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L'avventura
italiana in Libia si prospetta abbastanza torbida anche se mons.
Gentiloni rassicura incerto che non ci andremo senza espressa ed
esplicita richiesta del governo unitario riconosciuto
internazionalmente della Libia. Hai voglia. Le forze armate italiane
insistono sulla necessità di essere in prima linea sul campo,
evidenziando come francesi e britannici siano già al fianco degli Usa.
Con Gheddafi la Libia viveva benissimo con le esportazioni energetiche
nonostante i furti del regime. Il 95 per cento delle entrate libiche
sono sempre venute dall'energia. Nel 2010 sfioravano 1,6 milioni di
barili di greggio quotidiani, oggi sono a 200.000. A ciò si aggiunge la
caduta dei prezzi. Risultato: sono passati da entrate annuali nelle
casse dello Stato pari a 50 miliardi di dollari sei anni fa ai circa 10
milioni odierni. Una catastrofe. Ne risulta che lo Stato da due mesi
non paga più gli stipendi al suo milione e mezzo di dipendenti. Sono in
piena crisi. Pessime le conseguenze. Storicamente la Libia, come tutti
i Paesi produttori, impiega nelle aziende statali in gran
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parte
della forza lavoro nazionale. Ora su cinque milioni di abitanti
complessivi quasi un terzo non riceve lo stipendio da dicembre. Il che
significa che la gente non si fida più di nulla e di nessuno. Chi è
stato veloce ha ritirato tutti i suoi risparmi. Ora il limite
prelevabile per legge sono solo 50 euro al giorno. L'economia è
bloccata, nessuno investe, impazza il mercato nero. Ma l'effetto più
grave si individua nella crescita della criminalità. L'Isis è meno
pericoloso della bande di ladri.
Uno legge i giornali italiani e crede che il la maggior preoccupazione
dei libici sia la creazione di un governo di unità nazionale tra
Tripoli e Tobruk, che permetta finalmente di coordinare gli sforzi
contro la penetrazione dell'Isis e lo sfaldamento nazionale. Invece
pare che la ggente sia largamente scettica, se non addirittura
ostile al gabinetto unitario così come mediato anche con l'aiuto delle
Nazioni Unite negli ultimi mesi. Insomma che alla fine il parlamentino
di Tobruk voti o meno la fiducia al nuovo governo conta molto poco.
Quel governo è finto, artificiale, composto da
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persone
che trascorrono gran parte del loro tempo, avrà vita breve. L'ostilità
per Fayez al Sarraj, il neo-premier (ma ancora solo sulla carta) è
ampia e sentita perché ritenuto un burattino nelle mani degli
stranieri. Come del resto è il generale Khalifa Haftar, che Tobruk
vorrebbe come prossimo ministro della Difesa, ma che in passato fu un
fedele di Gheddafi. Ci ferma all'imbrunire perché non vuole si scattino
foto di un certo palazzo. Ma alla fine neppure le guarda e non si tira
indietro a ironizzare scherzoso sul destino incerto di questa
rivoluzione che non sta andando da nessuna parte.
L'impressione è netta: la Libia importa più a nessuno nel momento in
cui il petrolio costa venti dollari e la crisi internazionale fa
prevedere che non ne servirà granche nei prossimi dieci anni. Tra
dieci anni anche la motorizzazione privata sarà presumibilmente
tutta a trazione elettrica e quindi… sai quanto importa a inglesi
francesi e americani se si riapre il fronte libico dell'immigrazione
clandestina in Italia. E l'Isis? Col petrolio a venti dollari anche
l'Isis prima o poi si spegne.
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A
me pare che negli ultimi due anni stia mutando completamente il quadro
internazionale e mediterraneo per un succedersi di avvenimenti che
vengono letti quasi sempre separatamente. Il nodo è il crollo del
prezzo del petrolio finora consumato in grandi quantità alla faccia dei
prezzi per produrre una sovrabbondanza di merci che non sono più
indispensabili. Preceduto (il crollo dei prezzi petroliferi) dalle
infauste primavere arabe ormai parcheggiate in mano a governi
peggiori dei precedenti per l'incapacità dell'occidente di darvi
uno sbocco o una guida, accompagnate dall'apertura di nuovi fronti che
vedono la rinascita di tensioni etniche e religiose fino ieri
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sopite dai soldi del petrolio e dalla mano criminale dei governi locali.
