Italicum. Le leggi
d'iniziativa popolare riguardano l'articolo 81 della Costituzione, il
diritto allo studio nell'università (per iniziativa della rete
studentesca Link), la disciplina dell'ambiente e dei beni comuni.
E bisogna aggiungere l'iniziativa della Cgil che sta consultando tutti
i suoi iscritti su una “Carta dei diritti universali del lavoro”,
mostrando come si vada opportunamente diffondendo la consapevolezza che
vi sono decisioni che bisogna prendere con il coinvolgimento il più
largo possibile di tutti gli interessati.
Sarebbe un grave errore archiviare queste indicazioni come se si fosse
di fronte ad una elencazione burocratica. Vengono invece poste tre
serissime questioni politico-istituzionali: come riaprire i canali di
comunicazione tra istituzioni e cittadini, per cercar di restituire a
questi la fiducia perduta e avviare così anche una qualche
ricostruzione dei contrappesi costituzionali; come evitare che si
determini una inflazione referendaria; come riprendere seriamente la
riflessione su “ciò che resta della democrazia” (è il titolo del bel
libro di Geminello Preterossi da poco pubblicato da Laterza).
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Ma sarebbe grave anche giungere alla conclusione che l'unico referendum
che conta sia quello, sicuramente importantissimo, sulla riforma
costituzionale, e che tutti gli altri non meritino alcuna attenzione e
che si possa ignorarne gli effetti.
Sembra proprio questa la conclusione alla quale maggioranza e governo
sono giunti negli ultimi giorni, nell'approvare le nuove norme sui
servizi idrici, che contraddicono il voto referendario del 2011. Quel
risultato clamoroso avrebbe dovuto suscitare una particolare attenzione
politica e, soprattutto, una interpretazione dei risultati referendari
la più aderente alla volontà dei votanti. E invece cominciò subito una
guerriglia per vanificare quel risultato, tanto che la Corte
costituzionale dovette intervenire nel 2012 con una severa sentenza che
dichiarava illegittime norme che cercavano di riprodurre quelle
abrogate dal voto popolare. Ora, discutendo proprio una nuova legge in
materia, si è prodotta una situazione molto simile e viene ripetuto un
argomento già speso in passato, secondo il quale formalmente l'acqua
rimane pubblica, essendo variabili solo le sue modalità di gestione. Ma
qui, come s'era cercato di spiegare mille volte, il punto chiave è
appunto quello della gestione, per la quale le nuove norme e il testo
unico sui servizi locali fanno diventare quello pubblico un regime
eccezionale e addirittura ripristinano il criterio della ”adeguatezza
della remunerazione del capitale investito” cancellato dal voto
referendario.
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È
evidente che, se questa operazione andrà in porto, proprio il tentativo
di creare occasioni e strumenti propizi ad una rinnovata fiducia dei
cittadini verso le istituzioni rischia d'essere vanificato. Se il voto
di milioni di persone può essere aggirato e messo nel nulla, il
disincanto e il distacco dei cittadini cresceranno e crollerà
l'affidabilità degli strumenti democratici se una maggioranza
parlamentare può impunemente travolgerli.
Questo, oggi, è un vero punto critico della democrazia italiana, non il
rischio di una inflazione referendaria sulla quale Ian Buruma ha
richiamato l'attenzione. Le sue preoccupazioni, infatti, riguardano un
particolare uso del referendum, populistico e plebiscitario, promosso
dall'alto, e dunque l'opposto del referendum per iniziativa dei
cittadini, che è il modello adottato dalla Costituzione. I costituenti,
una volta di più lungimiranti e accorti, hanno previsto una procedura
per il referendum che lo sottrae al rischio di divenire strumento di
quel dialogo ravvicinato tra “il capo e la folla” indagato da Gustave
Le Bon. E che prevede una separazione tra tempi referendari e tempi
della politica, per evitare che questi stravolgano il senso del ricorso
a uno strumento così delicato della democrazia diretta.
Anche per questa via, dunque, siamo obbligati ad interrogarci intorno
al senso della democrazia nel tempo che stiamo vivendo. Di essa si è
talora certificata la fine o si sono segnalate trasformazioni tali da
indurre a parlare, ben prima delle recenti sgangherate polemiche, di
democrazia “plebiscitaria”, “autoritaria”, “dispotica” (forse la
lettura di qualche libro dovrebbe essere richiesta a chi pretende di
intervenire nelle discussioni). Per analizzare il concreto
funzionamento delle istituzioni credo che non sia più sufficiente
parlare di democrazia “in pubblico” e che il moltiplicarsi degli
strumenti di intervento quotidiano dovrebbe farci ritenere almeno che
la democrazia si è fatta “continua”. Ma forse, se vogliamo indagare il
nuovo rapporto tra Parlamento e governo, con il progressivo
trasferimento a quest'ultimo di quote crescenti di potere di decisione,
questa nuova realtà si coglie meglio parlando, come fa Pierre
Rosanvallon, di una “democrazia di appropriazione”, nella quale il
mantenimento degli equilibri costituzionali è affidato alla costruzione
di istituzioni in cui sia strutturato un ruolo attivo dei cittadini,
passaggio necessario per recuperare una “democrazia della fiducia”.
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possibilità,
reazioni e soluzioni che possono verificarsi quando all'interno di una
compagine (collettiva o personale, partito politico, chiesa, matrimonio
o unione di fatto) sorgono delle controversie.
Se i contrasti, anche chiariti duramente e mai del tutto superati,
risultano compatibili, l'unione persiste: i coniugi non divorziano, i
compagni non si lasciano, i dissidenti non escono dal partito o dalla
chiesa. Se i contrasti si rivelano — per ragioni oggettive o per la
psicologia dei contendenti — inconciliabili, l'unità viene intaccata:
secessione dal partito, microscisma della chiesa quello di Lefebvre,
separazione dei partener. Il distacco può avvenire nel rispetto e nella
persistenza di un legame affettivo oppure nello scontro violento, in
cui l'originario legame si trasforma in feroce avversione.
Se quel legame, di qualsiasi genere, era stato autentico, la sua
rottura non dovrebbe avvenire senza responsabili tentativi di sanare le
ferite. Si assiste invece a una continua accelerazione dei processi
dissolutivi, uscite, rientri e nuove uscite
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tutti essere riconosciuti per legge?
Anche l'incesto può essere brutale violenza ma anche passione umana,
come ci hanno raccontato tante umanissime storie di vita vissuta e
tanta grande letteratura. In Svezia, anni fa, un fratello e una sorella
avevano chiesto di sposarsi, cosa che non fu loro concessa e non credo
solo per timori eugenetici, che potrebbero comunque venire in vari modi
aggirati. Freud (per tali ragioni pure duramente attaccato) ci ha
insegnato che con la sublimazione di certi desideri, a esempio ma non
solo quelli edipici, con la loro trasformazione in un'altra forma di
amore, ha inizio la civiltà. È una sciagura sublimare troppo, ma lo è
anche non sublimare nulla. Si è visto nella famiglia tradizionale un
nucleo dell'antropologia civile. La famiglia tradizionale può essere e
molte volte è stata anche violenta, soffocante e nemica del libero
sviluppo della persona. È ovvio che persone capaci di intelligente e
attento amore possano far crescere un bambino meglio di genitori
carnali incoscienti e snaturati o anche solo ottusamente
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da gruppi politici e proliferazione di questi ultimi, tempi sempre più
abbreviati per lo scioglimento delle unità famigliari e affettive,
eterno amore che finisce alla prima lite per la scelta delle vacanze.