Gli Usa di Obama che hanno scelto l'isolazionismo accompagnati da una
tensione di rivincita negli stati periferici dell'orso russo in tandem
con la Nato.
In questo quadro esplode l'ingresso fragoroso dell'Iran nel consesso
delle nazioni che contano (grande merito di Obama), unica nazione del
Medio Oriente che abbia una struttura complessiva (libertà democratiche
a parte…) di livello europeo. Diciamo l'unico paese che può essere
autosufficiente in tutto nella zona. L'unico paese che può stare alla
pari di Israele.
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Adesso
i conti in Medio Oriente non si debbono più fare coi noti protagonisti.
Oggi bisogna pensare ad una Russia che non mollerà Assad senza che il
mondo non gli conceda definitivamente di girare comodamente il
Mediterraneo. Oggi bisogna pensare ad un Iran che sostanzialmente
incorporerà economicamente anche l'Iraq e diverranno leader
internazionali. Oggi i conti bisogna farli coi Kurdi e con una Turchia
che –nazione Nato- li massacra ed ai quali bisognerà dare una patria
visto che hanno in mano l'acqua di due tre nazioni.
Insomma in due tre anni il mondo c'è girato dentro la testa: meglio che ne prendiamo atto e pensiamo come starci.
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La
prima. Mentre l'economia contabilizzabile del Paese arranca, secondo la
Cgia di Mestre quella riconducibile alle attività in nero e alla
criminalità organizzata non conosce battute d'arresto. Se tra il 2011 e
il 2013 l'economia sommersa e quella illegale sono aumentate di 4,85
miliardi, arrivando a toccare i 207,3 miliardi nel 2013 (pari al 12,9%
del Pil), la fetta 'pulita' di reddito nazionale - cioè al netto
dell'economia non osservata - è diminuita di 36,8 miliardi, scendendo
sotto quota 1.400 miliardi. Ipotizzando prudenzialmente che l'incidenza
percentuale dell'economia non osservata sul Pil sia rimasta la stessa
anche nel biennio successivo al 2013, gli artigiani mestrini stimano in
quasi 211 miliardi il "contributo" che questa economia "grigia" ha dato
al Pil nel 2015. Questo aspetto, per la Cgia, ha effetti molto
importanti sul fronte fiscale. "Nel 2015 - sottolinea Paolo Zabeo della
Cgia - al lordo dell'operazione bonus Renzi, la pressione fiscale
ufficiale in Italia è stata pari al 43,7%. Tuttavia, il peso
complessivo che il contribuente onesto sopporta è di fatto superiore ed
è arrivato a toccare la quota record del 50,2%".
Per l'associazione artigiani, la pressione fiscale è data dal rapporto
tra l'ammontare complessivo del prelievo (imposte, tasse, tributi e
contributi previdenziali) e il Prodotto interno lordo (Pil) che si
riferisce non solo alla ricchezza prodotta in un anno dalle attività
regolari, ma anche da quella "generata" dalle attività sommerse (cioè
non in regola con il fisco) e da quelle illegali che consistono in uno
scambio volontario tra soggetti economici (contrabbando, prostituzione,
traffico di sostanze stupefacenti). Ipotizzando in via prudenziale che
nel 2014 e 2015 l'incidenza dell'economia non osservata sul Pil sia
rimasta la stessa del 2013, per la Cgia si può pensare che nel 2015
abbia sfiorato i 211 miliardi di euro. Da qui il dato che la
pressione fiscale reale balza al 50,2%. "E' evidente che con un peso
fiscale simile - dichiara il segretario Renato Mason - sarà difficile
trovare lo slancio per ridare fiato all'economia del paese in una fase
dove la crescita rimane ancora molto debole e incerta".
La seconda. L'idea del governo Renzi sarebbe quella di mettere
più soldi nelle tasche degli italiani e di tutti gli europei. Con una
manovra concordata con Bruxelles e non solitaria di taglio delle tasse.