Se acquisto uno shampoo e non ne sono soddisfatto, posso sostituirlo
immediatamente, ma dovrebbe essere diverso se il distacco avviene da
una persona un tempo cara, da un partito o da una chiesa in cui ci si
era riconosciuti. Invece la velocità delle conversioni o delle
apostasie è invece sempre più alta, non si riesce più a seguire chi ha
fondato un nuovo partito o una nuova corrente perché questi sono già
riconfluiti in un altro alveo, così come non si riesce a star dietro a
chi si separa da chi per mettersi con chi nelle riviste illustrate che
si leggono dal parrucchiere.
Diritti e desideri. Ogni desiderio, se è forte, chiede, esige di essere
appagato, e in questa tensione, qualsiasi sia il desiderio, c'è uno
struggimento, una nostalgia dolorosa che sono parte essenziale della
nostra persona. Possono tutti essere riconosciuti per legge?
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incapaci di intelligente amore.
L'amore omosessuale può essere elevato o turpe al pari di quello
eterosessuale. Basta aver letto Il Grande Sertão di João Guimarães Rosa
per sapere e capire che ci si innamora non di un sesso, ma di una
persona. Ma gli antichi Greci celebravano l'amore omosessuale per il
suo rapporto anche spiritualmente diverso con la generazione, con la
radice duale dell'umanità. Ho conosciuto e conosco omosessuali bravi
genitori del loro figlio — avuto da una donna, non da un utero
affittato. In ogni caso, il protagonista non è il desiderio della
coppia né omo né eterosessuale, bensì il bambino, che comunque nasce da
un uomo e da una donna e la cui maturazione è verosimilmente arricchita
dalla crescita non necessariamente con i genitori naturali ma con un
uomo e una donna, espressione per eccellenza di quella diversità
(culturale, nazionale, sessuale, etnica, religiosa e così via) che è di
per sé più creativa e formativa di ogni identità a senso unico. Il
bambino, ha scritto su Facebook Vannino Chiti, «è soggetto di diritti,
non un mero oggetto di desideri».
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Può
ogni desiderio (escludendo beninteso quelli criminosi) costituire un
diritto? Una delle pochissime persone che hanno affrontato questa
domanda con rigore, chiarezza e umanità è stato Giuseppe Vacca,
presidente dell'Istituto Gramsci. Come Vacca, pure Mario Tronti,
senatore del Pd e, cosa ben più importante, leader e forte testa
pensante dell'operaismo italiano degli anni Settanta, riconoscendo
tutti i diritti alle coppie omosessuali (assistenza, eredità,
convertibilità delle pensioni e così via), ha espresso forti riserve
sulle adozioni gay, tanto da sottoscrivere il documento contrario a
quest'ultime. Non è un caso che tali chiare e sofferte prese di
posizione vengano da figure di rilievo della cultura marxista, formate
da un pensiero forte capace di affrontare la drammaticità del reale e
la difficoltà e necessità delle scelte. L'odierna e dominante «società
liquida» (come l'ha chiamata Bauman) miscela invece ogni problema e
ogni presa di posizione in una melassa sdolcinata e tirannica, in un
conformismo che ammette tutto e il contrario di tutto.
Tranne ciò che contesta il suo nichilismo giulivo e totalitario. Il
diritto — ricordava di recente sul Piccolo un autorevole
costituzionalista, Sergio Bartole — tutela l'individuo ma anche la
società e non può disinteressarsi delle ricadute di una legge
sull'antropologia civile ossia sui fondamenti che tengono insieme una
comunità e una società. Uno dei primissimi a capire la trasformazione
delle autentiche e umane visioni del mondo in un indistinto
titillamento pulsionale è stato Pasolini, quando scriveva sull'aborto o
quando diceva che il voto per il divorzio era un voto giusto — anche
lui aveva votato a favore del divorzio — che tuttavia molti avevano
dato per ragioni sbagliate. La maggioranza aveva votato come lui, ma
egli non poteva riconoscersi in essa, perché lui aveva votato per il
divorzio quale rimedio a situazioni dolorose e bloccate, quale
possibilità di ricomporre esistenze inceppate.
Rimedio ovvero eccezione che non negava i valori e sentimenti della
famiglia né la funzione formatrice della sua unità. Quella maggioranza
che aveva votato come lui gli riusciva odiosa, espressione di un
relativismo nichilista che riduce tutto, anche sentimenti e valori, a
merce di scambio e tende sempre più a dissolvere ogni unità forte di
vita e di pensiero. Lo si constata sempre più in ogni settore, dalla
politica alla cultura alla vita privata. È il trionfo del consumo,
denunciato da Pasolini; del consumo che esorbita dal suo ambito — il
consumo e la possibilità di accedervi sono ovviamente una fondamentale
condizione di vita dignitosa e godibile — per inglobare ogni aspetto
della realtà e dell'esistenza.
«Il riconoscimento per legge del desiderio individuale quale fonte
della libertà e del diritto» — ha detto Giuseppe Vacca — crea
inevitabilmente frammentazione e atomizzazione in ogni campo. Non a
caso nascono molte nuove e spesso effimere formazioni politiche sorte
dall'impulso a scindersi, alla prima divergenza, da una precedente
aggregazione con la cui linea prevalente non si concorda. Molti anni
fa, in uno dei suoi geniali saggi, Lealtà, defezione e protesta ,
Albert Hirschman analizzava le diverse
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Lo
spettacolo che sta dando la lotta tra le varie anime del Pd sarebbe
sconsolante se non fosse un delirio di tali dimensioni da allontanare
un sentimento delicato come la malinconia per dare vita ad una solida
collera da scapaccioni. L'immagine mi è venuta in mente pensando non ad
un partito o ad esponenti politici bensì ad un gruppo di bambini che si
contendono urlando una palla o un sacchetto di biglie. Ci scindiamo,
non ci scindiamo, convivere è ormai impossibile, allora io me ne vado.
Chi ha un'età avanzata o ha letto qualche libro se le ricorda quasi
tutte le tante scissioni della sinistra a cominciare da quella storica
del 1921 a Livorno per finire con quella semplicemente suicida delle
elezioni regionali liguri dove un ex sindacalista di vaglia invecchiato
nel rancore ha preferito far vincere il candidato della destra
sottraendo alla candidata dell'odiato Renzi quel tanto di voti bastanti
a farla perdere. Manovra che ora si minaccia di ripetere alle comunali
di Milano, Napoli e Roma dove l'ex sindaco Ignazio Marino, fortemente
risentito per il trattamento rude di cui si ritiene vittima, potrebbe
provocare con i voti che riuscirà a raccogliere la sconfitta della sua
(ex) parte politica.
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Nemmeno ai livelli più alti questa sorda lotta cambia una sostanza nella quale alcune opinabili motivazioni politiche
s'intrecciano con sordi risentimenti reciproci. Massimo D'Alema attacca
Matteo Renzi per vendicarsi di non essere stato scelto per il
prestigioso incarico europeo di cui l'Italia disponeva. Renzi a suo
tempo preferì non designare D'Alema per non mettersi il nemico in casa,
si disse sottovoce. Sicuramente mandare D'Alema come Alto
Rappresentante della politica estera dell'Unione avrebbe dato a noi e
all'Europa un certo prestigio. La sua mancata designazione fu un errore
così come lo è adesso la furia demolitrice di D'Alema che preferisce
pascere il suo rancore rispetto ad ogni altra considerazione. Una parte
della sinistra italiana soffre il trauma del dover governare che
implica sempre una certa adattabilità al reale. Il gioco delle
esclusioni fa il resto. «Risulta difficile capire — ha scritto Emanuele
Macaluso, autorevole esponente del vecchio Pci — quando comincia la
lotta politica e quando finisce una questione personale». Il risultato
comunque è garantito: perdere.
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Residents
return to shattered Kurdish town of Cizre in the southeastern Turkey
after authorities partially lifted a curfew in place since December for
a controversial military operation against Kurdish PKK militants, on
March 2, 2016.
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