Un pacchetto di idee del governo italiano per provare a disegnare una
via di fuga dalla crisi economica che ha avviluppato di nuovo il
Vecchio Continente e quasi tutti i Paesi industrializzati. Prima di
tutto perché la politica europea dei bassi tassi non convince i
consumatori che tendono a non indebitarsi più e a mantenere una riserva
di garanzia nei loro conti correnti. Si sentono ancora feriti da quello
accaduto dal 2008 ad oggi. E non vogliono più correre rischi.
Secondo perché è ormai evidente come le politiche di pura austerità
inducono all'avanzare nei paesi occidentali dei fronti populisti e
anti-austerity. E dal rischio “instabilità”. L'ultimo esempio è stato
offerto dall'Irlanda.
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Nelle
elezioni di venerdì scorso — nonostante le recenti buone performance
economiche di quel Paese il cui Pil cresce del 7% — la coalizione di
governo non solo è uscita sconfitta, ma sono stati premiati proprio i
partiti che più hanno attaccato i sacrifici imposti negli anni
precedenti. Risultato: ingovernabilità. Una condizione temuta anche in
Spagna dove il ritorno alle urne è ormai un'opzione concreta. In
Francia, dove l'ultima tornata amministrativa ha messo in crisi lo
storico sistema bipolare a favore della destra di Le Pen. In Gran
Bretagna, dove il prossimo referendum sull'adesione all'Ue è un macigno
pesantissimo. E nel nostro Paese dove le forze antisistema formano un
blocco permanente che supera il 30 per cento degli elettori. Ma anche
negli Usa dove il successo di Trump sta scuotendo il Partito
Repubblicano.
Ecco quindi l'ideona (detta senza ironia…) di Renzi. La soluzione che
l'Italia è intenzionata a prospettare prima ai leader del socialismo
europeo e poi a tutti quelli dell'Unione, è proprio quella di
intervenire sulle tasse. «Non è una questione che riguarda solo
l'Italia - è il discorso che il capo del governo sta svolgendo in tutti
i suoi colloqui internazionali, compreso quello di venerdì scorso con
il presidente della Commissione Ue Juncker - perchè noi ci siamo
rimessi in moto. Ma tocca tutti e a cui tutti devono dare una risposta
se non si vuole peggiorare la situazione ».
Il premier è pronto a portare la questione a Bruxelles per un
intervento coordinato e non isolato di taglio fiscale, da impostare nel
2016 e rendere operativo dal prossimo anno. Ne parlerà il 12 marzo a
Parigi ai leader del Pse, il partito socialista europeo, in vista del
Consiglio Ue del 17. Nel frattempo Palazzo Chigi e ministero
dell'Economia lavorano al piano italiano, puntando ad accelerare il
sollievo fiscale (la pressione delle tasse sul reddito è ancora alta,
sopra il 43%). Il taglio dell'Irpef è fissato per il 2018 ma «non
escluderei che sia possibile, se le cose dovessero andare un po' per il
verso giusto, anticiparlo al 2017», ha confermato ieri il viceministro
all'Economia Enrico Morando.
Il «verso giusto» è fatto di molte cose. Intanto una flessibilità nei
conti che consenta, ad esempio, di sfiorare il 3% nel rapporto tra
deficit e Pil nel 2017, ora previsto all'1,1%. Ogni decimale aggiuntivo
vale un miliardo e 600 milioni. E dunque arrivare per ipotesi al 2,9%
significa liberare ben 29 miliardi.
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Nella
road map di Renzi, c'è anche l'intervento sulle aliquote Irpef
che era previsto per la fine del 2017. Ma l'esito dei contatti avviati
in queste settimane potrebbe cambiare quell'agenda. Non è un caso che
lo stesso ministro dell'Economia, Pier Carlo Padoan, al G20 di Shangai
abbia usato due parole che rappresentano il cuore della trattativa:
«Spazio fiscale».
Nelle bozze in esame, infatti, nessuno prende in considerazione
l'ipotesi limite di scorporare dal calcolo del deficit i soldi
stanziati per far scendere la pressione fiscale. L'idea, semmai, è
quella di rendere ancora più cogente la regola della «flessibilità».
Tagliare le tasse significa anche mettere più soldi in busta paga,
riducendo il cuneo fiscale, ovvero la differenza tra costo lordo e
netto del lavoro. Un piano c'è: consiste nel tagliare di sei
punti il cuneo dei neo-assunti, tre punti a carico del datore e tre del
lavoratore. Per sempre. Esistono due strade per attuarla: attraverso
l'Irpef, diminuendo le aliquote, oppure tagliando i contributi
previdenziali, ovvero gli accantonamenti per la pensione.
La strada Irpef è però molto costosa. L'operazione può valere
all'incirca 6 miliardi sul triennio (la metà del bonus lavoro del
2015). Ma questi contributi in meno non vengono compensati all'Inps
dallo Stato, come di solito avviene per tutti gli sgravi sul lavoro. Al
contrario, rappresentano un taglio secco sulle pensioni future: meno
contributi versati, stipendio un po' più ricco, ma assegno più povero
in futuro. Ecco perché la proposta prevede pure un'opzione: la
possibilità per il lavoratore di versare i suoi tre punti in meno di
contributi alla previdenza integrativa, anziché farli finire in busta
paga
C'è una terza notizia sempre (di Valentina Conte) da LaRepubblica del
28.02.2016 ma che ormai è “storica” visto che se ne parla da oltre sei
mesi e la si aggiorna man mano.
Negli anni della grande crisi - dal 2008 al 2015 – di voucher ne sono
stati venduti 278 milioni, per un valore di 2,8 miliardi. Ma solo
nell'ultimo anno, dopo che il governo Renzi ha elevato il tetto annuo
di retribuzioni con i ticket da 5 a 7 mila euro, sono letteralmente
esplosi: 115 milioni di tagliandi venduti, 106 milioni quelli riscossi
da un milione e 700 mila lavoratori (25 mila i voucheristi nel 2008).
Ne restano in giro ancora 9 milioni: dove sono? Il governo le giustifica come emersione dal nero.
Ma il dubbio di Boeri-INPS , condiviso dai sindacati, è che non sia così.
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Il
voucher non è più lo strumento per pagare i lavoretti estivi degli
studenti o dei pensionati, come in origine. Al contrario, somiglia
sempre più a una regolare e parziale forma di retribuzione, tra l'altro
esentasse, priva di diritti (maternità, malattia, ferie) e con
contributi previdenziali talmente minimali da essere inutili. Nell'anno
del Jobs Act questo il sospetto - i datori hanno scelto i buoni per
stipendiare lavoro a termine. Ecco che il voucher esplode dove non te
lo aspetti. Più al Nord che al Sud (benché la crescita in Sicilia sia
stata stellare), per l'80% tra gli under 49 (e il 40% under 29),
praticamente solo tra lavoratori comunitari (al 92%), nel terziario per
il 50% e solo il 15% nei settori classici di utilizzo dei ticket, come
giardinaggio, lavoro domestico, attività sportive. Altro che badanti e
raccoglitori di mele. Qui siamo di fronte a camerieri, baristi,
commessi. E come spiegare poi il gap tra voucher acquistati dai datori
e riscossi dai lavoratori? Nel 2015 lo sbilancio è di nove milioni di
ticket tenuti nel cassetto, in caso passasse qualche controllo. Che
però non passa. E via col nero...
Mi pare che Renzi presti poca attenzione – assai di meno degli
italiani che prima di spendere DEVONO davvero pagare le tasse e i
servizi pubblici dalla sanità ai comuni- al problema sollevato non solo
dalla CGIA di Mestre. I conti della badante sono presto fatti: se
venisse recuperata in 5 anni l'evasione fiscale e contributiva di quei
211 miliardi di PIL nero, l'Italia disporrebbe ogni anno di 40-50
miliardi di investimenti potenziali ed altrettanti per la riduzione del
debito . Che in cinque anni scenderebbe da 2400 miliardi a 2100-2150
miliardi.
Il fatto è che Renzi da questo orecchio proprio non ci sente.
Come stia andando davvero la fattura elettronica (sotto il profilo del controllo dell'evasione) è ignoto.
Poi c'è lo split payment che implica la scissione del pagamento
dell'Iva da parte della pubblica amministrazione. L'ente pubblico,
attraverso questo nuovo regime, è chiamato a versare direttamente al
fornitore l'importo della fattura in relazione alla prestazione
ricevuta e, in seguito, versa il dovuto all'erario secondo i dettami
del provvedimento ministeriale. Potremmo scoprire che gli enti
pubblici… hanno dimenticato di versare l'IVA seguendo la buona
abitudine dei tempi INPDAP quando lo stato si indebitava ogni anno per
coprire la propria parte di pensioni ex contributi non versati a suo
tempo E col successivo casino indotto nell'INPS con la fusione fredda
dell'INDAP nell'INPS.
Con queste idee per la testa del fiorentino gli evasori possono dormire
sonni abbastanza tranquilli perché un governo che non ribalta una
situazione illegale di tale livello (voucher compresi) , è tutto
sommato un “buon” governo (per gli evasori: s'intende).
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Eugenio
Scalfari ha recensito (29.02.2016) su La Repubblica il libro
di Pierluigi Battista intitolato “Mio padre era fascista” autore di cui
si dichiara amico da molti anni e che segue con interesse nel suo
lavoro di editorialista del “Corriere della sera”. Una situazione
delicata quella del “creatore” di un quotidiano concorrente recensisca
il lavoro di uno degli editorialisti del quotidiano concorrente diretto.
Ma qui non parlo ne della recensione ne del libro ma dell'ampia seconda
parte (della recensione) nella quale Scalfari descrive come e perché
lui divenne antifascista o si ritrovò tal quale forse del tutto
inaspettatamente.
Leggiamo:
Non starò qui a raccontare come vissi quel periodo, negli anni in cui
frequentavo il ginnasio a Roma, poi a Sanremo, poi di nuovo a Roma
quando entrai all'Università nel '41. Dirò soltanto che la mia
appartenenza al fascismo non era minimamente turbata da dubbi. Il Duce
era il Duce, le canzoni che Battista padre canticchiava a casa ed aveva
cantato a squarciagola negli anni del fascismo imperante e poi di Salò,
anch'io le ho cantate e di tanto in tanto capita anche a me di
ricanticchiarle adesso. Ma c'è una differenza di fondo tra la mia
storia e quella del Battista padre.
Ai tempi miei c'erano già, ma forse c'erano sempre state, due o tre
diverse “correnti” nel partito ed anche nei Guf e nei giornali che
rappresentavano la voce studentesca dei giovani fascisti universitari.
C'era una corrente di “fascismo muscolare” rappresentata da Roberto
Farinacci, una più moderata rappresentata da Galeazzo Ciano ed infine
un'altra culturalmente frondista rappresentata da Giuseppe Bottai. Io
ero fascista nel modo di Bottai, ma molti nel giornale universitario su
cui scrivevamo erano per Farinacci a cominciare da Tedeschi che poi,
dopo la caduta di Salò e l'arrivo della democrazia in Italia, diresse
Il Borghese.
Quando fui espulso dal Guf, attraversai tre o quattro giorni di grande
sconforto, ma poi mi ripresi perché prevalse dentro di me questa
considerazione: se Carlo Scorza, segretario generale nazionale del
partito, mi ha espulso, segno è che non mi considera fascista ma
antifascista. Lui in questa materia ne sa più di me. Quindi ha ragione
lui: io sono antifascista, altrimenti non avrei scritto quell'articolo.
Così diventai sinceramente antifascista, fondammo con alcuni amici
un'apposita organizzazione clandestina ed esordimmo con una scazzottata
collettiva alla facoltà di giurisprudenza contro i giovani del Guf.
Insomma, per merito di Carlo Scorza che nel
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colloquio
terminato con la mia espulsione mi aveva strappato le spalline della
divisa che indossavo e se l'era messe sotto i piedi calpestandole, la
mia uscita e la mia “conversione” durarono quattro giorni e non
l'intera vita.
Scalfari entrò all'università a 17 anni. Tra le sue prime esperienze
giornalistiche c'è "Roma Fascista", organo ufficiale del GUF (Gruppo
Universitario Fascista), mentre era studente di giurisprudenza. Negli
anni successivi Scalfari continua a collaborare con riviste e periodici
legati al fascismo, come "Nuovo Occidente", diretto dall'ex squadrista
e fascista cattolico Giuseppe Attilio Fanelli. Nel 1942 Scalfari sarà
nominato caporedattore di "Roma Fascista".
All'inizio del 1943 (aveva 19 anni) scrisse una serie di corsivi non
firmati sulla prima pagina su Roma Fascista in cui lanciava generiche
accuse verso speculazioni da parte di gerarchi del PNF sulla
costruzione dell'EUR. Questi articoli portarono alla sua espulsione dai
GUF per opera di Carlo Scorza, allora vicesegretario del PNF. Di fronte
al gerarca intenzionato a perseguire gli speculatori, il giovane
Scalfari aveva ammesso come i suoi corsivi fossero basati su voci
generiche. Il gerarca accusò poi il giovane di essere un imboscato, e
lo prese materialmente per il bavero strappandogli le mostrine dalla
divisa del partito.
Scrive Scalfari in conclusione: Quando fui espulso dal Guf, attraversai
tre o quattro giorni di grande sconforto, ma poi mi ripresi perché
prevalse dentro di me questa considerazione: se Carlo Scorza,
segretario generale nazionale del partito, mi ha espulso, segno è che
non mi considera fascista ma antifascista. Lui in questa materia ne sa
più di me. Quindi ha ragione lui: io sono antifascista, altrimenti non
avrei scritto quell'articolo. Così diventai sinceramente antifascista,
fondammo con alcuni amici un'apposita organizzazione clandestina ed
esordimmo con una scazzottata collettiva alla facoltà di giurisprudenza
contro i giovani del Guf.
Insomma ci sono state due Italie differenti durante e dopo il fascismo.
Storie differenti. Anni differenti. C'è chi ha avuto un nonno Giuseppe
tra i soci fondatori nel 1908 della “Cooperativa dei prodi Contadini”
seguendo gli insegnamenti di Leone XIII e della Rerum Novarum. Quel
nonno terminò i suoi anni martirizzato dalle botte dei fascisti. Suo
figlio sarà nella 171.a Brigata Garibaldi. Suo nipote nel PCI. Oggi
alla finestra.
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Con questo post intendo mettere in chiaro alcune mie posizioni riguardo alla mercificazione del corpo femminile.
Non penso che poter fare del proprio corpo una fonte di lucro sia
empowering per il sesso femminile. Ci sono femministi che la pensano
così, io non la penso così. Si tratta di un argomento delicato e
complesso, ma cercherò di evidenziare gli aspetti principali del
discorso.
C'è un motivo per cui, se voglio vendere un rene o un braccio a
qualcuno, non posso farlo. Rinunciare alla propria integrità fisica in
cambio di denaro mette a rischio le fasce più deboli ed indigenti della
popolazione.
In che senso si può parlare di “libera scelta”?
Penso che una persona, nel prendere la decisione di vendere il proprio
corpo, possa essere soggetta a fortissime pressioni sociali ed
economiche; pressioni che non renderanno mai quella scelta davvero
“libera”.
A garantire la libertà di una scelta di questo genere c'è il sistema
della “donazione”: così come si può donare il sangue, o un organo, non
ho nulla in contrario all'idea che una donna decida di “donare” il
proprio utero.
La remunerazione però non farebbe altro che generare una nuova fonte di
disuguaglianza, la disuguaglianza tra chi si può permettere di tenersi
il proprio corpo e di farne ciò che vuole e chi invece è costretto a
venderne o affittarne dei pezzi per arrivare a fine mese. E questo, è
vero al di là del sesso della persona coinvolta in questo genere di
compravendita.
Penso, realisticamente, che la maternità surrogata diventerà legale in
Italia come è già legale in molti altri paesi europei in tempi
relativamente brevi. La mia preoccupazione concreta riguarda, ripeto,
le fasce più povere e svantaggiate della società. Per il resto, non
penso che sia una cosa oltraggiosa o drammatica il fatto in sé che una
donna benestante decida di far soldi mettendo al mondo un bambino per
qualcun altro.
Ma non penso neanche che sia una cosa “femminista” o che sia un passo
in avanti per l'autodeterminazione delle donne. Perché, semplicemente,
non lo è.
E non è una questione, come molti e molte recriminano, “etica”.
E' una questione politica.
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Pensare
che il fatto che una femmina possa vendere il proprio corpo o le
proprie prestazioni fisiche sia una cosa che aiuta la causa femminista
in qualsiasi senso mi sembra profondamente ingenuo.
L'ideologia in base alla quale il fatto che io abbia un corpo con certe
caratteristiche determina il ruolo sociale che devo avere è il problema
contro cui il femminismo radicale combatte. Creare o legalizzare ruoli
sociali univocamente destinati al sesso femminile è dare da mangiare al
patriarcato.
Ma non solo: dare ad un corpo, in quanto dotato di specifiche
caratteristiche, un certo valore commerciale, significa alimentare
l'idea squisitamente preistorica che le donne siano un bene di scambio.
Un'idea su cui già si basa tutta l'impalcatura della nostra società, a
partire dalla così tanto discussa “famiglia”; un'idea che dobbiamo
sforzarci di demolire, non di alimentare.
Questo è il motivo principale per cui sono, tra l'altro, profondamente
contraria all'idea che la legalizzazione della prostituzione sia una
causa femminista.
Pensare che vendere il proprio corpo ad un maschio sia un modo di
ottenere potere economico e sociale vuol dire rassegnarsi all'idea che
l'unico modo di essere libere che abbiamo passa attraverso
l'accettazione del nostro ruolo di genere.
Il femminismo radicale ragiona nei termini di eliminare le categorie di
genere. Non ragiona nei termini di fare del proprio genere un vantaggio
sociale, una carta in più da giocare, o una forma di identificazione.
Dal punto di vista strettamente mediatico, del dibattito sull'utero in
affitto mi hanno dato fastidio diverse cose, è questa è probabilmente
la ragione principale per cui ho manifestato il mio disappunto sulla
questione. La prima cosa è stata la completa mancanza di discussione
sulla vendita di sperma (che in Italia è a tutt'oggi illegale).
Tutto il dibattito è stato impostato in termini maschilisti.
E questo non fa altro che alimentare l'oscurantismo mediatico già
piuttosto forte sull'esistenza delle coppie lesbiche. Nessuno parla di
come queste coppie lesbiche dovrebbero fare un figlio.
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Non
sembrano esserci criticità di sorta; sembra che il problema
semplicemente non esista. Un mondo femminista è un mondo in cui i corpi
maschili e i corpi femminili sono ugualmente desiderabili. Pensare che
un corpo in quanto femminile sia un bene commerciale, e soprattutto un
bene commerciale più prezioso di un corpo maschile è quello su cui si
basano tutte le strutture più oppressive della nostra società
patriarcale (a partire dal matrimonio).
Da quello che ho letto in questi mesi in rete, vedo molte persone
convinte del fatto che un qualsiasi avanzamento nell'ambito dei diritti
LGBT sia un successo del femminismo. Personalmente, trovo che questo
sia un punto di vista molto ingenuo.
Un altro dei motivi che mi spinge ad essere piuttosto critica e
“fredda” nei confronti della questione della maternità surrogata è che
ritengo che noi femministi abbiamo questioni ben più significative da
discutere e da mettere in luce, e ho spesso la sensazione che fare un
ibrido moderato tra il discorso femminista e quello LGBT sia il modo
migliore per perdere di vista gli obiettivi del femminismo.
Tengo a precisare che sono profondamente disgustata dal modo in cui la
destra italiana continua a strumentalizzare il corpo femminile per
raggiungere i propri obiettivi politici, e trovo che parlare, come
fanno loro, della maternità surrogata come di una cosa “sbagliata
perché innaturale” sottolineando con toni sentimentali e melodrammatici
il fatto che “la mamma deve stare con il proprio bimbo” sia una
manifestazione del più becero e squallido sessismo.
Voglio inoltre ripetere e mettere bene in chiaro che la mia opposizione
nei confronti delle pratiche di vendita del corpo femminile non è di
tipo moralistico ma di tipo politico. Questo significa che non intendo
dare nessun giudizio di valore sulle persone che lavorano nella
prostituzione o che affittano il proprio utero; ma ritenendo che la
società patriarcale sia strutturalmente incompatibile con il benessere
del sesso femminile, penso che non esista nessun dispositivo,
all'interno della società patriarcale stessa e concepito da
quest'ultima, in grado di renderci “più libere”.
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http://c-literacy.tumblr.com/
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